Mentre esce il suo romanzo “Lissy”, Luca D’Andrea, campione europeo di vendite, racconta una natura spietata, lontana dalle mode letterarie
BOLZANO – CLAUDIA MORGOGLIONE – la Repubblica – 24 0ttobre 2017
Aprima vista, un’oasi di pace: piazza Walther tirata a lucido, la locandina colorata del museo che ospita il nostro antenato Oetzi, le Passeggiate del Talvera dove incontri signore col passeggino, coppie di anziani, bambini che giocano sui prati. Ma se a guidarti alla scoperta di Bolzano
è Luca D’Andrea – scrittore nato e vissuto qui, campione internazionale di vendite col romanzo d’esordio La sostanza del male – capisci che le apparenze ingannano. E che anche la panchina di un viale panoramico, quella «con la vista migliore della città», ti racconta un’altra storia. Basta sedersi, alzare gli occhi verso le vette che la circondano: «A destra c’è il massiccio del Rosengarten, dove secondo la mitologia locale morì Re Laurino. A sinistra l’altopiano del Renon, terra di streghe. Vedi? Già solo guardandola, la montagna ti racconta com’è. Dura. Severa. Chiusa in un silenzio minerale. Altro che luogo idilliaco… prova a viverci davvero, lassù, e poi ne riparliamo».
Una visione per nulla buonista della natura che il trentottenne D’Andrea riversa con forza ancora maggiore in Lissy, in uscita per Einaudi Stile Libero. Un thriller esistenziale e cupissimo ambientato su queste Alpi, centrato su quattro personaggi borderline: una giovane donna in fuga, un boss della mala locale, un sicario, il contadino di un maso sperduto nella neve dove si svolge gran parte della storia. Caratteri a tutto tondo, e un intreccio che coinvolge il lettore, senza pause né sbavature, fino all’epilogo: non sorprende che un autore così solido sia finito, già al debutto, nelle top ten di paesi come la Germania, la Spagna, la Danimarca. Perfino l’ Uruguay.
Allora, Luca: come si vive, da italiani, in una città dall’impronta decisamente tedesca?
«Sono uno “sciangaiolo”, come la gente perbene chiamava gli abitanti del quartiere popolare “Sciangai”, pieno di italiani. Sono cresciuto facendo a botte con i ragazzi tedeschi. Qui in passato ho vissuto la stagione degli attentati dell’organizzazione terroristica Ein Tirol, le camionette dei carabinieri ovunque. Ma anche cose belle come le partite a hockey, che da queste parti è più amato del calcio».
Cosa resta oggi della sua infanzia?
«Adesso è l’Alto Adige il mio parco giochi personale, dove posso far muovere i personaggi dei miei libri: come fa Jo Nesbø in Norvegia o Stephen King, il mio mito, nel Maine. Ma con Lissy ho voluto scrivere una storia completamente diversa dalla precedente, e anche per questo l’ho ambientata in un’altra epoca, nel 1974: il periodo in cui l’economia del maso tramonta».
Il romanzo è costruito con precisione chirurgica…
«Sono molto abitudinario, lavoro otto ore al giorno (festivi non esclusi). Per Lissy mi sono preparato per sei mesi, documentandomi su ogni aspetto che avrei riversato nel libro: da quanto dura la gravidanza di una scrofa a quali materiali rivestivano i masi negli anni ’70. Ho parlato anche con gente che ci viveva. Questo perché quando scrivo la prima parola del romanzo devo già sapere tutto: ogni svolta narrativa; le biografie complete dei personaggi, cosa fanno e pensano. Il tutto mescolando un 70% di realtà e un 30% di finzione».
In quel 70% c’è una naturaostica e aspra come non mai.
«Lo è davvero. In quota, ma anche là sotto (indica il fondovalle,
ndr) non è meno impervia. La sua vera caratteristica? L’indifferenza. Il problema è che ce lo siamo scordati, così come abbiamo dimenticato il passato da cui veniamo, quello che ancora i nostri genitori hanno vissuto: le privazioni, la fame».
Eppure la montagna, anche in letteratura, è diventata trendy. Fonte di saggezza. Mentre in “Lissy” è isolamento, freddo, follia.
«La tendenza a vederla come una moda c’è. Ma la verità è che la montagna o la rispetti, o finisce che il soccorso alpino ti viene a ripescare da qualche parte, da morto. Non c’è pace: guardandola meglio, scopriamo che è tutta una lotta per la vita. E dunque richiede dura disciplina. Come il pensiero, come la scrittura».
Ma è la montagna meno dark, ad esempio quella raccontata da Paolo Cognetti, a vincere premi come lo Strega.
«A me i premi non interessano. Sul serio».
Ok, niente giurie letterarie. Ma allora quali sono i suoi lettori ideali?
«Ho un’idea precisa. Quando scrivo, penso che a leggermi sarà una signora con le sportine che torna dal supermercato e che vuole rilassarsi un’ora, con una storia appassionante».
In effetti il noir è considerato letteratura pop.
«Non so se i miei siano veri e propri noir: in vari paesi europei
La sostanza del male è uscito come romanzo e basta, al di fuori delle collane di genere. In ogni caso, il thriller è la parte della narrativa popolare che riesce a mostrare meglio il momento in cui i codici morali vengono messi sotto pressione: è il meccanismo che mi interessa di più. Succedeva anche nelle fiabe tradizionali, infatti uno dei fili conduttori di Lissy è l’ossessione della protagonista femminile per le favole dei fratelli Grimm».
E la paura?
«È come il sale nelle ricette: deve essercene “quanto basta”. Nei thriller, si incarna quasi sempre in una situazione senza via di uscita. In generale, credo che la paura sia un dettaglio sbagliato in un ambiente normale, perfino familiare».
Quindi nel noir c’è anche un sottotesto, diciamo così, filosofico?
«Sembra che rimesti nella morte; in realtà, paradossalmente, celebra la vita. Facendoci provare emozioni forti, e un sentimento umano fondamentale: l’empatia. In Lissy, la mia sfida è fare provare al lettore empatia per un assassino».
Nelle serie crime italiane di maggiore successo, però, l’empatia è tutta verso il poliziotto che gli assassini li cattura.
«Questo tipo di letteratura seriale affonda le radici nel genere nostrano per eccellenza, il melodramma: più che per le indagini, leggiamo quei libri per sapere cosa succede al protagonista sul piano personale. Lo apprezzo, ma non fa parte del mio mondo: da scrittore mi annoierei».
Insegnare invece le piaceva: lo ha fatto da precario per anni, ora ha mollato. Cosa ne pensano i suoi studenti?
«I miei libri non sono adatti a loro, troppo duri. Ma io rappresento un esempio del fatto che se si crede in se stessi, tutto è possibile. Anche che un professore precario di Bolzano diventi un caso letterario internazionale».