Nella guerricciola civile a bassa intensità che si sta combattendo all’interno del PD, la querelle sull’epiteto giachettiano rivolto a Speranza (che, detto serenamente e pacatamente, ha il volto dell’agnellino sacrificale che suscita tenerezza), ha aperto un’altra interessante pista di ricerca sulle tormentose vicissitudini dei democratici.
Dopo la suggestiva lezione dello psicanalista Massimo Recalcati che ha avuto modo di sviscerare il subdolo e ricattatorio atteggiamento di padri (e nonni aggiungo io) che hanno bacchettato ed ostacolato i figli colpevoli di aver “scritto in modo orribile”, “da far schifo”, il testo della Riforma Costituzionale, perché incapaci di riconoscere loro la chance di misurarsi con la responsabilità di cambiare – anche sbagliando -, si presenta ora l’opportunità di un’indagine storico-culturale sul linguaggio che caratterizza le leadership degli schieramenti in campo…
(detto tra parentesi, il conflitto generazionale succitato è risultato evidente sia a livello della sterminata platea di costituzionalisti – un mestiere in cui sicuramente l’Italia primeggerà, come per gli avvocati, per numero di “addetti” -, sia tra i sostenitori del NO e del SI : è stata una bella gara infatti, tra gli sbeffeggiamenti di D’Alema ed il turarsi il naso di Cacciari e a chi era più spregiudicato nel boicottare – direttamente o meno – il Progetto di Riforma).
Ma, tornando allo stile espressivo suggerisco una prima ipotesi interpretativa.
Da un lato non ci dovrebbero essere più dubbi sulla matrice lapiriana-scoutistica di Matteo Renzi nel quale prevale uno slancio idealistico-volontaristico con accenti di prosa “smart” arricchita da citazioni e l’uso di “parole di gomma”, “che scambia gli slogan motivazionali con le buone intenzioni, e le buone intenzioni con la capacità di metterle in pratica, e posandosi sui concetti li svuota di senso e di aderenza alle cose, e li trasforma in arnesi da imbonitore” (da Essere #Matteo Renzi – di Claudio Giunta).
Dall’altro si fa sempre più chiara la “presa”, sulla multiforme platea di una parte di “giapponesi” PCI-PDS -DS renitenti all’OPA neo-ulivista promossa dal leader fiorentino, della tattica dalemiana di usare il linguaggio togliattiano del dileggio e del disprezzo nei confronti degli avversari: può apparire azzardato ma “Voglio comprarmi un paio di scarponi chiodati per dare un calcio nel sedere a De Gasperi”, oggi potrebbe essere declinato in termini meno diretti e più allusivi i con: “Voglio comprarmi un deodorante contro la puzza delle riforme renziane”.
Ma in questa occasione non voglio soffermarmi su tale dialettica verbale che, purtroppo, porta a far arretrare il dibattito e l’agenda politica sul ruolo e sul programma del Partito Democratico necessari per affrontare le sfide contemporanee; su tale esigenza ho espresso con nettezza le mie valutazioni (e preferenze), anche con un contributo specifico centrato sulle proposte per dare continuità all’iniziativa riformista, a prescindere dal risultato della consultazione referendaria, vedi in:
Ciò che mi preme rilevare ed evidenziare invece è una questione che riguarda il grado di credibilità e leggibilità del Partito Democratico nel suo insieme per ciò che esso oggi rappresenta agli occhi dell’opinione pubblica partecipe alle vicende della vita politica e di quella che si ritiene impegnata ad esercitare un ruolo di classe dirigente: anche per gli osservatori più benevoli esso appare caratterizzato da una carenza di elaborazione culturale che rischia di indebolire irrimediabilmente anche l’efficacia di un’azione programmatica avviata nella giusta direzione e con risultati incoraggianti dalla svolta impressa al Governo dell’ultimo triennio.
Si sta appalesando ciò che lo storico Giorgio Roverato indica come un grave deficit nella personalità politica di Renzi (ma che io preferisco traslare ed attribuire all’intera Organizzazione del Partito) ovvero la mancata acquisizione della lezione gramsciana di “egemonia culturale”, risorsa ritenuta – credo giustamente – fondamentale per dare basi robuste ad una strategia di cambiamento convincente ed in grado di incidere nelle vischiostà ed arretratezze del sistema-Italia.
