Vent’anni perduti per l’autonomia del Veneto, tra incanti catalani ed affari nostrani
Assistendo da spettatore interessato alla commedia degli equivoci che il nostro Presidente Luca Zaia sta mettendo in scena e che potrebbe avere il titolo, rubandolo a William Shakespeare, Molto rumore per nulla, ad un certo punto sono stato preso da un dubbio assillante: questa sceneggiatura e questi testi mi ricordano qualcosa…
Poi mi è capitato in mano Il Gazzettino di mercoledì 27 u.s. nella sua veste elegante e sobria, ed ho posato lo sguardo sull’articolo di spalla che sotto il bandierone di San Marco sventolante, recitava: “Referendum utile per due veneti su tre”, con il sottotitolo L’Osservatorio: per il 66 % rafforzerà la Regione. Il 20 % è per l’indipendenza.
A quel punto sono corso a rovistare nei faldoni del mio archivio, che resiste all’usura del tempo e della memoria, ed ho estrapolato la documentazione, corposa ed inossidabile, che dà conto della tumultuosa vicenda nordestina degli anni ’90: un periodo storico burrascoso per i rivolgimenti traumatici sul piano politico che hanno attraversato la nostra Regione.
Tra le molte cartelle impolverate che vi cercato e trovato (e che a gentile richiesta posso fornire a tutti coloro che sono appassionati di remake) c’era naturalmente il sondaggio che – giusto vent’anni fa – dava conto di circa il 70 % della popolazione molto favorevole all’autonomia e il 17 %, udite udite, alla secessione (allora si usava così, Bossi imperante, mentre oggi fa trendy usare le suggestioni scozzese e/o catalana e quindi suona meglio indipendenza).
L’interrrogativo che immediatamente mi sono posto è stato: sono i veneti duri di cervice che, nonostante i cataclismi intervenuti e la globalizzazione imperante, sono fermi lì a difendere le posizioni terragne o, più verosimilmente, sono i ricercatori che continuano ad andare a finire sul sicuro e sparare quelle quattro tabelline che corrispondono ad un diffuso senso comune che fa tanto comodo alle redazioni dei giornali ed ad un’opinione pubblica infastidita di dover interrogarsi sugli stessi quesiti retorici quanto capziosi da un quarto di secolo, tanto da indurre i genitori a rimpallarli ai figli: “rispondi tu che quelli di…… hanno richiamato per sapere quanto ci teniamo alle sorti del nostro Veneto!”
Ma non è finita qui, naturalmente, perché all’interno delle pagine dedicate a box ed interviste sui risultati mirabolanti del sondaggio, chi poteva esprimere un commento ponderato e, per così dire, neutrale? Ma un costituzionalista di grido ciò! Ecco quindi il prof. Mario Bertolissi che of course si pone subito dalla parte dei “cittadini che hanno capito, tanti politici no”; che cosa? “che gli interessi del Veneto possano essere sostenuti principalmente attraverso l’elezione di parlamentari capaci, così come di partiti in grado di difendere le questioni che toccano maggiormente il territorio”.
Scoperta davvero sorprendente, ma soprattutto intrigante; affermazione che un esperto di linguaggio potrebbe asserire contenga una metacomunicazione che recita così: “la compagnia di deputati e senatori espressi dalla maggioranza politica che negli ultimi lustri (da Galan a Zaia) ha governato il Veneto – e che io conosco molto bene perché sono stato e sono il loro consulente giuridico– non sono stati all’altezza di esprimere le istanze dei veneti” (oddio, ci vuole un forte coraggio civile ad esprimersi così nei confronti di chi ha riposto la sua fiducia in te!).
Non pago, però, dell’intemerata ed approfittando della domanda furbetta del giornalista (Qualcuno pensa che il referendum sia un modo per accrescere i consensi della Lega e di Zaia), ecco arrivare la bordata, o meglio la pillolina blu che rafforza lo spirito democratico: “Una minoranza. Il referendum è innanzitutto l’espressione di una grande forma di libertà per i cittadini. E servirà a svegliare Roma” (Perbacco!).
Ora, lo so, quelli che di voi sono informati del fatto che il professore patavino è un costruttore materiale dell’impianto giuridico dei quesiti presentati dalla Regione Veneto e cassati quasi in toto dalla Corte Costituzionale, ed inoltre è stato il difensore della Regione Veneto stessa quando eè stata chiamata in causa presso il TAR ed il Tribunale civile di Venezia con un Ricorso contro l’effetuazione del (da me detestato) referendum farlocco, penseranno che io stia esprimendo delle considerazioni un po’ sarcastiche.
Niente di più sbagliato; posso portare la prova del rispetto, anzi della considerazione che nutro per la “carica agonistica” che il docente patavino esprime da tanti anni sui temi del federalismo (fiscale innanzitutto) e vi segnalo quindi il link del socialnetwork che ho dedicato ai temi della storia veneta: www.storiaecultura.ning.com
Ciò che mi interessa evidenziare è che il le analisi e la concezione sottese alle considerazioni di Mario Bertolissi riecheggiano un plot narrativo condiviso da una ristretta elite culturale veneta che dagli anni ’90 si è messa ad inseguire il movimentismo leghista pensando di recuperarne la carica eversiva all’interno di un progetto federalista tanto generoso, quanto velleitario e subalterno all’agenda politica dettata dal verbo bossiano che nel tempo presente è stato metabolizzato ed aggiornato nella versione tardorotea della secessione venetista rappresentata da Zaia.
