Daniel Gros – 8 Giugno 2017 – Il Sole 24 Ore
A dispetto della narrazione di un continente in crisi, la ripresa è tangibile
Per anni l’Eurozona è stata percepita come un’area disastrosa, e spesso le discussioni sul futuro dell’unione monetaria hanno paventato un suo possibile crollo. Quando i britannici hanno votato per abbandonare l’Unione europea lo scorso anno, erano spinti in parte dalla percezione che l’Eurozona fosse un progetto disfunzionale – e forse insalvabile. Eppure, ultimamente l’Eurozona è diventata la beniamina dei mercati finanziari – e per una buona ragione: era da tempo che si cercava la sua forza latente. Negli ultimi anni essa ha tentato di riprendersi dalla crisi del 2011-2012. Su una base pro capite, la sua crescita economica ora supera quella degli Stati Uniti. Il tasso di disoccupazione è in calo – più lentamente che negli Usa, a essere onesti – ma ciò riflette in parte la divergenza dei trend di partecipazione della forza lavoro.
La partecipazione della forza lavoro è infatti in ascesa nell’Eurozona, mentre registra una contrazione negli Usa all’incirca dal 2000. L’abbandono degli americani del mercato del lavoro riflette quello che gli economisti chiamano il fenomeno del “lavoratore scoraggiato”. E il trend evidenzia un’accelerazione dalla recessione del 2009.
In linea di principio, la flessione della partecipazione della forza lavoro dovrebbe essere un problema anche nell’Eurozona, dato il prolungato periodo di tempo dell’elevatissimo livello di disoccupazione che ha colpito molti lavoratori europei. Ma, negli ultimi cinque anni, 2,5 milioni di persone nell’Eurozona sono entrate nella forza lavoro, a fronte della creazione di cinque milioni di posti di lavoro, così dimezzando il generale calo della disoccupazione.
Inoltre, la ripresa dell’Eurozona è stata sostenuta, per certi versi inaspettatamente, anche in assenza di continui stimoli fiscali. Le accese discussioni sull’austerità degli ultimi anni appaiono malriposte, dal momento che sia i critici che i fautori hanno sovrastimato la quantità di austerità applicata. Il deficit fiscale medio, in termini corretti per il ciclo, è piuttosto costante dal 2014, attestandosi all’incirca all’1% del Pil. Ovviamente restano le ampie differenze nella posizione fiscale dei singoli stati membri. Ma è ciò che ci si aspetta in un’unione monetaria così diversa. La verità è che persino la Francia, spesso considerata una performer debole, registra livelli di deficit e di debito comparabili a quelli degli Stati Uniti.
Il confronto con gli Usa, così come con il Giappone, indebolisce anche la comune percezione che le regole fiscali dell’Eurozona, compresi l’infausto Patto di stabilità e crescita e il “fiscal compact” del 2012, siano state irrilevanti. Vero, nessun Paese è stato ufficialmente sanzionato per i deficit o i debiti eccessivi. Ma il marginale clamore sulle infrazioni ha fatto passare in secondo piano l’ampio trend sottostante verso le solide finanze pubbliche favorito proprio dalle regole fiscali. Tutto ciò suggerisce che la “soft austerity” perseguita in molti Paesi dell’Eurozona sia stata forse la scelta giusta dopo tutto. Non bisogna certamente sovrastimare la forza economica a lungo termine dell’Eurozona. Il tasso medio di crescita potrebbe restare sopra il 2% per i prossimi anni, ma a fronte dell’assorbimento dei restanti disoccupati e del persistente trend a lungo termine dei lavoratori più anziani che rientreranno nel mercato del lavoro la manodopera non utilizzata alla fine si esaurirà.
Una volta che l’Eurozona avrà raggiunto il cosiddetto “punto di svolta di Lewis” – ossia quando l’eccedenza di manodopera scarseggia e i salari iniziano a crescere – i tassi di crescita scenderanno a un livello che rifletterà esattamente le dinamiche demografiche. E queste dinamiche non sono particolarmente auspicabili: la popolazione attiva dell’Eurozona è destinata a diminuire di circa mezzo punto percentuale l’anno almeno per il prossimo decennio.
Eppure, anche allora, il tasso di crescita pro capite dell’Eurozona non sarà con buona probabilità tanto inferiore rispetto a quello degli Usa, perché la differenza dei tassi di crescita della produttività è ora minore. In questo senso, il futuro dell’Eurozona potrebbe somigliare più al presente del Giappone, caratterizzato da una crescita tendenziale annua appena sopra l’1% e da un’inflazione tenacemente bassa, ma da una crescita del reddito pro capite simile a quello di Usa o Europa. Fortunatamente per l’Eurozona, entrerà in questo periodo di elevata occupazione e lenta crescita su una base solida – grazie, in parte a quella controversa austerity. Per contro, sia gli Usa che il Giappone dovranno far fronte a una piena occupazione con disavanzi fiscali superiori al 3% del Pil – circa 2-3 punti percentuali in più rispetto a quelli dell’Eurozona. Gli Stati Uniti e il Giappone registreranno anche debiti più pesanti: il rapporto debito/Pil si attesta al 107% negli Usa e a oltre il 200% in Giappone, rispetto al 90% dell’Eurozona.
È evidente che sulla scia di una crisi finanziaria, quando la politica monetaria diventa inefficace – ad esempio, perché i tassi di interesse nominali sono vicini allo zero – il deficit pubblico può avere un impatto stabilizzante insolitamente solido. Resta però irrisolta una questione chiave: una volta che i mercati finanziari rientrano nella norma, è sufficiente mantenere un deficit per un lungo periodo per garantire uno stimolo continuo?
Il fatto che la ripresa dell’Eurozona stia ora recuperando su quella degli Stati Uniti, malgrado la sua mancanza di qualsiasi stimolo continuo, suggerisce che la risposta sia no. Di fatto, l’esperienza dell’Eurozona ci dice che mentre lo stimolo fiscale concertato riesce a fare la differenza durante una recessione acuta, è preferibile abbandonare quello stimolo quando non è più vitale che mantenerlo all’infinito. Con l’austerità – ossia, riducendo il disavanzo una volta finita recessione – la ripresa potrebbe richiedere più tempo prima di consolidarsi; ma una volta raggiunto lo scopo, la performance economica sarà persino più stabile, perché i conti del governo si troveranno in una posizione sostenibile.
John Maynard Keynes una volta disse, «Nel lungo periodo, siamo tutti morti». Ciò potrebbe essere vero in un lasso di tempo piuttosto lungo. Ma non è una scusa per accantonare le considerazioni a lungo termine. Di fatto, per l’Eurozona, il lungo periodo sembra essere arrivato – e l’economia è ancora viva e vegeta.
Traduzione di Simona Polverino
Daniel Gros è direttore
del Center for European Policy Studies