Post-verità. Un pericolo per le democrazie

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Francis Fukuyama5 Marzo 2017 –  Il Sole 24 Ore domenica

FAKENEWS
Uno degli sviluppi più sorprendenti degli eventi politici così fuori dal comune che si sono verificati appena l’anno scorso è stata l’emersione di un mondo «post-fattuale», in cui quasi tutte le fonti di informazione autorevoli vengono messe in discussione e contestate con notizie contrarie di dubbia qualità e provenienza.
Negli anni 90, la comparsa di internet e del web venne salutata come un momento di liberazione e una manna dal cielo per la democrazia mondiale.
L’informazione costituisce una forma di potere e il fatto che stava diventando sempre più economica e accessibile avrebbe consentito all’opinione pubblica democratica di partecipare in contesti da cui fino a quel momento era stata esclusa. Nei primi anni 2000, sembrava che lo sviluppo dei social media avesse accelerato questa tendenza, rendendo possibili le mobilitazioni di massa che hanno alimentato varie «rivoluzioni colorate» nel mondo, dall’Ucraina alla Birmania e all’Egitto. In un mondo di comunicazione peer-to-peer, i vecchi guardiani dell’informazione, in gran parte identificati con Stati autoritari e repressivi, ora potevano essere bypassati.
C’era un fondo di verità in questo ottimismo, ma un’altra faccia della medaglia, più oscura, stava prendendo forma. Quelle vecchie forze autoritarie stavano reagendo in maniera dialettica, imparando a controllare Internet, come nel caso della Cina con le sue decine di migliaia di censori, o reclutando legioni di troll e sguinzagliando bot in grado di inondare i social media con notizie false, come nel caso della Russia. Queste tendenze sono confluite in maniera lampante nel corso del 2016, confondendo i confini fra la politica estera e quella interna.
Il principale manipolatore dei social media è la Russia. Il governo di Mosca ha diramato falsità eclatanti, come la «notizia» che i nazionalisti ucraini crocifiggevano i bambini piccoli, o che le forze governative ucraine avevano abbattuto il volo 17 della Malaysia Airlines nel 2014. Queste stesse fonti hanno contribuito al dibattito sul referendum per l’indipendenza scozzese, quello sulla Brexit e quello sul referendum olandese per l’accordo di associazione fra Ue e Ucraina, amplificando ogni notizia dubbia che poteva indebolire le forze pro-Ue.
Il fatto che le potenze autoritarie usassero notizie false come arma era già di per sé abbastanza grave, ma questa pratica ha messo radici profondissime durante la campagna elettorale degli Stati Uniti. Tutti i politici mentono, o a voler essere più indulgenti rigirano la verità a proprio vantaggio; ma Donald Trump ha portato questa prassi a vertici inauditi. Ha cominciato qualche anno fa promuovendo il birtherism, la teoria che sosteneva che il presidente Barack Obama non era nato negli Stati Uniti; tesi che Trump ha continuato a propagare anche dopo che Obama aveva mostrato il suo certificato di nascita.
Negli ultimi dibattiti presidenziali dello scorso anno, Trump si ostinava a dire di non aver mai appoggiato la guerra in Iraq e di non aver mai detto che i cambiamenti climatici erano una bufala. Dopo l’elezione, invece, ha affermato di aver vinto anche il voto popolare (quando è noto ha preso oltre due milioni di voti in meno rispetto alla Clinton) perché in tanti avevano votato illegalmente. Qui non stiamo parlando di semplici adombramenti dei fatti, ma di bugie vere e proprie, la cui falsità è facilmente dimostrabile. Che affermasse queste cose era già abbastanza grave di per sé; ma la cosa peggiore è che gli elettori repubblicani gli hanno perdonato senza problemi le sue colossali e reiterate menzogne.
I paladini della libertà di informazione sostengono che per combattere le notizie false basta semplicemente diffondere quelle vere, che in un mercato delle idee si affermeranno spontaneamente. Questa soluzione, purtroppo, funziona molto meno bene nel contesto dei social media, dove imperversano troll e bot. (Secondo alcune stime, tra un quarto e un terzo degli utenti di Twitter rientra in questa categoria.) Internet ci doveva liberare dai guardiani dell’informazione, e in effetti oggi le notizie arrivano da tutte le fonti possibili, tutte con uguale credibilità. Non c’è motivo di credere che la buona informazione scaccerà quella cattiva.
C’è un problema più serio di queste falsità specifiche e del loro effetto sui risultati delle elezioni. Perché prendiamo per buona una notizia, considerando che nella maggior parte dei casi soltanto pochissimi fra noi sono nella posizione per verificarne l’attendibilità? Il motivo è che esistono delle istituzioni imparziali che hanno il compito di produrre elementi di fatto di cui ci fidiamo. In America le statistiche sulla criminalità sono elaborate dal dipartimento di Giustizia e quelle sulla disoccupazione dall’Ufficio statistiche del lavoro. È vero che i principali organi di stampa come il «New York Times» erano prevenuti nei confronti di Trump, ma dispongono di sistemi che gli impediscono di pubblicare errori fattuali madornali. Dubito seriamente che Matt Drudge o la Breitbart News abbiano schiere di fact-checkers incaricati di verificare l’attendibilità del materiale pubblicato sui loro siti web.
Nel mondo di Trump, per converso, ogni cosa è politicizzata. Durante la corsa alla Casa Bianca ha insinuato che Janet Yellen, la presidente della Federal Reserve, stesse lavorando per favorire Hillary Clinton, che le elezioni sarebbero state truccate, che le fonti ufficiali stavano deliberatamente sottovalutando il numero di reati e che il rifiuto dell’Fbi di incriminare l’ex segretaria di Stato era dovuto al fatto che i suoi collaboratori avevano corrotto il direttore dell’Fbi James Comey. Ha rifiutato anche di accettare l’autorità delle agenzie di intelligence che accusavano la Russia di aver hackerato il Comitato nazionale democratico. E, naturalmente, Trump e i suoi sostenitori hanno alacremente denigrato tutte le notizie riportate dai «media mainstream» definendole irrimediabilmente parziali.
L’incapacità di concordare sui fatti più elementari è la diretta conseguenza di un assalto a tutto campo contro le istituzioni democratiche (negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in tutto il mondo). Ed è qui che le democrazie rischiano grosso. Negli Stati Uniti c’è stato un degrado delle istituzioni, con potenti gruppi di interesse in grado di proteggersi attraverso un sistema di finanziamento illimitato delle campagne elettorali. Il teatro principale di questo degrado è il Congresso e i comportamenti scorretti di regola sono tanto legali quanto diffusi. La gente comune ha ragione a essere turbata. Eppure la campagna elettorale ha spostato i termini del problema verso una convinzione generalizzata che ogni cosa sia truccata o politicizzata e che ovunque dilaghi la corruzione. Se la commissione elettorale certifica che il vostro candidato preferito non è il vincitore, o se l’altro candidato apparentemente se l’è cavata meglio durante il dibattito, dev’essere il frutto di un’elaborata cospirazione ordita dalla fazione opposta per alterare i risultati. Credere nella corruttibilità di tutte le istituzioni porta in un vicolo cieco di sfiducia universale. La democrazia americana, la democrazia in generale, non sopravviverà alla mancanza di fiducia nella possibilità che esistano istituzioni imparziali; la lotta politica faziosa arriverà a pervadere ogni aspetto dell’esistenza.
Francis Fukuyama, autore di un celebre libro come La fine della storia (1992) è ricercatore anziano e direttore
del Centro su democrazia, sviluppo e Stato di diritto
dell’Università di Stanford

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