Sergio Fabbrini –Il Sole 24 Ore domenica -3 Giugno 2018
Dopo quasi tre mesi, l’Italia ha finalmente un governo. La difficoltà a formarlo è stata dovuta ad un sistema istituzionale inadeguato, ma anche alla complessità della trasformazione della politica nazionale. È di quest’ultima che voglio discutere, riflettendo sulle ragioni strutturali che hanno condotto a quel governo. Procederò a punti, per essere il più chiaro possibile.
Ieri è stato ufficializzato un governo sovranista. Esso è l’espressione di una frattura politica che si è venuta formando a partire dalla crisi finanziaria del 2008 e che è emersa in evidenza nell’autunno del 2011. Le dimissioni del governo Berlusconi e la nascita del governo Monti costituirono un punto di svolta della politica italiana. Dopo quell’autunno, una parte della società nazionale ha riconosciuto la necessità di avviare una politica di risanamento fiscale congruente con la nostra partecipazione al regime dell’Eurozona, mentre un’altra parte ha ritenuto che tale politica fosse contraria ai suoi interessi e culturalmente illegittima. Mentre la strategia politica perseguita dal governo Monti è stata fatta propria (con le inevitabili variazioni) dai governi successivi (di Letta, Renzi e Gentiloni), essa è stata invece contrastata duramente dalla Lega (l’unico partito che rifiutò di dare la fiducia al governo Monti) e quindi dai nascenti Cinque Stelle. Infatti, la crescita elettorale di questi ultimi è iniziata proprio con l’opposizione populista al governo Monti, considerato l’espressione del potere delle tecnocrazie sostenute da Bruxelles.
Dall’autunno del 2011 si è dunque avviato un processo di convergenza tra Lega e Cinque Stelle verso una piattaforma politica caratterizzata dal disconoscimento dei vincoli dell’Eurozona e dalla delegittimazione dei governi che avevano accettato quei vincoli. Tale convergenza ha trovato la sua celebrazione operativa nella mobilitazione contro la riforma costituzionale proposta dal governo Renzi. Quest’ultimo è anzi diventato, nella propaganda dei due partiti, il simbolo dell’Italia asservita agli interessi della grande finanza oppure della grande Germania.
Al punto che l’anti-renzismo costituisce, oggi, la condizione per poter salire sul loro carro. Indubbiamente, gli stessi leghisti e pentastellati hanno faticato a riconoscersi come alleati, così come la loro obiettiva convergenza non è stata compresa da buona parte della cultura democratica italiana. Tuttavia, se si considerano i fatti, dal 2011 si è formata in Italia una coalizione spuria di populisti (Cinque Stelle) e nazionalisti (Lega e quindi Fratelli d’Italia) che ha messo in discussione la collocazione europea dell’Italia, rivendicando il recupero di una (generica) sovranità nazionale. Un recupero necessario per restituire il potere al popolo (al singolare). Chiunque si opponga alla volontà del popolo (anche se è il presidente della Repubblica) è necessariamente un servo di poteri stranieri.
La coalizione sovranista rappresenta interessi ed umori che dipendono dal mercato e dalla politica domestiche. C’è in Italia una area di ceti sociali, spesso privi di connessioni organizzative, che ritiene che l’integrazione monetaria costituisca un regime non-necessario. È vero che la Lega e i Cinque Stelle rappresentano elettorati geograficamente distinti, ma è anche vero che quegli elettorati hanno un comune interlocutore per soddisfare i propri interessi. Il bilancio pubblico e i suoi gestori. Ecco perché i due partiti avevano bisogno di andare al governo. Solo così possono allocare al Sud maggiori risorse pubbliche ovvero garantire al Nord una minore invasività fiscale (oltre che il controllo delle frontiere). È evidente, però, che le due constituencies non sono facilmente conciliabili. Per questo motivo il governo sovranista si è dato una presidenza del Consiglio collegiale (costituita di ben quattro esponenti politici, due leghisti e due pentastellati), così da tenere sotto controllo le tensioni che emergeranno tra quelle constituencies. Qualsivoglia mediazione verrà trovata, però, condurrà a un esito di politica di bilancio poco o punto compatibile con il funzionamento dell’Eurozona.
La composizione del governo sovranista è stata di conseguenza pensata per preparare il confronto, che avverrà, con le istituzioni e le autorità dell’Eurozona. Da tempo, la politica europea non è più una componente della politica estera, ma costituisce la sostanza della politica interna. In tutti i Paesi dell’Eurozona, essa viene decisa all’interno di un cerchio ristretto di attori governativi, costituito dal presidente del Consiglio (a cui fa riferimento il responsabile delle Politiche comunitarie) e dal ministro dell’Economia. In Italia, da tempo, la Farnesina è stata ridotta a un ruolo secondario nella politica europea, anche se il nostro Rappresentante permanente a Bruxelles proviene generalmente dai suoi ranghi. Le cose continueranno a essere così anche con il governo che ha appena giurato, con la differenza (questa volta) che la presidenza del Consiglio avrà una leadership collegiale. La nomina di un esponente europeista agli Esteri difficilmente cambierà questo equilibrio, anche se ci consentirà di preservare (almeno) le distanze da un avversario divenuto improvvisamente un amico, come la Russia.
Se si guarda il gruppo incaricato di gestire la politica europea del nuovo governo, è evidente che i suoi componenti sono critici (più o meno) implacabili dell’Eurozona. Naturalmente, nessuno di loro è un anti-europeo, nel senso di Nigel Farage. Il loro obiettivo è quello di mettere in difficoltà l’Eurozona, senza mettere in discussione la nostra partecipazione all’Unione europea (Ue). Che la possibile uscita dall’Eurozona sia percepita come necessaria a componenti della maggioranza è dimostrato da ciò che è avvenuto giovedì scorso nel Parlamento europeo. Durante la discussione sul bilancio della Ue per il periodo 2020-2027, i 6 parlamentari della Lega e 14 dei 15 parlamentari dei Cinque Stelle hanno insieme proposto un emendamento per introdurre (nel nuovo bilancio comunitario) un fondo speciale per rimborsare i Paesi che, decidendo di uscire dall’Eurozona, dovranno sostenerne i costi. L’emendamento è stato bocciato.
In conclusione, dall’altro ieri l’Italia ha un governo che ritiene che il nostro interesse nazionale corrisponda con la messa in discussione dell’Eurozona nella sua attuale forma, ritenuta impropriamente espressione del dominio tedesco. Per questo motivo, la politica europea del governo è controllata strettamente da esponenti sovranisti. Più il percorso si farà conflittuale, più la coalizione di governo si dovrà rafforzare, a cominciare dal coinvolgimento dei Fratelli d’Italia. Tuttavia, la radicalizzazione del rapporto con l’Eurozona è destinata a creare divisioni all’interno delle varie constituencies dei partiti sovranisti. Una parte influente dell’elettorato leghista così come componenti urbane della gioventù meridionale avrebbero molto da perdere dalla marginalizzazione europea dell’Italia. Chi ritiene che il nostro interesse nazionale corrisponda invece con un rafforzamento del nostro ruolo in Europa, farebbe bene a considerare quegli interessi. Proponendo soluzioni innovative al loro malessere.