L’anno cruciale su cui concentrare l’attenzione (compito facilitato se si può contare su un buon archivio) è il 1997: è passato sotto silenzio che giusto 20 anni fa il leader leghista organizzò la “spallata” concentrando a Venezia il 16 di settembre la manifestazione per la secessione, contrastata da due contromanifestazioni che si svolsero una a Venezia e l’altra a Milano il successivo 20 settembre, organizzate da CGIL CISL UIL nazionali.
Quegli eventi consentirono agli analisti più raffinati di comprendere il concretizzarsi di una fenomenologia sovversiva tanto più chiaramente quanto più robusta sul piano disciplinare era la loro conoscenza del pensiero e del sistema politico italiano.
Innanzitutto sottolineando che in Italia la cultura federalista e la domanda di autonomia erano strutturalmente deboli e che in ogni caso la Lega non ci azzeccava alcunchè con esse, inseguendo obiettivi di destrutturazione istituzionale traumatica, essendo “condannata ad essere eversiva” (come ebbe modo di illustrare con lucidità impressionante Umberto Curi in un saggio pubblicato nella rivista Micromega n. 4, 1997).
Un secondo punto nodale che i politologi più attenti e rigorosi (cito un nome per tutti, Michele Salvati) rilevarono era che l’evocazione della nazione padana ed il cosiddetto “male del nord” più che rappresentare un progetto compiuto ed una questione territoriale, andavano letti come reazioni ad un sistema Paese abbruttito ed appesantito da un carico fiscale insopportabile, dalla corruzione diffusa e dall’inefficienza di una PA e di uno Stato centralistico, dai trasferimenti asimmetrici agli Enti locali ed alle Regioni, seguiti dagli sprechi e dissipazioni in particolare al Sud…
Ma nel Veneto provinciale e politicamente azzoppato da Tangentopoli, un pezzo emergente di nuova classe aspirante a diventare dirigente adottò un paradigma interpretativo, della crisi politico-istituzionale in corso e del movimentismo leghista, che prefigurava una inedita centralità territoriale nordestina, commettendo un errore di valutazione colossale (a) e facendo una scelta profondamente opportunistica (b):
a) distorsione e sottovalutazione dell’impatto della subcultura del Carroccio sul quadro politico locale
b) uso comune di uno storyelling sul Veneto, come strumento per acquisire visibilità e credito nel mercato politico, editoriale, universitario e sindacale nazionale.
I primi ad accorgersi dei limiti e dell’inconcludenza di una visione che, al di là delle carriere e dei progetti personali, non era supportata da un radicamento sociale e da un programma convincenti, sono stati i leader del Movimento Nordest i quali – nella loro improvvisazione organizzativa – hanno lasciato – inconsapevolmente – in eredità ad un giovane militante leghista trevigiano un patrimonio di elaborazioni ed obiettivi (dalla rivendicazione del Veneto Regione a Statuto speciale alla proposta di Referendum consultivo).
Oltre tre lustri dopo la loro divulgazione (novembre 1997) tali documenti sono entrati pari pari nella strategia di Zaia e dei suoi consulenti giuridici per ridare slancio all’assalto al “nemico che sta a Roma” trasformando un onesto e generoso, quanto ingenuo tentativo di diffondere il messaggio federalista, in una torbida manovra propagandistica destinata ad esasperare piuttosto che incidere positivamente (sul)le tensioni del rapporto periferia-centro, ovvero Regione-Stato.
Mi sono soffermato con alcune rapide annotazioni sugli eventi di quegli anni perché già allora emerse con virulenza la contraddizione irresolubile, cioè il contrasto tra l’impostazione ideologica lega-venetista e l’ispirazione democratico-riformista sui percorsi dell’autonomia.
Sono rimasto quindi sconcertato nell’ultimo mese nel constatare – in riferimento alla vicenda del referendum farlocco – il riemergere di ingenuità, subalternità, superficialità, opportunismi, disonestà intelletttuali, di tutta una serie di “chierici” che, forse ingolositi dalla prospetiva di poter partecipare al banchetto di una Regione potenziata ed arricchita dalle risorse di una mitologica Autonomia, non si sono ancora accorti di essere passati dalla stagione eroica dell’impegno e delle disillusioni degli anni ’90, a quella attuale in cui Zaia ha riservato loro un ruolo temporaneo di comparsa, anzi di utili idioti in un canovaccio che non prevede un lieto fine.
Se è comprensibile per un irriducibile e romantico avvocato-giurista come Mario Bertolissi tentare (e fallire clamorosamente) il pressing nei confronti della Corte Costituzionale per veder legittimata una visione opinabile dell’autonomia, per tutti gli altri che hanno un ruolo pubblico od esercitano una professione, nel “cortile veneto”, con strumenti conoscitivi, saperi, competenze specialistiche che consentono loro di comprendere la realtà dei fatti, ovvero che l’aspirante Doge è letteralmente nudo di fronte a responsabilità istituzionali che non ha saputo (nel 2008) e voluto (dal 2014) assumere, si pone l’interrogativo: “cosa posso fare per la mia Regione onde evitarle l’avventura in cui la sta portando un Presidente-coniglio, pavido ed incapace di affrontare la dura e complessa trattativa con il Governo ed aiutare lui, la Giunta ed il Consiglio Regionali ad intraprendere il percorso istituzionalmente più congruo ed efficace?”
Il ventennio passato ci ha fatto vivere esperienze e dato lezioni sufficienti per assumere scelte con un tasso di rigore etico ed onestà intellettuale tali da orientare e promuovere una netta discontinuità politico-culturale nella governance del nostro Veneto.