Il senso di Bettiza per la libertà non tramonterà

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Nel giorno della dipartita, pubblico una sua intervista di qualche tempo fa in cui ci regala una personalissima capacità di illuminare le oscurità della storia che ha attraversato presidiando la propria identità e indicando a tutti noi una testimonianza di stile, orgoglio, sincerità
di ANTONIO GNOLI – 4 gennaio 2015 –
Enzo Bettiza: “Vengo da un mondo che non c’è più, con la parola ho difeso la mia identità”
Esule, sopravvissuto, pittore mancato, è stato contrabbandiere e venditore di libri. Poi sono arrivati i romanzi, il giornalismo e la politica. Insieme a un’ossessione: fermare il comunismo
NONOSTANTE viva nella fluviale evocazione di un passato che non passa, Enzo Bettiza, classe 1927, dice di fregarsene dell’anima slava. E io che gli siedo di fronte penso che sia vero e che in lui non ci sia nulla di dissipativo, di incauto, di nostalgico. I suoi pensieri sembrano uscire da qualche porta laterale della Mitteleuropa. Mi ricordano quei personaggi dostoevskiani ammaestrati da una sobria e distaccata vecchiaia. Come quella di Peter Jarkovic, protagonista del suo ultimo romanzo: La distrazione, dove ancora una volta egli rilegge il secolo che si è chiuso: “Come fosse un dono, una tragedia, un’ossessione da ripercorrere con la parola scritta”, precisa con voce scandita.

Una parola scritta e divisa tra romanzo e giornalismo. Quale ha contato di più?
Non farei una distinzione, se non di genere. Per un esule, quale sono stato, la parola era il solo modo per difendere la mia identità. Sono nato a Spalato. Ho avuto un’infanzia privilegiata. La famiglia era ricca. Un nonno industriale del cemento. Poi la guerra. I rivolgimenti. La rapida fine di un mondo. Il mio mondo. Conoscevo il tedesco, il croato, l’italiano. In casa si parlava veneto. La Dalmazia aveva avuto una lunga storia con Venezia. La marina della Serenissima era composta di istriani e dalmati. Mi affascinavano le mescolanze di lingue, di storie e di uomini. Poi la felicità venne meno. Mi ammalai. Scoprendo, improvvisamente, il senso della precarietà“.

Ti ammalasti di cosa?
Polmoni. Restai a letto durante tutta la primavera e l’estate del 1942. Tra la vita e la morte. Avevo 15 anni. Lessi Delitto e castigo . La febbre mi divorava. Alla fine il dottor Janovic riuscì a curare la pleurite. L’ultima volta che lo vidi mi disse: dovresti leggere Tolstoj. Lascia Dostoevskij ai desideri più complicati. Avrei scoperto in seguito il senso di quella frase “.

Avevi una vocazione letteraria?
Non so cosa avessi. Sentivo che la morte mi aveva sfiorato. Ero un sopravvissuto. Altre prove sarebbero giunte negli anni successivi“.

Quali?
La guerra in un miscuglio di orrori aveva travolto villaggi e città. Portammo le nostre cose, quel poco che restava della florida attività imprenditoriale, fuori dall’influenza comunista. E di Tito. Furono mio padre e mio fratello a prendere la decisione di trasferirsi in Italia. Mia madre e mia sorella si adeguarono. A me, sinceramente, non interessava impegnarmi nel loro lavoro. Vidi nella mia famiglia, che era stata per lungo tempo importante, i rovesci della fortuna e i tratti del fallimento“.

Cosa facesti?
Il mio sogno era dipingere, disegnare. Mi ero messo in testa di voler conoscere De Chirico, anche lui, a suo modo, un esule. Arrivammo a Bari. Ci misero in un campo profughi allestito dagli inglesi. Fu dura. E quando da Bari mi trasferii a Roma riuscii a iscrivermi all’Accademia delle Belle Arti. In quel primo anno di frequentazione notai una figura femminile piuttosto procace. Una bellezza pop con un codazzo di giovani appresso. Seppi in seguito che era Gina Lollobrigida“.

Tentasti qualche approccio?
No, la mia vita si stava avvitando dentro altri problemi. Quegli anni sono stati insieme avvilenti ed esaltanti. Vivevo di espedienti. Risalii verso il Nord. Ho fatto di tutto per sopravvivere. Sono stato contrabbandiere e venditore di libri a rate. Divenni perfino comunista. Da quell’esperienza trassi il mio primo romanzo La campagna elettorale. Fu accolto in maniera contrastata. Remo Cantoni, Dino Buzzati, e lo stesso Franco Fortini, per ragioni diverse, ne furono entusiasti. Giacomo Debenedetti ne parlò malissimo. Vittorini fu incerto“.

Che anno era?
Gli inizi dei Cinquanta. Mi ero trasferito a Milano dopo un breve periodo trascorso a Trieste. Nel 1953 morì Stalin e quell’anno entrai a lavorare a Epoca. L’anno dopo passai a La Stampa : non fu una cosa semplice perché tutt’altro che semplice si rivelò il suo direttore“.

