MISSION 2014: CONTRIBUIRE ALL’ECOSISTEMA DELLA CONOSCENZA

Tempo di lettura: 4 minuti

Assoretipmi

 

Viviamo un tempo in cui le parole hanno acquistato un appeal inedito, un “valore d’uso” che è diventato anche  un misuratore della serietà-credibilità di chi le profferisce.

Il loro significato è sempre più associato ai volti ed alle coerenze comportamentali; le personne sono sempre più identificate con il linguaggio che le  contraddistingue, tanto più  quando esso ha a che fare con l’esercizio di un’attività e/o di una professione che richiedono il possesso di competenze tecniche e scientifiche.

Nell’attuale temperie di crisi ed incertezza,  si è fatto più stringente l’esigenza che “le parole non siano staccate dalla pratica”, che insomma “le parole siano vissute” e  testimoniate.

Contestualmente siamo immersi in un mondo di relazioni frenetiche e di comunicazione  virale che  rendono le parole e le affermazioni più fragili: e quando escono dalle bocche ed entrano nel sistema dei media “frullatori”, colorite dalla   retorica,  accentuate dal marketing, caricate dal bisogno di autoaffermazione, l’effetto è duplice: o – come la maionese – impazziscono, o si svuotano della loro intrinseca verità, del messaggio originario di cui (erano) sono portatrici. E ciò crea la diffusione di incomprensioni, asimmetrie  dei codici espressivi, moltiplicazione delle interpretazioni su fatti e cose dapprima riconosciuti e valutati in modo  uniforme.

Non è quindi sorprendente che l’indicatore fiducia, nelle indagini demoscopiche che si susseguono incessantemente –  con riferimento a diverse questioni cruciali, dall’orientamento ai consumi al  rapporto con le istituzioni, dalla propensione agli investimenti alla crescita economica ed allo sviluppo occupazionale –  risulti  orientato al segno  negativo.

Una tale fenomenologia  è ormai  acclarata – perché abbondantemente analizzata e discussa – per quanto riguarda gli attori ed i protagonisti della  scena pubblica, siano essi parte dello screditato ceto politico o appartenenti alla inefficiente-costosa burocrazia amministrativa: in questo ambito lo scarto tra progetti-promesse-slogan e realizzazioni concrete ha letteralmente bruciato il significato e le attese che molte parole, “promettenti” e dense  di suggestione, avevano suscitato.

Meno chiari appaiono invece i rischi che stiamo correndo per l’abuso di parole nell’ambito della discussione e dell’attività divulgativa riguardanti i  temi ed i dilemmi  che la crisi  sociale, economica e finanziaria del “sistema Paese”  pone nell’agenda quotidiana dei media e della molteplicità dei soggetti (Imprese, Associazioni, Economisti e Ricercatori, Professionisti e Consulenti) impegnati a contrastarne gli effetti negativi ed a cercare credibili-praticabili  vie d’uscita.

Il  caso più eclatante e per molti versi rivelatore, su cui intendiamo soffermarci, è quello che si riferisce all’innovazione.

Senza dubbio essa  costituisce il mainstream di questa (lunga) stagione di recessione, una sorta di mantra invocato e dibattuto come scelta strategica, strumento e pratica decisivi per ridare fiato e slancio al sistema economico-produttivo del nostra Paese, visibilmente impreparato-affaticato nel reggere le sfide di una competizione globale che si gioca su fattori (finanziari, tecnologico-organizzativi, internazionalizzazione, efficienza amministrativo-istituzionale) visibilmente deficitari, con numeri e performance che non solo collocano l’Italia in degradanti posti in classifica, ma – purtroppo – ne prefigurano (in assenza di provvedimenti efficaci)  un declino inarrestabile, atteso che esso dura ormai da oltre un ventennio.

