Preghiera agli addetti stampa del presidente Zaia: informatevi meglio!

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Ieri ho chiesto al Presidente Zaia di non sparlare quando affronta la questione ebola e ad evitare il linguaggio tribale nel rivolgersi ai militari americani di ritorno a Vicenza dalla missione internazionale umanitaria in Liberia. Credo però di aver sbagliato bersaglio perchè   l’infamia dell’invito a “curarsi a casa loro” costituisce una polpetta avvelenata confezionata verosimilmente dal suo Ufficio stampa in cui operano(e sono retribuiti) consulenti con scarsa cognizione degli argomenti su cui sono chiamati a predisporre comunicati ed interventi. Per questa ragione ritengo opportuno suggerire loro di leggere non tanto le mie recriminazioni (che potrebbero essere condizionate dal pregiudizio politico nei confronti del Presidente) bensì un articolo redazionale pubblicato oggi sul Foglio che si fa – giustamente secondo me – beffe di dichiarazioni ritenute (beffardamente) figlie di un’ombra – naturalmente veneta! –

QUELLE PAROLE UBRIACHE SUI SOLDATI AMERICANI DA CURARE “A CASA LORO” (da il Foglio, giovedì 30 ottobre)

Da “aiutiamoli a casa loro” a “facciano i bagagli e se ne vadano a casa loro, mica possiamo diventare un lazzaretto” – dove gli appestati non sono i clandestini ripescati da Alfano, per una volta, ma i militari americani che “dovrebbero fare la quarantena a casa loro” – si può misurare

senza paura di sbagliare tutta la tragicomica parabola calante del patrimonio concettuale del fu leghismo di marca veneta. Il presidente della regione Veneto, Luca Zaia, non ha infatti trovato di meglio che ricicciare uno spompato, ma in questo caso più che altro stupido, slogan dei tempi andati: “Prima vengono i veneti, poi gli americani”. La faccenda, perfino banale, è il rientro nella caserma Del Din, base statunitense a Vicenza, di alcuni militari americani che sono stati messi

in isolamento in quanto provenienti dalla Liberia, paese tra i più colpiti da ebola. (L’ambasciata americana, da Roma, ha spiegato che il “rischio potenziale di infezione è basso” e che i militari

non hanno “avuto contatto con persone contagiate dal virus”. Ma evidentemente in laguna, dove si credono ancora dogi, gli ambasciatori non li ricevono). Così il governatore ha formulato il suo editto: “Credo che un paese civile di fronte a un esodo biblico di immigrati ha il dovere e l’obbligo di alzare le barriere”. Per quanto leghista della seconda ora, per quanto esteta della politica come

amministrazione di capannone e della terra padana come ultimo orizzonte che la logica esclude, persino Luca Zaia dovrebbe saper distinguere, se non l’alleato dall’invasore, almeno l’amico dal nemico. Se di basi militari americane sono pieni il Veneto e il Triveneto, qualche motivo storico c’è. Se quelle basi nei decenni hanno portato sicurezza e libertà, e ancora adesso portano schèi in tasca alla “gente veneta”, qualche motivo pure di reciproca convenienza c’è. E se i suoi

amici del Leòn, da decenni e senza particolare costrutto, gridano all’indipendenza, è perché quella loro terra è stata difesa e arricchita anche dai soldati che adesso dovrebbero andare in quarantena

a casa loro. E non c’è nemmeno bisogno di ricordare tutte le Peggy Guggenheim che ogni giorno salvano Venezia, che, come si sa, fosse per il Mose sarebbe già colata a picco. Lo spettacolo di

Zaia che su ebola insegue persino Grillo, che a sua volta sugli stranieri insegue Salvini, in una baruffa chiozzotta da ubriachi, davvero grottesca. Se poi lo straniero da buttare a mare sono i marines, aridatece il centralismo.

 

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