Senza riprendere il filo del ragionamento progettuale che ho affrontato recentemente, mi limito ad osservare che gli impegni esplicitati all’Assemblea Nazionale per la rivitalizzazione organizzativa del Partito, debbono essere integrati ed irobustititi da un Piano di lavoro culturale e comunicazione in grado di dare profondità, compiutezza e coerenza alla strategia messa in campo con i mille giorni di Governo: e ciò non dovrà esaurirsi nella – pur utile – pubblicazione che Renzi si accinge a divulgare….
E che tale lavoro debba essere sviluppato a tutti i livelli con il coinvolgimento di tutte le forze sociali, professionali, intellettuali che si sono cimentate generosamente durante la campagna referendaria e che hanno confermato la disponibilità a proseguire nell’impegno (mi riferisco in particolare ai mittenti delle 30.000 mail citate da Renzi domenica), diventa fondamentale non solo per dare un messaggio forte al Paese, ma anche per riorientare l’atteggiamento critico-schifiltoso di una molteplicità di opinion leader che – prima e dopo il risultato del Referendum – si sono esercitati nel “calcio dell’asino”, approfittando strumentalmente dell’esposizione solitaria e dell’atteggiamento sfidante del Presidente del Consiglio.
Con ciò voglio dire che la presunta personalizzazione del leader PD, non è un alibi né tantomeno una giustificazione per tollerare e non controbattere alle analisi contraffatte ed ai giudizi superficiali e velenosi, alle supposizioni fantasiose, che negli ultimi mesi giornali e talk hanno ospitato e veicolato, contribuendo a determinare un ulteriore impoverimento della riflessività nell’opinione pubblica; a tal proposito è illuminante la riflessione di Cristian Rocca, giunto a scrivere che “Lo scandalo del 2016 non è ciò che i giornalisti non hanno raccontato ai lettori; ma al contrario ciò che hanno scritto e il fatto che averlo scritto non ha avuto alcun impatto”
http://24ilmagazine.ilsole24ore.com/2016/12/la-fine-dellopinione-pubblica/
Il programma annunciato e varato dall’Assemblea dev’essere attutato facendo scendere in campo, con la ricchezza e l’articolazione di contributo che esso può apportare, l’intero corpo di iscritti, militanti, dirigenti che in questi tre anni ha auspicato, delegato, sostenuto la novità politica “interpretata” con coraggio dal nuovo Segretario del PD e che ha consentito di cambiare l’agenda politica del Paese, scompaginando anche i canovacci ed i paradigmi interpretativi dei professionisti dell’autocompiaciuta lettura della realtà immaginata più che indagata nel suo processo evolutivo.
Che dire dell’ineffabile Ilvo Diamanti, intento con il suo giocattolo Demos ad imbastire tabelle ed articoloni sul PDR (Partito di Renzi), innovazione linguistica inconsistente ed offensiva, utile solo a mascherare il vuoto di analisi e comprensione di una fenomenologia politica espressione della transizione verso una nuova forma Partito nella quale leadership e struttura organizzativa assumono funzioni inedite rispetto alla stagione nella quale dominavano visioni e prospettive dettate dalle nomenclature dei Partiti costituenti il Partito Democratico.
Non ci è poi mancata la verbosità generosa ed inconcludente di Massimo Cacciari: per esempio il suo recente invito alla separazione consensuale da parte delle componenti di maggioranza e minoranza del PD potrebbe sembrare ragionevole se espresso nell’ambito di Forum (la trasmissione di Barbara Palombelli), ma non aiuta certo a capire la natura dello scontro interno in atto ed il percorso politico per uscirne, collegato all’esito di una sincera ed aspra discussione sull’identità di una sinistra de-ideologizzata ed ancorata ad un’aggiornata visione dell’equità sociale, della crescita economica e della citadinanza attiva, non certo alle carte affidate a qualche notaio….
C’è poi la squadra dei giornalisti che hanno trovato nel renzismo un argomento per esercitarsi in dissertazioni retoriche, svincolate dal rigoroso ri-conoscimento dei fatti e basate sull’accentuazione della personalizzazione di Renzi all’incontrario, ovvero sul soffermarsi pigramente sul suo storytelling piuttosto che focalizzare le novità (positive e contradditorie) della sua azione all’interno di un quadro politico precario e malmostoso.
Abbiamo così potuto leggere, dell’apppassionato di storia Paolo Mieli, l’invito al dimissionario Presidente del Consiglio di ritirarsi dalla vita politica, citando esempi suggestivi ed improbabili: come si fa a paragonare il Generale De Gaulle nella temperie storico e politico della Quarta Repubblica francese con un giovane leader appena affacciatosi – in circostanze per gran parte da lui non determinate – su uno scenario politico che richiede, anche dopo l’esito del Referendum, la continuità di una presenza politica energica non solo di Renzi, ma anche dell’intera generazione politica a cui egli appartiene.