Esistono diagnosi abbastanza accurate sulle cause prossime di tale stato di crisi; numerose ricerche e convegni hanno focalizzato in modo inoppugnabile che il sistema produttivo italiano è caratterizzato da un deficit strutturale di efficienza e produttività, finora oscurato – per meglio dire mascherato – dalle straordinarie performance di un certo numero di Imprese e comparti del Made in Italy, in grado di raddrizzare, attraverso l’export, i conti della Bilancia commerciale, però insufficienti a ridare vento alle vele della crescita del PIL oltre la soglia di galleggiamento.

Da più parti (in primis Banca d’Italia) si indica quindi la necessità di superare tale gap puntando sui processi di innovazione che possono scaturire soprattutto dall’incremento delle relazioni collaborative  tra Ricerca ed Imprese.

E’ a questo punto però che l’auspicato e fondamentale circolo virtuoso non riesce a decollare, essendo ostacolato da  difficoltà ed incongruenze collegate sia con tradizionali resistenze e pigrizie di una parte del mondo accademico, sia con l’endemica incapacità delle PMI ad investire risorse significative su R & D; ma, a nostro avviso, ciò che rimane inesplorato e deve essere quindi svelato è l’imbroglio semantico che ruota attorno alla sfida – finora non affrontata nelle sue estreme conseguenze – dell’innovazione.

“Come si fa a favorire l’innovazione se il nostro linguaggio, e prima ancora il nostro pensiero, non sono innovativi”? Si condensa in questa affermazione di Enrico Letta,  qualche tempo fa (quando non era Presidente del Consiglio), il nodo  cruciale da risolvere.

Bisogna mettere in conto che il nostro è un Paese gravato da un pesante deficit di cultura scientifica , reso ancor più grave, nei suoi effetti sul sistema economico-produttivo, dal ritardo e dai limiti strutturali con cui l’Italia sta affrontando anche l’ultima innovazione dell’Information  and Communication Technology, quella che ha determinato  la rivoluzione digitale (vedi in proposito le vicissitudini dell’Agenda): tutto ciò rallenta i processi di trasferimento della conoscenza, accentuando il mismatching   tra mondo della  ricerca (non solo  università) e delle professioni  “high skilled”  ed imprese, facendo emergere in tutta la sua evidenza la questione che i sociologi hanno identificato come “prossimità cognitivo-sociale”.

Tale diagnosi è confermata dai  dati che fotografano un autentico  paradosso:

a)            mentre cala a livello mondiale la quota di mercato delle imprese esportatrici italiana, e cala la quota di brevetti delle imprese, al contrario aumenta la quota di pubblicazioni scientifiche rispetto sia al numero sia alle citazioni ricevute;

b)            i laureati italiani vincono molti ERC – European Research Council (http://erc.europa.eu/) ma non li spendono in Italia; né ci vengono i laureati dei Paesi più ricchi!

Si delinea un contesto operativo che impone prioritariamente di ridare un significato autentico all’innovazione, mettendo in campo progetti ed azioni nei quali la correlazione con  le parole adottate sia verificabile e valutabile immediatamente.

C’è bisogno di un “pensiero profondo ed umile” sorretto da una determinazione forte.

E’ l’ispirazione che deve caratterizzare la strategie e le iniziative di Open Innovation: affinchè la conoscenza e le competenze siano sostenute e promosse attraverso infrastrutture tecnologiche  e modelli organizzativi in grado di  accelerarne la circolazione:

–          superando le  barriere corporative,  le autoreferenzialità, le furbizie ed i tatticismi indotti dal pensiero pigro;

–          contaminando il tessuto delle PMI  in particolare laddove lo spirito imprenditoriale continua a dare segni di vitalità e creatività che necessitano di essere coniugate con l’intelligenza collaborativa;

–          adottando e praticando linguaggi e procedure che alimentino   la contiguità, l’empatia e la prossimità cognitivo-sociale che consentono di condividere le sfide.

ASSORETIPMI, dall’angolo di osservazione di neo-associato,  rappresentata una “piattaforma”  predisposta  a realizzare  ed implementare un tale processo virtuoso, luogo e strumento ideali per incoraggiare, arricchire e moltiplicare le buone pratiche.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Accetto la Privacy Policy