Chi?
Giulio De Benedetti. Un uomo di talento. Di grande intuito e dal giudizio impietoso. A me ricordava certi autocrati blindati da un’intelligenza scarna e diffidente. Sapeva essere sarcastico come pochi. La volta che mi spedì un telegramma, per aver io ritardato la trasmissione di un pezzo da Vienna dove ero corrispondente, ne ebbi la conferma“.

Cosa diceva?
Lei non solo non sa scrivere, non sa neppure telefonare. La prego da ora in poi di inviare per posta i prossimi servizi “.

E tu?
Incassai e mi attenni alle direttive. Dopo un po’ fui spedito a Mosca come corrispondente. Ci rimasi quattro anni. De Benedetti insistette che prolungassi la permanenza. Gli risposi che volevo cambiare aria. Mi licenziò. Per fortuna che Alfio Russo, direttore del Corriere della Sera, si era interessato al mio lavoro di inviato. Uomo affabile, Russo. All’opposto di De Benedetti“.

De Benedetti ebbe fama di essere stato un grande direttore.
Lo era. Chi può contestarlo? Fu incalzante e spietato. Riuscì a far piangere un uomo tutt’altro che lacrimevole come Enzo Biagi. E quando troncò il rapporto con me provai un certo smarrimento“.

Che superasti in che modo?
La vita a Mosca aveva i suoi lati piacevoli. Conoscevo artisti, pittori, poeti. Frequentavo quel sottobosco aristocratico che era sopravvissuto alle ingiurie della storia. Essendomi stato tagliato lo stipendio finii per un breve periodo in una casa, un tempo fastosa, abitata da una ex contessa e da sua figlia“.

Si dice che tu fossi prodigo di attenzioni per entrambe.
Non so chi abbia messo in giro questa voce. Ma è infondata. Ricordo solo il clima plumbeo della città. Krusciov stava per saltare e avremmo detto addio a qualunque apertura. Rammento la triste atmosfera in casa del pittore Ilya Glazunov la sera prima della partenza. Qui per tanto tempo si era svolta la parte interessante della vita moscovita. Gli incontri con intellettuali e donne fascinose. Fu in una di quelle sere che il mio amico Frane Barbieri si invaghì di una donna bellissima che sarebbe diventata sua moglie“.

Barbieri era un dalmata come te.
Sì, di famiglia aristocratica. Ci conoscemmo proprio a Mosca. Frane è stato uno dei più grandi esperti del comunismo internazionale“.

A quale scuola apparteneva?
Ti risponderei alla scuola della vita. Ma poi c’era l’intreccio di amicizie e conoscenze. Fejto, il grande giornalista e storico ungherese. Aron con le sue lucide analisi. Revel con il suo afflato umanistico“.

È l’identikit del conservatore illuminato. Quanto ti riconosci?
Pienamente. Ma dovrei aggiungervi gli amici di strada: Piovene, Buzzati, l’esperienza con Tempo presente alla cui direzione ci furono Nicola Chiaromonte e Ignazio Silone“.

Due figure straordinarie ma assai diverse. Non trovi?
Chiaromonte era di una severa onestà. Non l’ho mai visto abbandonarsi a nessun trucco falsificante. Silone era molto più enigmatico. Più nell’ombra“.

Cosa pensi dell’accusa di Silone spia dei fascisti?
Penso che fu una persona profondamente onesta, ma anche turbata dai fatti che toccarono la sua famiglia. In particolare la morte del fratello – più giovane e adorato – in un carcere fascista, fu un dolore vissuto come una colpa, che non riuscì mai a superare. Non credo che con queste premesse potesse essere un collaboratore dell’Ovra. Semmai un “doppiogiochista” come disse Fejto“.

Non hai mai citato Montanelli.
È stata una parte della mia vita. Si conosce tutto del nostro rapporto professionale: il Corriere, l’avventura al Giornale , il nostro divorzio. La riappacificazione“.

Privatamente e umanamente che giudizio dai di lui?
Nei rapporti umani Indro sapeva essere gradevole, multiforme, mercuriale e forse proprio per questo bugiardo e sfuggente nell’intimo dei suoi pensieri“.

Un pregio o un difetto?
Non lo definirei un pregio. Per tutta la vita ho sempre cercato di combattere ciò che snaturava l’anima, fosse di un giornale o di una persona“.

Alludi al tuo distacco traumatico dal Corriere?
Una vicenda particolarmente dolorosa ma necessaria. Piero Ottone – come ho più volte ripetuto – aveva “corrotto” l’anima del Corriere accettando e tollerando le infiltrazioni comuniste“.

Non è stata un’ossessione il tuo anticomunismo?
Bisognava combattere il comunismo come il peggiore dei mali politici. Ne conoscevo i meccanismi, vi aderii e me ne distaccai prevedendone gli effetti“.

