Sono un veneto capace di inebriarsi della nebbia che vela le stoppie in autunno, che ama la terra concimata dal sudore e lievitata con l’amore dei contadini.
Ho conosciuto ed apprezzato la tiepidezza gradevole delle vecchie stalle, ma anche la laboriosità nei capannoni sorti nelle stesse campagne: in entrambi i luoghi si è riversata la fatica, l’intelligenza e l’abnegazione dei nativi, appartenenti ad una umanità fortunata.
Si, fortunata, perché generatrice di una vasta famiglia di missionari: promotori dello sviluppo e della fede dal microcosmo locale ai territori del mondo dove, per scelta, per sfida, ma anche per costrizione si sono dovuti recare con la sola dote di braccia, menti fervide, cuore generoso.
Sono un veneto che ha incontrato da giovane la lettura delle “Confessioni” di un fratello maggiore, un italiano precoce che gli ha rivelato la passione, le speranze e la sofferenza con cui ha partecipato alla costruzione del tessuto unitario di un Paese sognato come lo spazio vitale per l’incontro degli spiriti liberi e leali, animati dal desisderio di una Patria comune.
Ippolito Nievo ha donato tutto se stesso, con la sua scrittura e con la totale dedizione della vita, ad illustrare il manifesto dei sentimenti e degli ideali con i quali dare fondamento storico-culturale al progetto coltivato ed idealizzato per secoli dalle intelligenze più acute e visionarie, di una nazione sognata, sottratta agli artigli non solo degli “stranieri”, ma anche degli egoismi, viltà e mediocrità dei vari reucci, granduchi, principi e dogi, cardinali e briganti, dominanti su aree che, seppur “recintate” , erano legate ad un destino unitario.
Sono un italiano che si è più volte inchinato a pregare sui sassi e sulle rocce ancora umide del sangue copioso versato da sardi, calabresi, siciliani, pugliesi ed altri compagni di sventura, abbracciati nelle trincee dei monti familiari ai commilitoni veneti: tutti indistintamente coscienti che era un altro il destino in cui avevano confidato, per sé stessi ed il loro Paese.
Sono un veneto che, per quanto ha potuto, si è sforzato di studiare, sperimentare e proporre valori e programmi, per lo sviluppo sociale ed economico dell’Italia, generati ed osservati nel federalismo antropologico radicato nella storia peculiare della mia Regione, incardinata su una concezione della religiosità, dell’impresa, del risparmio, del welfare, fondamentale anche per correggere i vizi e le corruzioni, le distorsioni e le depravazioni con cui le parti vincenti delle classi dirigenti nazionali hanno infangato l’ideale di un Paese armonicamente integrato ed eticamente coeso, col dare vita ad una struttura burocratico–statuale asimmetrica-squilibrata-inadeguata.
Ciononostante mi sento grato ai Padri veneti che negli anni del Risorgimento nazionale hanno immaginato (e lottato per) una Patria condivisa; per quanto riguarda poi i cruciali frangenti del 1866, resto ammirato della saggezza con cui i rappresentanti del variegato ed amministrativamente composito territorio veneto hanno scelto la strada più lineare ed efficace per partecipare alla sua costruzione materiale.
Tali sentimenti di gratitudine e di ammirazione sono anche motivati dal riscontrare come, nel periglioso percorso unitario del Paese, le pulsioni autoritario-centralistiche del Regno Sabaudo e le componenti ribellistiche radicate in diverse aree del territorio meridionale, sono entrate in collusione, provocando un bagno di sangue – per lo più innocente – per il quale i fratelli meridionale hanno pagato un prezzo terribile e sul quale anche le recenti celebrazioni del 150° non hanno rappresentato un’occasione propizia per fare piena luce ed una ancor oggi indispensabile operazione-verità.
E’ a partire da queste sommarie considerazioni che, come veneto, coltivo un autentico disprezzo nei confronti di quegli operatori culturali (storici, insegnanti, giornalisti, politologi e sondaggiologi) che – in particolare negli ultimi venti anni – hanno affrontato le manifestazioni di dissenso e protesta emerse in Veneto sulla questione del rapporto Territorio-Stato, con un livello di superficialità, ignoranza, improvvisazione e strumentalizzazione che continuano a lasciarmi esterefatto.
Proprio in questi giorni, in cui la volontà confermata dai veneti nel 1866 di sottrarsi alla matrigna Austria e di recidere i leganti storici con la putrefatta Serenissima, è occcasione di valutazioni viziate da un banale approccio diacronico e/o da schematismi ideologici di impronta neo-centralistica, sottolineo la necessità di una rivisitazione storica ispirata dalla volontà di indagare e riconoscere tutti gli elementi contradditori (eroismi ed illusioni, ingenuità e manipolazioni, avanzamenti ed arretramenti, sviluppo ed ingiustizie, evoluzione nazionale e cedimenti territoriali) che hanno caratterizzato il processo di unificazione di un Paese che – a dispetto dei molti avversari interni ed esterni e delle difficoltà strutturali – si è confermato come un magnifico Progetto costantemente in progress.