Ed ancora, Stefano Folli, in assenza di meditate controargomentazioni alla relazione del Segretario PD all’Assemblea Nazionale, non trova di meglio che, in concorrenza con Recalcati, a vestire i panni del psicanalista, informandoci che – secondo lui – l’autocritica “non è sincera”!
O, per continuare sul genere introspettivo, Ernesto Galli Della Loggia che, noncurante della reale condizione personale di Renzi (famiglia e chance professionali invidiabili), ha imbastito una sorta di pastone centrato su “Renzi e la paura di sparire”.
Lascio sullo sfondo le ricorrenti interpretazioni maramalde di altre “prime penne” giornalistiche, per concludere questa sintetica rassegna stampa segnalando una cronaca surreale di Mario Sechi sul “Funerale retorico dell’Assemblea PD”: un commento che vuole essere sarcastico e veritiero, ma – al di là del tono simpaticamente irriguardoso – si rivela una descrizione mistificante di un evento sicuramente intriso di elementi di inautenticità, ma comunque espressione di un’Organizzazione viva e desiderosa di intrapresendere un cammino di rigenerazione culturale ed organizzativa, di riconnettersi con le domande, le ansie e le contraddizioni di un Paese in crisi.
Se mi sono soffermato su questi scampoli di analisi e giudizi che considero in gran parte estemporanei, è per rimarcare il fatto che il messaggio, o meglio il racconto del Progetto PD per l’Italia è – finora – stato malinteso ed in molti casi deformato per ragioni che hanno a che fare anche con il fatto che l’attenzione dei commentatori si è concenrata sulle convulsioni interne e sull’approssimazione di una struttura-partito figlia della situazione emergenziale (sul piano economico-finanziario ed istituzionale) con cui la leadership renziana ha dovuto fare i conti.
Da domenica, come avevo avuto modo di auspicare e, se mi è permessa un po’ di presunzione, di preconizzare, si apre una stagione nuova, in cui la discontinuità e la novità saranno dati dal protagonismo delle migliaia di “boys scout” che, tra difficoltà ed incomprensioni, sono riusciti a convincere 13 milioni e mezzo di cittadini ad investire sul futuro ed a sottrarsi al ricatto della paura, del risentimento, della conservazione dello statu quo.
Il loro compito sarà quello di appropriarsi della bandiera, dei valori e della visione del PD, delle idee progettuali praticate e sperimentate con passione, parzialità, concretezza nei “mille giorni” passati e sottoporle al vaglio di una discussione più ampia e diffusa sull’intero territorio nazionale con tutti i soggetti e contesti sociali della sofferenza.
Il loro coraggio sarà di mostrare il volto e la volontà di chi si pone in ascolto e si apre al confronto non alla ricerca di un facile consenso e senza il timore di presentare un programma di cambiamento che fa i conti con le domande ma costruisce le risposte con la crescita, che entra nel vivo dei contrasti e del dissenso che oggi imperversano sulle questioni del lavoro, del reddito, dell’immigrazione, promuovendo le scelte dello sviluppo dell’equità dell’inclusione, del rigore.
E’ questa mobilitazione che deve diventare il focus per l’intero Partito Democratico, ovvero il terreno di convergenza attiva per funzionari, amministratori, consiglieri, parlamentari; di coinvolgimento della vasta platea di associazioni e forze sociali e culturali consapevoli che la svolta attesa di una cittadinanza democratica più ricca per tutti il 4 dicembre ha soltanto subito un rallentamento.
Nei prossimi mesi le chiacchiere su maggioranza e minoranza stanno a 0!
Con linguaggio scoutistico: la Speranza va praticata non rivendicata!
Naturalmente questo è il pensiero di un semplice iscritto disponibile a portare il proprio contributo nel Circolo di appartenenza ed in tutte le sedi in cui gli sarà richiesto di farlo.