Cosa ti aveva sedotto?
L’idea che si potesse dominare la realtà con ogni mezzo, anche il più crudele, e al tempo stesso trasformare tutto questo in una grande utopia. C’era forse menzogna peggiore? Follia più grande? Delusione più cocente?”

Hai usato l’aggettivo “crudele” pensavi a qualcosa o a qualcuno in particolare?
Al fanatismo, alla ferocia e al sarcasmo di certi leader comunisti“.

Chi?
Giancarlo Pajetta. Apparteneva all’aristocrazia dei capi. Senza mai un dubbio, un’incertezza, una fragilità. Per il tempo che rimasi nel Pci fu lui a iniziarmi ai riti del comunismo. Lo rividi quarant’anni dopo. Alla vigilia del grande crollo. C’era qualcosa di patetico in quello che fu definito il “ragazzo rosso”. Il mondo nel quale aveva creduto ciecamente e per il quale aveva combattuto contro la miriade di infedeli, si stava decomponendo. Ne prese atto con dolore. Ma anche con impotenza. E rabbia“.

Dove vi vedeste?
Eravamo casualmente entrambi a Mosca alla vigilia del 1989. Prendevamo parte a un incontro internazionale dove, in qualità di deputato europeo, avrei dovuto consegnare una lettera per Gorbaciov. Le delegazioni furono ricevute al Cremlino davanti al Soviet supremo. Colsi immediatamente il disagio di Pajetta. Il balbettio del suo intervento, lasciò nello sconcerto i sovietici. Era irriconoscibile. Non c’era più traccia dell’eccelso comiziante di una volta“.

Sconcerto provocato da cosa?
Dalle sue accuse verso il nuovo corso e il disprezzo con cui guardava a ciò che succedeva. Era un mondo che stava finendo. Anzi era già finito. Se ne andò schifato. Stravolto. Costernato. Tornò in anticipo in Italia. Pajetta morì l’anno dopo“.

Che sensazione hai quando una cosa finisce?
Che è finita. Cosa aggiungere?”.

Ho l’impressione che per tutta la vita tu abbia lottato con l’idea del tramonto.
Provengo da un mondo che è tramontato. Forse fu quella lettura adolescenziale di Dostoevskij a risvegliarmi dall’ipnosi. Da qualche parte il male deve esserci“.

E si combatte?
Si combatte sì. Ci si prova“.

Che stagione stai vivendo?
Acciacchi e decadenza. Tutto nella norma. Poi c’è la prudenza intellettuale“.

Alla tua età che importa essere prudente?
Voglia di evitare eccessi interpretativi. Il mondo sta cambiando a una velocità impressionante“.

Come ti ci trovi?
Distanziato, mi ritrovo. Non da colui che corre, ma da me che lo guardo correre“.

Improvvisamente sembri uno spettatore in difesa.
Non ho nulla da difendere. Non ho peccati mortali. Non ho la coscienza ammorbata da fatti di cui mi debba giustificare. La mia vita è stata ricca di eventi e di possibilità non tutte realizzate. Ma non è stata una vita dispersiva e minacciata dall’attrazione del vuoto“.

Ancora Dostoevskij?
All’inizio mi affascinava il suo nichilismo. Ma vivendo ho capito cosa voleva dirmi il medico che mi ebbe in cura. Compresi che era meglio l’opportunismo agnostico di Tolstoj “.

Il potere genera opportunismo?
L’opportunismo consolida il potere“.

Hai avuto molte frequentazioni con il potere?
Abbastanza“.

La più importante?
Quella con Bettino Craxi. Gli sono stato vicino al punto che mi telefonava per informarmi delle sue battaglie nel partito“.

Un giornalista può permettersi di essere così intimo con il potere?
Non volendo nulla dal potere e non potendo cedere nulla al potere posso dire di essere stato libero da questa ossessione. E poi chi ha avuto alle spalle una nascita dinastica più che comunemente familiare non può ritenere il potere una forma di seduzione“.

Ti hanno sedotto più le donne?
La vita è stata lunga. Molte donne e pochi matrimoni. Non ho esagerato sul piano istituzionale“.

L’anima slava?
È un mito, con qualche vago fondamento. Ma ne sono rimasto immune. Non ho mai vissuto tragedie d’amore. Non ho avuto scontri veri. Mi sono sempre difeso e salvato “.

Hai portato a casa la tua vecchiaia.
Già, come si porta a casa la pelle dopo una guerra. Molti pensano che la vecchiaia sia una specie di salvadanaio da cui prendere le ultime monete di scambio con la vita. Per come la vedo io essa èla stagione che ci prepara all’incontro con il nulla. I mille perché della vita finiscono lì. In quell’appuntamento. Non sai cosa c’è. Non sai chi arriva. Ecco, se penso alla mia scrittura, ai miei romanzi, alle mie storie, so che tutto è nato da questo enigma“.


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