Il declino cognitivo

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Le sinapsi riscrivono il «De Senectute»

di Fiorenzo Conti – 15 Maggio 2016 – Il Sole 24 Ore

Pochi temi stanno attirando l’interesse dei ricercatori e delle agenzie internazionali di finanziamento della ricerca come l’invecchiamento cerebrale, una ovvia conseguenza dello straordinario allungamento della vita media di chi abita in questa parte del mondo.

L’invecchiamento cerebrale riguarda tutte le funzioni del cervello (sensoriali, motorie, cognitive, affettive, emozionali etc..), ma l’interesse è incentrato in gran parte sul declino cognitivo, la riduzione delle funzioni superiori (in altri tempi si sarebbe detto delle capacità mentali) che riguardano la conoscenza. È quindi la diminuzione della capacità di apprendere, di ricordare luoghi o eventi successi da poco, di prestare attenzione, di concentrarsi, di valutare criticamente, di prendere decisioni… Già Marco Tullio Cicerone, nel De Senectute (uno splendido saggio di gerontologia che tutti dovrebbero leggere almeno una volta) aveva sottolineato con vigore che non tutte le funzioni declinano allo stesso modo in tutti gli individui. Oggi sappiamo anche che in un dato individuo, non tutte le funzioni superiori diminuiscono insieme e che ci sono funzioni che non declinano. Queste osservazioni, dapprima aneddotiche e poi confermate da rigorosi e recenti studi scientifici, devono essere spiegate da qualunque ipotesi sui meccanismi che sono alla base del declino cognitivo nell’invecchiamento cerebrale.

Da quando è nata la medicina “scientifica”, i ricercatori hanno cercato di svelare le alterazioni del cervello che determinano o favoriscono il declino delle nostre capacità cognitive. La prima strada intrapresa è stata, come spesso succede in biomedicina, lo studio dell’anatomia. Tra gli aspetti anatomici più studiati, spicca il numero dei neuroni. E in più di un secolo, si è assistito a un significativo cambiamento delle conoscenze: da una fase (abbastanza lunga e della quale sono rimasti molti modi di dire comuni) nella quale si riteneva che l’invecchiamento cerebrale, e con esso il declino cognitivo, fosse sostanzialmente determinato dalla morte di un numero elevatissimo di neuroni, le principali cellule che costituiscono il nostro cervello, si è passati ad una in cui questa nozione è stata messa in dubbio, fino ad arrivare alla nozione recente che il cervello anziano ha sì meno neuroni di quello del giovane adulto, ma non tanto quanto si riteneva in passato.

Questo radicale cambiamento ha spinto i ricercatori a cercare alterazioni più sottili ed ha, per il momento, permesso di scoprire che uno dei più importanti cambiamenti anatomici osservabili nel cervello anziano è rappresentato dalla drastica riduzione delle “spine”, piccolissime protrusioni presenti in gran numero su alcuni processi (chiamati dendriti) di moltissimi neuroni.

Aver trasferito l’attenzione dai neuroni alle spine ha comportato, a sua volta, un altro radicale cambiamento. Le spine sono infatti sede di numerosissime sinapsi, le strutture che permettono il passaggio del segnale nervoso (cioè dell’informazione) da un neurone all’altro. In altre parole, questa scoperta ha trasferito il problema dal numero di neuroni al numero di sinapsi e quindi alla funzione sinaptica. E negli ultimi decenni numerosi studi hanno infatti dimostrato che la funzione delle sinapsi nel cervello anziano è molto diversa da quello del cervello giovane o adulto.

E a questo punto, per i fisiologi, è stato abbastanza semplice cercare di legare queste nuove conoscenze con quelle che derivavano dallo studio di una caratteristica fondamentale e affascinante della sinapsi: la sua plasticità, ovvero quella straordinaria capacità che ha la sinapsi di modificare la propria funzione in relazione agli stimoli che riceve. È alla plasticità che dobbiamo, tra le altre, la nostra capacità di apprendere e di adattarci all’ambiente.

Esperimenti eseguiti in diversi laboratori, incluso quello di Lamberto Maffei a Pisa, utilizzando protocolli diversi hanno dapprima dimostrato che nel cervello anziano la plasticità sinaptica è ridotta e successivamente che è possibile riattivarla con procedure di arricchimento ambientale (sostanzialmente aumentando il numero e la qualità degli stimoli). Un altro aspetto straordinariamente interessante emerso più recentemente dagli studi sulla plasticità sinaptica nel cervello anziano riguarda la possibilità che essa rappresenti una specie di via finale comune sulla quale convergono diversi processi; è stato per esempio dimostrato che ormoni associati all’ingestione di cibo o molecole prodotte in risposta all’esercizio fisico modificano la plasticità.

Se si pensa che un’alimentazione non adeguata e la scarsa attività fisica rappresentano dei pessimi compagni di viaggio per chi voglia invecchiare “bene” dal punto di vista cerebrale (anche questo l’aveva detto Cicerone!), risulta evidente la portata di queste scoperte. Infine, se si pensa che è alla plasticità che dobbiamo la nostra “individualità” e “unicità”, è chiaro anche che questi dati neurobiologici potrebbero spiegare le variazioni individuali descritte sopra.

La buona notizia è che conosciamo molto bene i meccanismi molecolari dei fenomeni neurofisiologici che determinano la plasticità ed è quindi possibile iniziare a studiare, per ora necessariamente negli animali, se specifiche proteine o gruppi di proteine sono alterati nel cervello anziano. Studi di questo tipo si stanno svolgendo in numerosi laboratori, incluso il nostro presso l’IRCCS INRCA di Ancona, con la speranza di svelare i meccanismi che deteminano la riduzione di plasticità. La strada non sembra per il momento sgombra di insidie, ma questa è una strategia che potrebbe contribuire a capire cosa determina il declino cognitivo. Perché se non conosciamo bene da cosa dipende il declino cognitivo, qualunque tentativo d’intervento sarà destinato all’insuccesso o sarà comunque velleitario, se non pericoloso. Questo è il modo in cui funziona la “scienza medica”: conoscere i meccanismi normali per capire come questi possano alterarsi e funzionare male o meno bene è la condizione imprescindibile per un corretto approccio terapeutico.

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