La patria? Sempre in costruzione
di Emilio Gentile – STORIA E STORIE – 3 Aprile 2016 Il Sole 24 Ore
Fabio Finotti esamina l’invenzione dell’Italia patriottica dall’epoca romana sino all’identità di Stato, nel 1861: da allora si è visto che la coscienza nazionale va curata e alimentata
«La nostra patria ha il volto mutevole della montagna e del mare… La storia della nostra patria è dunque lunga e movimentata»: tali espressioni non sono di un patriota del Risorgimento, né di un irredentista, un liberale, un repubblicano o un interventista dell’Italia liberale, quando la patria era collocata fra i massimi valori dell’etica civica, consacrata sull’altare di una religione laica che venerava in essa, con pari devozione, la nazione e la libertà; e neppure appartengono a un più recente retore d’occasione, inneggiante alla patria italiana nel cronologico evento del centocinquantesimo anniversario della fondazione dello Stato unitario.
Della “nostra patria”, della “storia della nostra patria” scrive oggi uno storico della letteratura italiana, Fabio Finotti, docente nella Pennsylvania University di Philadelphia, dove dirige il Centro di studi italiani, in un robusto libro – quasi seicento pagine – intitolato Italia. L’invenzione della patria. Dall’antica Roma al Medioevo, al Rinascimento, all’Illuminismo, al Risorgimento, al fascismo, alla Resistenza, fino agli anni della repubblica, Finotti ripercorre la storia del connubio fra le parole “patria” e “Italia”, attraverso una colta e brillante rapsodia di citazioni, tratte da poeti, scrittori, politici, intellettuali, insieme a esempi di raffigurazioni iconografiche, accompagnandole con osservazioni e riflessioni storiche, letterarie, filologiche, estetiche, per mostrare come siano stati vari, mutevoli e contrastanti, i significati generati da tale connubio nel corso dei secoli.
Le prime tracce dell’invenzione dell’Italia come patria risalgono all’epoca romana. Virgilio (70-19 a.C.) concepiva l’Italia come la patria comune delle genti che abitavano la penisola, mentre Plinio il Vecchio (23-79 d.C.) inneggiava all’Italia «terra che è insieme la figlia e la madre di tutte le altre, scelta dalla volontà degli Dei» per «divenire l’unica patria di tutte le nazioni del mondo». Sarà questa originaria “invenzione” dell’Italia come una patria universale a esercitare una potente influenza sulla “invenzione” dantesca dell’Italia come «la più nobile regione d’Europa», patria, per volere di Dio di una monarchia universale. In un’epoca in cui prevaleva nella penisola l’identificazione della patria con il comune nativo, la patria di Dante non era Firenze e neppure il «bel paese dove il sì suona», ma il mondo intero. Con Petrarca, e successivamente con Machiavelli, ebbe inizio, secondo Finotti, l’invenzione dell’Italia come «una patria ben distinta dalle altre nazioni», prefigurando e auspicando la creazione nella penisola di una unità statale simile a quelle instaurate dalla monarchia in Inghilterra e in Francia. Per tutti i secoli successivi, fino al Risorgimento, il connubio fra patria e Italia, attraverso continue invenzioni letterarie di immagini del passato, generò nuovi modi di concepire la patria italiana, sempre oscillanti fra una dimensione locale e una dimensione universale, ma restando sempre confinati entro la ristretta cerchia della cultura, che lasciava fuori l’innumerevole moltitudine della popolazione, ignorante e ignara d’appartenere a una patria comune.
