L’interesse nazionale e la prospettiva europea

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Le vere priorità UE

Sergio Fabbrini  Il Sole 24 Ore domenica  13 AGOSTO 2017
Pochi concetti sono fraintesi come quello di “interesse nazionale” (che pure dovrebbe esprimere le priorità di un Paese nelle relazioni con gli altri Paesi). In Italia ciò è particolarmente evidente, vista la diffidenza con cui lo si è tradizionalmente considerato. Eppure, ogni volta che emergono contrasti tra noi ed altri Paesi, quel concetto ritorna fuori. Dopo tutto, all’interno dell’interdipendenza globale, non vi è un ambito di policy che non susciti contrasti di interessi tra gli Stati. Anzi, lo sviluppo del processo di integrazione europea, che si riteneva avrebbe condotto al superamento degli interessi nazionali, ha finito per produrre l’esito opposto. Con il risultato che l’Italia, che ha avuto storicamente difficoltà a definire il proprio interesse nazionale, si è trovata spiazzata.
Chi non si è fatto spiazzare sono la destra e la sinistra radicali. Hanno idee chiare perché prive di fondamento. Per la destra radicale, l’interesse nazionale è dappertutto, in quanto coincide con la sovranità nazionale. Per la sinistra radicale, l’interesse nazionale non esiste, in quanto contano solamente gli interessi sociali o di classe transnazionali. La destra radicale non accetta di riconoscere che lo Stato nazionale, nella sua (presunta) sovranità, è morto con il secondo conflitto mondiale. I sovranisti della destra (come Giorgia Meloni o Matteo Salvini), ma anche del populismo di “né destra né sinistra” (come Luigi Di Maio), non si sono ancora accorti del fallimento degli Stati nazionali. L’integrazione sovranazionale post-bellica, sia a livello europeo che internazionale, ha costituito il tentativo (finora riuscito) di salvare lo Stato nazionale da sé stesso. Anche la sinistra radicale non ha preso atto dei cambiamenti generati, sugli assetti sociali nazionali, dai processi di interdipendenza, integrazione e globalizzazione. Essa continua a pensare in termini prevalentemente nazionali, come se lo Stato nazionale continuasse a rappresentare l’esclusivo contesto in cui si svolge il conflitto tra interessi sociali. Per i sovranisti della sinistra (come Nicola Fratoianni o Stefano Fassina o Maurizio Landini) il conflitto sociale è un “gioco a somma zero” che si svolge all’interno di uno Stato senza implicazioni fuori di esso.
Per loro è anzi pericolosa l’idea di aggregare interessi sociali diversi intorno ad una priorità nazionale da perseguire sul piano sovranazionale o internazionale. Naturalmente, le cose sono più complicate rispetto al modo di pensare della destra e della sinistra radicali. Contrariamente a ciò che ritiene la prima, l’interesse nazionale non coincide con la sovranità nazionale. Contrariamente a ciò che ritiene la seconda, la difesa degli interessi sociali non è indipendente dalla promozione dell’interesse nazionale in contesti interstatali. In realtà, più sono procedute l’interdipendenza e l’integrazione, più si sono moltiplicate le politiche pubbliche condivise da più Paesi. Come identificare il proprio interesse nazionale in questo contesto? Se consideriamo i due maggiori Paesi europei, vediamo che essi hanno adottato due modelli distinti per dare una risposta alla domanda. Per i francesi, l’interesse nazionale è ciò che viene definito come tale dall’alta tecno-burocrazia dello Stato, generalmente formatasi nelle grandes écoles, sulla base di una visione storica o di una valutazione strategica. Si tratta di una élite tecnocratica che è stata formata proprio per proteggere l’interesse nazionale dalle invasioni contingenti della élite politica. Un compito non più necessario quando le due élite coincidono, come è il caso del governo Macron. Per i tedeschi, invece, l’interesse nazionale è ciò che è definito dagli equilibri tra i principali gruppi sociali nel contesto della comune condivisione dei valori ed obiettivi che il Paese si è dato dopo la tragedia bellica. Se in Francia chi decide l’interesse nazionale è collocato nello Stato o collegato allo Stato, in Germania è invece nel sistema societario di cogestione della Mitbestimmung. Questo spiega perché, in Germania, i partiti politici, le grandi imprese e i sindacati sono fortemente intrecciati tra di loro (come abbiamo visto con le dimissioni del governatore socialdemocratico della Bassa Sassonia, Christian Wulff, che si faceva preventivamente correggere i suoi comizi dalla Volkswagen). E perché in Francia il sostegno dell’establishment pubblico è la condizione necessaria, anche se non sufficiente, per governare.