Da La Repubblica del 20 dicembre 2016
Intervista poco corretta
“Vogliono liberarsi di Renzi,lo dicano.Sennò hanno la faccia come…” Giachetti insiste su Speranza, Bersani, D’Alema & Co. “IlPd non è più un partito se ciascuno fa come gli pare”
Ipocrisie, correnti, scissioni
Salvatore Merlo – IL FOGLIO – 20.12.16
Roma. Poiché ha detto a Roberto Speranza e agli altri “compagni” della minoranza del Pd che “avete la faccia come il culo”, da qualche giorno Roberto Giachetti, deputato, renziano, vicepresidente della Camera e già candidato sindaco di Roma, è diventato lo scorrettissimo eroe del parlar chiaro, o del parlar sporco, in un partito in cui i coltelli veri e metaforici scintillano nell’ombra. Domenica scorsa il suo intervento di appena cinque minuti è precipitato sul morbido – lui dice “sull’ipocrita” – dell’assemblea del Pd e si è infranto sulla platea, tra fischi e applausi, con la forza di un fenomeno atmosferico, con l’ineluttabile potenza di un fulmine o di un temporale. “Vengo dal partito radicale”, dice Giachetti, che giura di aver simpatia personale per Speranza (vi siete sentiti? “Ancora no”), ed è proprio per questo – spiega – “che forse non mi sono trattenuto. Sono cresciuto tra i Radicali e lì, com’è noto, non si dissimulava niente. Le cose ce le dicevamo in faccia. Con limpidezza. Anche ruvida. Eccessiva. Per me il parlare chiaro è anche una forma di rispetto, persino etico, se mi è consentito di tirar fuori una parola così densa. Dunque forse mi è scappata la frizione, domenica. Va bene. Forse ho usato un’espressione volgare, anche se non più volgare dei riferimenti al ‘ducetto di Rignano’ che da più di un anno vengono scagliati dalla minoranza contro Renzi o alla ‘puzza delle riforme’ di cui parla Massimo D’Alema. Va bene. L’ho detta forte. Ma ho anche detto quello che pensavo, e quello che pensano e sentono in tanti, in giro per l’Italia, non solo a Roma. Ho violato le regole dell’ipocrisia, ma il problema che ho posto rimane piantato come un chiodo nell’anima di questo Pd: è immaginabile l’esistenza di una comunità politica nella quale c’è qualcuno che, poiché è in minoranza, rifiuta sistematicamente le decisioni prese nelle sedi democratiche del partito e stabilisce di avere il diritto divino di fare quello che vuole?”. E Giachetti si riferisce alle riforme, alla campagna per il No al referendum, all’opposizione al Jobs Act, “e anche al fatto incredibile, inaudito, che la minoranza abbia dichiarato di voler sostenere il governo Gentiloni valutando provvedimento per provvedimento. Fanno come se il loro fosse un appoggio esterno. Ma che partito è questo? Abbiamo stabilito che non c’è più il partito, evidentemente. Esistono solo una serie di club dove ognuno fa quello che vuole. E come teniamo insieme la baracca? Come lo spieghiamo? Come facciamo a sostenere, magari in provincia, che ci voglia un senso di appartenenza quando da noi, a livello nazionale, centrale, facciamo finta di niente? Mi dispiace che la parola volgare che ho usato abbia oscurato tutto il resto. Ma non ce la faccio a essere ipocrita: davvero il mio ‘faccia di culo’ è più grave degli abbracci e dei brindisi cui si sono abbandonati D’Alema e Speranza per festeggiare la vittoria del No? Cos’è più grave nei confronti dei nostri elettori e dei militanti che hanno votato Sì?”. E allora forse la minoranza farebbe bene ad andarsene, a lasciare il Pd. “Io non voglio cacciare nessuno. Ma qualcuno deve rispondere alla mia domanda: come lo teniamo insieme un partitofatto in questo modo?”.