Italia fu per secoli una patria per poeti, letterati, artisti. Solo con la Rivoluzione francese e durante il Risorgimento, assunse un significato politico nel pensiero e nell’azione dei patrioti, che tramutarono una immagine culturale e una realtà geografica in una individualità storica, la nazione, avviandola alla conquista di un proprio Stato indipendente e sovrano, fondato sulla libertà dei cittadini. Distaccandosi dall’immagine universalistica della patria di Dante e dell’Umanesimo, il Risorgimento celebrò nella letteratura, nelle arti, nella storiografia e nel pensiero politico il connubio fra patria e libertà, secondo il moderno concetto della nazione. All’invenzione di una patria immaginaria, con l’unificazione politica seguì dopo il 1861 la costruzione di una patria reale nella concreta entità di uno Stato liberale che, nonostante tutti i limiti e le contestazioni che l’afflissero, estese a tutte le popolazioni della penisola la condizione di una cittadinanza comune, premessa necessaria per consentire lo sviluppo di una dignità individuale e collettiva. Anche se nel nuovo Stato italiano il sentimento patriottico e la coscienza nazionale rimasero a lungo patrimonio ideale di una minoranza, è pur vero che questa minoranza divenne sempre più numerosa nel corso del tempo.
Nei successivi centocinquanta anni di unità politica, le vicende dell’Italia come patria, come Stato, come collettività di cittadini, hanno dimostrato che «la patria non è un dato di fatto che gli uomini si trovano pronto tra le mani, una volta per tutte, destinato a restare immutabile nel corso della storia. La realtà della patria sta proprio nella sua creazione incessante da parte della collettività che in essa si riconosce. Di quella collettività la patria è in un certo senso madre e figlia al tempo stesso». Così conclude Finotti il suo lungo viaggio fra le tante invenzioni della patria italiana. Nelle ultime pagine, iniziate da un’arguta polemica contro le prefazioni di tipo accademico «che si rivolgono a un lettore che sembra chiedere di essere portato per mano come un bambino», Finotti avverte che il titolo, L’invenzione della patria, «può generare equivoci», perché la parola “invenzione” può essere intesa sia in senso negativo, come menzogna per ingannare il prossimo, «facendogli credere quel che non è né sarà mai», sia come «creazione del nuovo, non del falso». Per evitare tale equivoco, nel descrivere il processo storico di formazione e trasformazione del connubio fra le parole “patria” e “Italia”, sarebbe forse più opportuno avvalersi del termine “costruzione” invece che “invenzione”. Per il fatto stesso di avere una storia, l’Italia come patria è stata una realtà continuamente costruita, piuttosto che continuamente inventata. E così come è stata costruita, potrebbe essere distrutta. Se mai ciò dovesse accadere, è prevedibile che sulle sue rovine, poeti, letterati, intellettuali e retori continueranno comunque a inventare nuovi modi di intendere la patria e l’Italia.
Fabio Finotti, L’invenzione della patria , Saggi Bompiani, Milano,
pagg. 572, € 28
Il libro “ITALIA: l’invenzione della patria” di Fabio Finotti propone il miyto di Enea come modello ideale per arrivare in un luogo e stabilire così una nuova patria Sono nato ed abito ad ARDEA, l’antichissima città del Lazio che nell’ENEIDE di VIRGILIO era la capitale dei Rutuli e la PATRIA del re TURNO, l’indigeno che nel libro è citato come il responsabile della guerra mossa contro i Troiani di Enea sbarcati nel Lazio come profughi. Si dimentica spesso, nell’immaginario collettivo, che Enea sbarcò due volte nel Lazio: la prima volta come profugo; la seconda volta come capo di un esercito su trenta navi per sterminare e massacrare, senza pietà, le popolazioni indigene (Rutuli, Laurenti, ecc). Questo spietato Enea che Virgilio ci descrive come un violento e sanguinario invasore che porta la guerra dove si viveva in pace è troppo spesso rimosso dalla coscienza della civiltà occidentale come dimostra anche il libro di Finotti. Enea non è un modello ideale da proporre per l’Italia come mito fondativo, soprattutto da un punto di vista educativo per le giovani generazioni: basta leggere l’ENEIDE alla luce di quello che ha scritto VIRGILIO dal primo all’ultimo verso del suo capolavoro.
Anche il giovane TURNO, ucciso spietatamente da Enea, aveva una patria e come ci ricorda VIRGILIO “INDIGNUM EST PATRIA TURNUM CONSISTERE TERRA?” (En, lib. X, 74-75).
Giosuè Auletta (presidente Ecomuseo Lazio Virgiliano)