“Abbiamo migliorato i prodotti, cambiato i canali distributivi. Dobbiamo certamente migliorare sulla strutura dell’innovazione che è ancora troppo spontanea e non legata a centri di ricerca o alle università” (Alessandro Vardanega – Pres. Confindustria TV – Il Sole 24 ore 27.2. 2014). In questa dichiarazione, lucida ed onesta, è fotografata quella parte dei problemi solitamente messi in ombra nelle analisi e rivendicazioni delle associazioni imprenditoriali, focalizzate – legittimamente – sulla ultradecennale querelle per fisco, infrastrutture e credito. Per diverse ragioni, che abbiamo sottolineato nei precedenti interventi, i processi di innovazione nel tessuto delle PMI hanno avuto un andamento random; ben oltre le difficoltà strategiche rappresentate dal “dilemma dell’innovatore”, essi sono diventati progressivamente un esercizio di equilibrismo manageriale. Non ci deve sorprendere quindi che nel Rapporto sulla competitività dei settori produttivi 2014 dell’ISTAT venga evidenziato che per contrastare la recessione le aziende manifatturiere hanno principalmente fatto ricorso ad orientamenti strategici “interni” di difesa della propria competitività: la riduzione dei costi di produzione, il miglioramento qualitativo dei prodotti,l’ampliamento della gamma dei prodotti offerti e il contenimento dei prezzi e dei margini di profitto; mentre, tra le strategie “esterne” si è rilevato prevalentemente un rafforzamento elle strategie di commercializzazione in misura pressoché identica in Italia ed all’estero. D’altronde, come è stato osservato già qualche tempo fa (A. Granelli, Innovazione. Andare oltre la tecnologia – L’IMPRESA), “Innovare oggi richiede una lettura continua dei segnali del mercato e la capacità di mettere insieme – in maniera creativa , profittevole ed ecologicamente sostenibile – ingredienti sempre più diversificati (materiali, tecnologie, interface, estetica, servizi, sensazioni, ricordi…), costruendo esperienze “memorabili” ancorate ad uno specifico luogo – vero garante dell’unicità dell’esperienza”. L’aspetto paradossale della situazione, meno indagato e fatto emergere finora, è che il fattore conoscenza è enormemente cresciuto sia in termini di diffusione – attraverso le tecnologie abilitanti e le expertise – che di profondità – attraverso le ricerche di laboratorio e/o nei testi delle pubblicazioni scientifiche. L’indicazione che viene dal Progetto EMPLEKO è che questa risorsa strategica, che identifichiamo come “innovazione allo stato potenziale”, deve essere affidata ad esplicite e strutturate dinamiche di matching, che la Rete rende praticabili e profittevoli creando un mercato più trasparente ed efficiente. Usando un’espressione che potrà risultare sbrigativa, è tempo di passare “from the lab to the market”. L’innovazione quindi deve entrare in un’agenda pubblica nella quale vengono superati i diaframmi culturali ed organizzativi tra ricercatori, specialisti, aziende, istituzioni pubbliche e gli stessi consumatori (che in fin dei conti sono i veri detentori del diritto ad una maggiore trasparenza). Quest’ultima annotazione è anche alla base dell’esigenza avvertita di un linguaggio, per descrivere e orientare il carattere di “bene pubblico” dell’innovazione, che dismetta l’abito della specializzazione – sia essa economica o scientifica – e diventi più popolare nel senso di accessibile, comprensibile ed aperto alle contaminazioni multidisciplinari, che costituiscono leve decisive per la creatività e la scoperta, sintonizzato con il messaggio della National Innovation Initiative realizzata negli USA. E’ su tali convinzioni ed orientamenti strategici che si basa il modello operativo di EMPLEKO, una Piattaforma collaborativa che persegue quella che Chris Anderson ha definito “Crowd Accelerated Innovation” e che rappresenta per Ricercatori, Professionisti ed Imprese l’opportunità di immettere nel motore della nostra economia una formidabile energia.