La strategia politica che manca all’Europa
di Alberto Quadrio Curzio – 3 Aprile 2016 Il Sole 24 Ore
Tra pochi giorni il governo dovrà presentare al Parlamento il Documento di economia e finanza, che include il programma di Stabilità e quello nazionale di riforme che entro fine mese andranno alla Commissione europea. Poi ci sarà il tormentone sui decimali dei parametri europei e sulle raccomandazioni della Commissione e del Consiglio europeo che ci accompagneranno fino alla legge di stabilità. Per non essere travolti da un fiume di dati e di opinioni tentiamo qualche valutazione generale che ci porterà a concludere come l’Italia sta cambiando in un’Europa frenata.
Europa che frena. Il 2015 e l’anno corrente non sono quelli della ripresa, come dimostra chiaramente l’Ocse.
Una tanto sintetica quanto efficace paginetta dell’“interim economic outlook ” Ocse di metà febbraio in tre punti mette l’Eurozona (e la Ue) di fronte alle proprie responsabilità. Il primo punto evidenzia il rischio di una euro-stagnazione per carenza di investimenti e di innovazione e per troppa enfasi sul rigore. Il secondo evidenzia la lentezza delle riforme economiche europee sulle varie tipologie di mercati interni, la debole partenza del piano Juncker e la troppa prudenza della Bei. Il terzo punto rileva i rischi politico-istituzionali di reazione all’austerità, ai movimento migratori, al terrorismo. La conclusione è netta «l’Europa deve riconquistare un senso di identità e parlare con una sola voce per promuovere unità e crescita».
È una richiesta di strategia politica delle istituzioni europee che invece procedono con misure tampone adesso rivolte alla crisi migratoria. Segna invece il passo il progetto “Completare l’Unione economica e monetaria dell’Europa” elaborato dai 5 presidenti e cioè: Juncker, Tusk, Dijsselbloem, Draghi e Schulz. Eppure si tratta dell’unica solida (anche se migliorabile) base per fare innovazioni istituzionali nella Eurozona.
Italia che cambia. Che il nostro Paese stia invece facendo delle riforme (anche se non sempre chiare) è una opinione ormai diffusa confermata da molti dati. Ciò non significa che i nostri punti deboli di antica data siano superati. Bisogna esserne consapevoli, non per autodenigrarci ma per migliorare. Anche il recente rapporto della Commissione europea sull’Italia riconosce che sono state fatte molte riforme pur sottolineando che il debito pubblico sul Pil è preoccupante e che siamo carenti nella produttività sistemica. È vero ma non è tutto perché da molti punti di vista l’Italia non ha avuto nella crisi comportamenti opportunistici mentre ha contribuito a smuovere in meglio l’Europa. Ed anche in questo periodo di euro-scetticismo o euro-disfattismo continua a farlo. Due esempi tra i molti meritano di essere fatti: uno istituzionale e uno industriale.
Istituzioni. Il Governo italiano nel suo semestre di Presidenza del Consiglio europeo nella seconda parte del 2014, ha spinto molto sulla flessibilizazione dei conti pubblici per favorire la crescita. La comunicazione della Commissione europea del gennaio 2015 ne ha positivamente risentito e questo ha giovato alla ripresa, per quanto tenue, dell’Italia e dell’Europa. Inoltre,con il documento del febbraio scorso “una strategia europea condivisa per crescita, lavoro e stabilità”, che porta principalmente l’impronta del ministro Padoan, il Governo risulta essere l’unico tra quelli europei con una visione strategica sul futuro dell’Eurozona. Due sono i concetti cardine del progetto italiano che vanno anche a migliorare il documento dei “5 Presidenti”. Il primo è che la fiducia tra Paesi si rafforza se tutti si attengono alle regole comuni che devono essere formulate per premiare il rispetto e scoraggiare le violazioni. Il secondo è che la condivisione di sovranità e la mutualizzazione del rischio vanno di pari passo al rispetto delle regole e servono per stabilità crescita.
Industria. Con questo concetto intendiamo una logica produttiva che rispetta i requisiti di efficienza ed efficacia. Ebbene una parte dell’Italia del settore pubblico e di quello privato ha dimostrato di credere nella ripresa attingendo il più possibile ai finanziamenti Bei e Fei che applicano criteri di valutazione del merito di credito molto severi. Con circa 11 miliardi di euro d’investimenti Bei nel 2015, l’Italia è stata il secondo principale Paese beneficiario delle operazioni della Banca. Il 38% degli investimenti è andato alle Pmi e alle aziende mid-cap, mentre un altro 35% all’energia, telecomunicazioni e trasporti. Anche sul Piano Juncker l’Italia è stata molto pro-attiva non solo nella fase di varo dell’iniziativa ma anche in quella di utilizzo. Con soddisfazione rileviamo che dall’inizio della operatività del Piano, l’Italia è stato il Paese più attivo con 1,7 miliardi di finanziamenti ottenuti (sia per le infrastrutture che per le imprese)che dovrebbero mobilitare ben 12 miliardi di investimenti totali. Per le Pmi sono stati varati accordi tra il Fondo Europeo per gli Investimenti e le banche italiane per 44mila imprese per un importo totale di 318 milioni che dovrebbe mobilitare 7 miliardi di investimenti. Altri 1,4 miliardi di finanziamenti, che riguardano le infrastrutture e l’innovazione, dovrebbero mobilitare 4,8 miliardi di investimenti. Questo dimostra come l’Italia (dove il credito bancario è debole per le sofferenze pietrificate dai dogmi della Commissione sugli aiuti di Stato) cerca in tutti modi di accelerare.
Euro-costruttività. Sono elementi di cui la Commissione europea dovrebbe tenere conto non fossilizzandosi sui decimali di bilancio e considerando anche un importante argomento di recente avanzato dal Centro studi di Confindustria.Lo stesso ha dimostrato come le flessibilità di bilancio concesse ai Paesi che fanno riforme strutturali importanti rischiano di essere vanificate per l’eccessiva rapidità loro imposta al rientro nei parametri del fiscal compact(che tra l’altro la Commissione calcola anche più restrittivamente rispetto all’Ocse). In tal modo le riforme non esplicano i loro effetti positivi che sono di medio termine mentre quelli negativi sono sul breve termine. Ne possono seguire anche reazioni politiche contro le riforme stesse con cambi da Governi euro-costruttivi a Governi euro-scettici o euro-distruttivi. Per ora in Italia non è successo senza rinunciare a criticare costruttivamente le regole europee. Alla fine il nostro Paese è meglio di quanto spesso pensiamo.