Luciano Floridi: «Vietare la pubblicità online» Così si ferma il commercio dei dati e il potere di scelta resta ai cittadini, agli utenti
di Chiara Somajni NOVA24 17 Aprile 2016 Il Sole 24 Ore
La proposta del filosofo Luciano Floridi è radicale: vietare la pubblicità online. «Così staccheremmo il cordone, metteremmo le basi per un mercato competitivo, obbligando aziende come Google e Facebook a rivedere il loro modello di business»: gli utenti, invece di beneficiare dell’odierno “regalo”, solo apparentemente gratuito, in cambio della loro attenzione e dei loro dati dovrebbero pagare per i servizi che intendono usare, e si orienterebbero verso quelli migliori. Direttore della ricerca e professore di filosofia ed etica dell’informazione all’Oxford Internet Institute, membro del Google Advisory Council e da gennaio dell’Ethics Advisory Group europeo, Floridi vede in questa estrema ipotesi normativa una risposta possibile alla concentrazione di potere raggiunto da un numero ristretto di società americane. È la legge a suo avviso l’unico baluardo e i precedenti dell’industria del tabacco, della farmaceutica e dell’alimentare ne dimostrano l’efficacia.
I frightful five, i terribili cinque, come li chiama il New York Times (Google, Microsoft, Apple, Amazon, Facebook), stanno diventando i provider di default di infrastrutture essenziali, in finanza, nella salute, nell’educazione, osserva il critico Evgeny Morozov. Una posizione dominante problematica per il mercato, che danneggia anche i consumatori e l’innovazione. Robert Bernard Reich, docente di Amministrazione e politiche pubbliche a Berkeley, ricorda un rapporto del 2012 su Google realizzato dallo staff della Commissione federale americana per il commercio, la cui raccomandazione di intraprendere un’azione legale contro la società per abuso di posizione dominante non venne raccolta. Cosa alquanto insolita, sottolinea Reich, ma che trova qualche spiegazione nell’attività di lobbying: negli Stati Uniti gli investimenti volti a influenzare i decisori politici da parte delle società tecnologiche competono con quelli dell’industria militare e petrolifera. «Ha potere chi può influenzare le scelte e i comportamenti umani – dice Floridi -. C’è il potere visibile, del monarca, del politico, del dittatore, e quello che di solito è chiamato grigio, il potere di influenzare chi esercita pubblicamente il potere: molto più interessante, perché non è né legittimato né accountable. Questo era esercitato in passato da chi aveva i mezzi di produzione, gli industriali. Lo definisco il potere sulle cose. Nel frattempo era già emerso il potere sulle informazioni sulle cose, esercitato dalla stampa, il cui culmine è rappresentato dallo scandalo Watergate. Oggi siamo arrivati a una terza fase: a prevalere è chi gestisce la produzione delle informazioni sulle cose».
Le implicazioni sono di ordine politico, sociale, etico. Quanto pregnanti e attuali lo evidenziano casi di conflitto tra i diritti alla privacy, alla libertà di espressione e alla sicurezza, tra interessi privati e interesse pubblico. Il contenzioso tra Apple e Fbi, ad esempio: un braccio di ferro che ridotto ai minimi termini può essere visto come il tentativo della società californiana di affermare la propria autonomia, e il proprio potere, rispetto allo Stato, ergendosi a difesa degli interessi degli individui. Con quale legittimazione e quali limiti vadano posti al diritto alla privacy dei cittadini è oggetto di discussione. Ci si schiera a favore di Apple, ma contro chi si è visto esposto dai Panama Papers, facendo una distinzione tra good guys e bad guys difficile da argomentare dal punto di vista del diritto, osserva l’avvocato David Allen Green sul Financial Times: in entrambi i casi, c’è un provider commerciale che offre un servizio per il quale i clienti si aspettano la sicurezza dei dati cui si contrappone un interesse pubblico. Sul piano della legittimazione, un potere per sua natura non accountable, basato su contratti poco comprensibili all’utenza e spesso modificati, il cui perno è la fiducia. Ma se Facebook può indurre gli utenti ad andare a votare, chi assicura che il suo invito non sia rivolto a un target di parte, come paventa Martin Moore, direttore del Media Standards Trust? L’esperimento condotto da Facebook nel 2012 per verificare l’influenzabilità dell’umore degli utenti è di per sé un inquietante precedente. Per Floridi c’è da attendersi che il contenzioso tra big tech e autorità pubblica salga di grado, fino a investire i governi eletti.
In che misura società tecnologiche dalle ambizioni imperiali, per riprendere la penultima copertina dell’Economist, abbiano interesse a difendere la privacy dei cittadini è pure questione dubbia, considerato che sul riuso dei dati a fini commerciali si fonda il loro successo economico. Per Morozov ci vorrebbe una Bbc dei dati, un servizio pubblico dove raccogliere i contenuti scollegati dagli identificativi personali, a tutela degli utenti e a beneficio dell’innovazione e della concorrenza. L’emergere di soggetti come Telegram, che sfida WhatsApp/Facebook garantendo privacy e sicurezza, va in questa direzione.
«In gioco – sostiene Floridi – c’è il progetto umano: vogliamo che sia politico-sociale o commerciale?». Al di fuori degli Usa la resistenza al monopolio di big tech è più marcata, Europa in testa, con risultati come il diritto all’oblio imposto a Google o la legge per la protezione dei dati personali appena approvata dal Parlamento europeo, apprezzata da Floridi come «un passo fondamentale, che spero contribuirà a ricollocare le persone e i loro diritti al centro del progetto socio-politico, offrendo all’Europa la leadership etico-legale in questo ambito». Ma è disarmante, osserva Floridi, che sia proprio l’Europa a definire i cittadini data subjects, invece che persone: della portata culturale che questa deviazione linguistica tradisce, ormai neppure ci rendiamo conto.