Viviamo un tempo in cui le parole hanno acquistato un appeal inedito, un “valore d’uso” che è diventato anche un misuratore della serietà-credibilità di chi le profferisce.
Il loro significato è sempre più associato ai volti ed alle coerenze comportamentali; le personne sono sempre più identificate con il linguaggio che le contraddistingue, tanto più quando esso ha a che fare con l’esercizio di un’attività e/o di una professione che richiedono il possesso di competenze tecniche e scientifiche.
Nell’attuale temperie di crisi ed incertezza, si è fatto più stringente l’esigenza che “le parole non siano staccate dalla pratica”, che insomma “le parole siano vissute” e testimoniate.
Contestualmente siamo immersi in un mondo di relazioni frenetiche e di comunicazione virale che rendono le parole e le affermazioni più fragili: e quando escono dalle bocche ed entrano nel sistema dei media “frullatori”, colorite dalla retorica, accentuate dal marketing, caricate dal bisogno di autoaffermazione, l’effetto è duplice: o – come la maionese – impazziscono, o si svuotano della loro intrinseca verità, del messaggio originario di cui (erano) sono portatrici. E ciò crea la diffusione di incomprensioni, asimmetrie dei codici espressivi, moltiplicazione delle interpretazioni su fatti e cose dapprima riconosciuti e valutati in modo uniforme.
Non è quindi sorprendente che l’indicatore fiducia, nelle indagini demoscopiche che si susseguono incessantemente – con riferimento a diverse questioni cruciali, dall’orientamento ai consumi al rapporto con le istituzioni, dalla propensione agli investimenti alla crescita economica ed allo sviluppo occupazionale – risulti orientato al segno negativo.
Una tale fenomenologia è ormai acclarata – perché abbondantemente analizzata e discussa – per quanto riguarda gli attori ed i protagonisti della scena pubblica, siano essi parte dello screditato ceto politico o appartenenti alla inefficiente-costosa burocrazia amministrativa: in questo ambito lo scarto tra progetti-promesse-slogan e realizzazioni concrete ha letteralmente bruciato il significato e le attese che molte parole, “promettenti” e dense di suggestione, avevano suscitato.
Meno chiari appaiono invece i rischi che stiamo correndo per l’abuso di parole nell’ambito della discussione e dell’attività divulgativa riguardanti i temi ed i dilemmi che la crisi sociale, economica e finanziaria del “sistema Paese” pone nell’agenda quotidiana dei media e della molteplicità dei soggetti (Imprese, Associazioni, Economisti e Ricercatori, Professionisti e Consulenti) impegnati a contrastarne gli effetti negativi ed a cercare credibili-praticabili vie d’uscita.
Il caso più eclatante e per molti versi rivelatore, su cui intendiamo soffermarci, è quello che si riferisce all’innovazione.
Senza dubbio essa costituisce il mainstream di questa (lunga) stagione di recessione, una sorta di mantra invocato e dibattuto come scelta strategica, strumento e pratica decisivi per ridare fiato e slancio al sistema economico-produttivo del nostra Paese, visibilmente impreparato-affaticato nel reggere le sfide di una competizione globale che si gioca su fattori (finanziari, tecnologico-organizzativi, internazionalizzazione, efficienza amministrativo-istituzionale) visibilmente deficitari, con numeri e performance che non solo collocano l’Italia in degradanti posti in classifica, ma – purtroppo – ne prefigurano (in assenza di provvedimenti efficaci) un declino inarrestabile, atteso che esso dura ormai da oltre un ventennio.
Esistono diagnosi abbastanza accurate sulle cause prossime di tale stato di crisi; numerose ricerche e convegni hanno focalizzato in modo inoppugnabile che il sistema produttivo italiano è caratterizzato da un deficit strutturale di efficienza e produttività, finora oscurato – per meglio dire mascherato – dalle straordinarie performance di un certo numero di Imprese e comparti del Made in Italy, in grado di raddrizzare, attraverso l’export, i conti della Bilancia commerciale, però insufficienti a ridare vento alle vele della crescita del PIL oltre la soglia di galleggiamento.
Da più parti (in primis Banca d’Italia) si indica quindi la necessità di superare tale gap puntando sui processi di innovazione che possono scaturire soprattutto dall’incremento delle relazioni collaborative tra Ricerca ed Imprese.
E’ a questo punto però che l’auspicato e fondamentale circolo virtuoso non riesce a decollare, essendo ostacolato da difficoltà ed incongruenze collegate sia con tradizionali resistenze e pigrizie di una parte del mondo accademico, sia con l’endemica incapacità delle PMI ad investire risorse significative su R & D; ma, a nostro avviso, ciò che rimane inesplorato e deve essere quindi svelato è l’imbroglio semantico che ruota attorno alla sfida – finora non affrontata nelle sue estreme conseguenze – dell’innovazione.
“Come si fa a favorire l’innovazione se il nostro linguaggio, e prima ancora il nostro pensiero, non sono innovativi”? Si condensa in questa affermazione di Enrico Letta, qualche tempo fa (quando non era Presidente del Consiglio), il nodo cruciale da risolvere.
Bisogna mettere in conto che il nostro è un Paese gravato da un pesante deficit di cultura scientifica , reso ancor più grave, nei suoi effetti sul sistema economico-produttivo, dal ritardo e dai limiti strutturali con cui l’Italia sta affrontando anche l’ultima innovazione dell’Information and Communication Technology, quella che ha determinato la rivoluzione digitale (vedi in proposito le vicissitudini dell’Agenda): tutto ciò rallenta i processi di trasferimento della conoscenza, accentuando il mismatching tra mondo della ricerca (non solo università) e delle professioni “high skilled” ed imprese, facendo emergere in tutta la sua evidenza la questione che i sociologi hanno identificato come “prossimità cognitivo-sociale”.
Tale diagnosi è confermata dai dati che fotografano un autentico paradosso:
a) mentre cala a livello mondiale la quota di mercato delle imprese esportatrici italiana, e cala la quota di brevetti delle imprese, al contrario aumenta la quota di pubblicazioni scientifiche rispetto sia al numero sia alle citazioni ricevute;
b) i laureati italiani vincono molti ERC – European Research Council (http://erc.europa.eu/) ma non li spendono in Italia; né ci vengono i laureati dei Paesi più ricchi!
Si delinea un contesto operativo che impone prioritariamente di ridare un significato autentico all’innovazione, mettendo in campo progetti ed azioni nei quali la correlazione con le parole adottate sia verificabile e valutabile immediatamente.
C’è bisogno di un “pensiero profondo ed umile” sorretto da una determinazione forte.
E’ l’ispirazione che deve caratterizzare la strategie e le iniziative di Open Innovation: affinchè la conoscenza e le competenze siano sostenute e promosse attraverso infrastrutture tecnologiche e modelli organizzativi in grado di accelerarne la circolazione:
– superando le barriere corporative, le autoreferenzialità, le furbizie ed i tatticismi indotti dal pensiero pigro;
– contaminando il tessuto delle PMI in particolare laddove lo spirito imprenditoriale continua a dare segni di vitalità e creatività che necessitano di essere coniugate con l’intelligenza collaborativa;
– adottando e praticando linguaggi e procedure che alimentino la contiguità, l’empatia e la prossimità cognitivo-sociale che consentono di condividere le sfide.
ASSORETIPMI, dall’angolo di osservazione di neo-associato, rappresentata una “piattaforma” predisposta a realizzare ed implementare un tale processo virtuoso, luogo e strumento ideali per incoraggiare, arricchire e moltiplicare le buone pratiche.