Naturalmente, le élite pubbliche (in Francia) e quelle societarie (in Germania) sono consapevoli delle implicazioni dell’integrazione sovranazionale. Esse hanno avviato da tempo una pratica di reciproca collaborazione, così consolidando il ruolo di guida dei loro Paesi in Europa. In entrambi i casi, tuttavia, l’interesse nazionale è definito precedentemente a quello europeo, al punto che quest’ultimo è stato spesso fatto coincidere con la posizione di equilibrio tra gli interessi nazionali dei due Paesi. Di qui l’inevitabile deriva verso una visione egemonica circa il ruolo di quei Paesi (o dell’asse tra di essi) rispetto agli altri Paesi europei. In Italia le condizioni per definire l’interesse nazionale sono state molto diverse. Contrariamente alla Francia, non abbiamo potuto affidare questo compito all’alta tecno-burocrazia dello Stato, perché troppo legata alla politica e troppo poco al merito. Contrariamente alla Germania, non abbiamo potuto affidare questo compito ai principali gruppi sociali, perché troppo frantumati al loro interno e troppo ostili l’uno all’altro. Abbiamo finito così per trasferire il nostro interesse nazionale in quello europeo. Se in Francia e in Germania, la definizione dell’interesse nazionale ha preceduto la definizione dell’interesse europeo, in Italia è avvenuto il contrario.
Ciò non è più possibile. Occorre prendere atto che l’integrazione e l’interdipendenza sovranazionali hanno reso più (e non meno) acuta l’esigenza di identificare gli interessi nazionali. Tale identificazione, tuttavia, deve essere perseguita nel contesto dei processi di integrazione in cui siamo inseriti. Se l’interesse nazionale è la carta delle priorità che dobbiamo promuovere e se tali priorità sono condizionate dall’interdipendenza con le priorità degli altri Paesi, allora esso non può essere definito né prima (come avviene in Francia e Germania) né dopo (come è avvenuto finora in Italia) l’interesse europeo. Ma contestualmente a quest’ultimo. L’interesse nazionale e l’interesse europeo sono distinti, ma vanno definiti insieme attraverso un processo di reciproco e costante adattamento. Un’operazione politica difficile ma possibile. Si consideri la crisi libica. È indubbio che l’Italia abbia un interesse nazionale alla stabilizzazione di quel Paese (da lì provengono i migranti che arrivano nelle nostre coste, da lì deriviamo le risorse energetiche che fanno funzionare le nostre attività e città). Eppure, nonostante siamo l’unico Paese europeo sul campo (diplomaticamente ed economicamente) e nonostante sappiamo che la stabilità politica della Libia è impensabile senza un coinvolgimento del leader della Cirenaica (il generale Khal?fa Belq?sim Haftar), ci siamo appiattiti sulla posizione europea e internazionale che riconosce solamente il governo di Fayez al-Sarraj (con sede a Tripoli). Tale appiattimento non ha aiutato a stabilizzare il Paese, lasciando insoddisfatto non solo il nostro interesse nazionale ma anche quello europeo (i migranti non si fermano a Lampedusa). Perché non abbiamo preso un’iniziativa autonoma pur nel contesto della nostra collaborazione europea? Insomma, invece di brandire il vessillo dell’interesse nazionale a caso, dovremmo definire con precisione le nostre priorità e quindi perseguirle responsabilmente. È bene che siano generalmente le esigenze dell’Europa a condizionare il nostro interesse. A volte, però, può essere necessario che sia il nostro interesse nazionale a condizionare quello europeo.

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