“Nessuno butta fuori nessuno”, dice Giachetti. “Ma mi devono dire che ci stanno a fare in un partito che bombardano con argomenti più pesanti di quelli di Salvini, di Grillo e di Brunetta messi insieme”. Va bene, ma la democrazia, persino dentro a un partito, è anche fatta di queste cose: dissenso, contrasti, opinioni espresse a contrario. “Ma a loro del merito delle questioni non gliene importa niente. E’ così chiaro. Le regole democratiche per loro vanno bene solo se il timone della ditta lo tengono loro. Se le tiene un altro non esiste la comunità e non c’è il processo democratico. Sento che Speranza dice: ‘Vorrei sapere se c’è ancora spazio in questo partito per la minoranza?’. Ma se la minoranza ha organizzato una campagna contro il referendum su cui la direzione e gli organi del partito, i gruppi, l’assemblea, hanno deliberato decine di volte! Che altro spazio vogliono avere? Vogliono il timone della barca! Questo vogliono. Per loro il problema non è l’uomo solo al comando, ma ‘quell’uomo’ al comando”. Cioè Matteo Renzi. “Io segnalo che in direzione e in assemblea non sento interventi di Bersani da forse un paio d’anni. Non partecipano. Normalmente vengono in direzione, ogni tanto parlano, poi però prendono cappello, se ne vanno e non votano. Domenica mi pare fosse intervenuto Guglielmo Epifani in rappresentanza di tutti loro. La verità è che loro il dibattito lo fanno fuori dal partito, non dentro. Sui giornali. In tivù. Nelle interviste… Adesso possiamo continuare a fischiettare e dire volemose bene. Ma non funziona. Non lo so se funziona, non mi pare. Io voglio sapere – e me lo devono dire loro – come si tiene in piedi una comunità dove chi non è d’accordo fa come gli pare? Come possiamo andare avanti se si comportano come un partito che dà l’appoggio esterno al governo espressione del partito cui loro almeno formalmente appartengono?”. Bersani dice spesso una cosa, cioè che grazie a lui il Pd ha interpretato anche il pensiero e gli umori di migliaia di elettori di sinistra che non si riconoscevano nel Sì al referendum. “Dovreste farvi un giro nelle città, tra la gente del Pd per avere l’idea di quello che i nostri elettori pensano di loro. Fatevi una passeggiata sulla mia pagina Facebook, dove ho fatto un post pubblicando il mio intervento in assemblea, e guardate i commenti. Io durante la campagna elettorale ho girato, se loro non avessero già fatto serenamente un partito nel corpo vivo del nostro partito, forse si renderebbero conto di qual è il clima nei loro confronti. Stanno agendo contro le scelte che sono state prese democraticamente dal Pd. Io mi chiedo, anzi, chiedo a loro: che cosa volete? Renzi se n’è andato! E ora, ancora, anche con Gentiloni, dite che deciderete di volta in volta?”. Speranza ha deciso di candidarsi alla segreteria. Contro Renzi. “Ed è abbastanza singolare il modo in cui lo ha annunciato. Si dice che io ho insultato un compagno di partito. Ma uno può moderare lo scontro tra Davide e Golia, che è l’immagine usata da Speranza? Ma che immagine è?”. E’ l’immagine di un uomo che combatte contro un gigante, significa che è una battaglia coraggiosa contro un avversario evidentemente più forte. “Ma no. Fa il paio col ducetto di Rignano. Ti segnalo che il gigante contro Davide, Golia, non è una figura carina e per bene: è il nemico mostruoso. E tu il nemico ce l’hai dentro il partito? Ma che cavolo di metafora è? E poi mi fischiano perché dico che hanno la faccia come il culo?”. No basta, non lo dire più. Dai. “Ma io non ce la faccio più. Quando ho sentito che Speranza diceva, testualmente, che il Mattarellum è la loro proposta di riforma elettorale mi si è annebbiata la vista. E’ da più di un anno che sulla legge elettorale hanno un atteggiamento assolutamente scorretto. L’Italicum è stato cambiato sei volte, su richiesta della minoranza: le preferenze, le soglie, l’articolo che inseriva il vaglio preventivo della Consulta… L’ultima volta sono intervenuti sul ballottaggio, e poiché stavamo arrivando a un accordo, hanno sconfessato il loro inviato, cioè Gianni Cuperlo. E’ evidente che il merito in questa faccenda non esiste. Esiste solo l’obiettivo di disarcionare Renzi. E’ tutto un gioco ai miei occhi molto scoperto. Ma lo facessero apertamente, lo dicano che il problema è Renzi. Io non provo nessun odio, né rancore personale. Anzi, l’ho già detto, Speranza mi sta pure simpatico. Però, al netto della parola ‘culo’ riferita alla loro faccia, penso che la politica debba riguadagnare la schiettezza dei rapporti e rispondere apertamente delle scelte che si prendono”. E infatti Speranza si candida alla segreteria. “Ma si candida per fare cosa? Per vincere non mi pare. Si candida per sfasciare? C’è un fatto che loro negano, ed è anche il motivo per il quale sono costretti a una battaglia ipocrita e tutta obliqua, opaca: loro non sono il Pd. Il Pd sono quei due milioni di cittadini che hanno eletto Renzi segretario”. Ma se gli dici che hanno la faccia come il culo non aiuti. “Il continuo tentativo di ricomporre le differenze descrive una fotografia che è diversa dalla realtà. Qua nessuno vuole ricomporre nulla. Altrimenti gli atteggiamenti sarebbero diversi. La realtà si manifesta nei comportamenti, e i loro comportamenti sono puntualmente diversi da quelli che descrivono a parole”. E quindi? “E quindi mi sono scocciato. Mi sono scocciato degli eufemismi e dei calci scambiati sotto il tavolo. Qualcuno lo doveva pur dire”.