1. Il valore delle parole
Viviamo un tempo in cui le parole hanno acquistato un appeal inedito, un “valore d’uso” che è diventato anche un misuratore della serietà-credibilità di chi le profferisce.
Il loro significato è sempre più associato ai volti ed alle coerenze comportamentali; le persone sono sempre più identificate con il linguaggio che le contraddistingue, tanto più quando esso ha a che fare con l’esercizio di un’attività e/o di una professione che richiedono il possesso di competenze tecniche e scientifiche.
Nell’attuale temperie di crisi ed incertezza, si è fatto più stringente l’esigenza che “le parole non siano staccate dalla pratica”, che insomma “le parole siano vissute” e testimoniate.
Contestualmente siamo immersi in un mondo di relazioni frenetiche e di comunicazione virale che rendono le parole e le affermazioni più fragili: e quando escono dalle bocche ed entrano nel sistema dei media “frullatori”, colorite dalla retorica, accentuate dal marketing, caricate dal bisogno di autoaffermazione, l’effetto è duplice: o – come la maionese – impazziscono, o si svuotano della loro intrinseca verità, del messaggio originario di cui (erano) sono portatrici. E ciò crea la diffusione di incomprensioni, asimmetrie dei codici espressivi, moltiplicazione delle interpretazioni su fatti e cose dapprima riconosciuti e valutati in modo uniforme.
Non è quindi sorprendente che l’indicatore fiducia, nelle indagini demoscopiche che si susseguono incessantemente – con riferimento a diverse questioni cruciali, dall’orientamento ai consumi al rapporto con le istituzioni, dalla propensione agli investimenti alla crescita economica ed allo sviluppo occupazionale – risulti orientato al segno negativo.
Una tale fenomenologia è ormai acclarata – perché abbondantemente analizzata e discussa – per quanto riguarda gli attori ed i protagonisti della scena pubblica, siano essi parte dello screditato ceto politico o appartenenti alla inefficiente-costosa burocrazia amministrativa: in questo ambito lo scarto tra progetti-promesse-slogan e realizzazioni concrete ha letteralmente bruciato il significato e le attese che molte parole, “promettenti” e dense di suggestione, avevano suscitato.
Meno chiari appaiono invece i rischi che stiamo correndo per l’abuso di parole nell’ambito della discussione e dell’attività divulgativa riguardanti i temi ed i dilemmi che la crisi sociale, economica e finanziaria del “sistema Paese” pone nell’agenda quotidiana dei media e della molteplicità dei soggetti (Imprese, Associazioni, Economisti e Ricercatori, Professionisti e Consulenti) impegnati a contrastarne gli effetti negativi ed a cercare credibili-praticabili vie d’uscita.
Il caso più eclatante e per molti versi rivelatore, su cui intendiamo soffermarci, è quello che si riferisce all’innovazione.
Senza dubbio essa costituisce il mainstream di questa (lunga) stagione di recessione, una sorta di mantra invocato e dibattuto come scelta strategica, strumento e pratica decisivi per ridare fiato e slancio al sistema economico-produttivo del nostra Paese, visibilmente impreparato-affaticato nel reggere le sfide di una competizione globale che si gioca su fattori (finanziari, tecnologico-organizzativi, internazionalizzazione, efficienza amministrativo-istituzionale) visibilmente deficitari, con numeri e performance che non solo collocano l’Italia in degradanti posti in classifica, ma – purtroppo – ne prefigurano (in assenza di provvedimenti efficaci) un declino inarrestabile, atteso che esso dura ormai da oltre un ventennio.
Esistono diagnosi abbastanza accurate sulle cause prossime di tale stato di crisi; numerose ricerche e convegni hanno focalizzato in modo inoppugnabile che il sistema produttivo italiano è caratterizzato da un deficit strutturale di efficienza e produttività, finora oscurato – per meglio dire mascherato – dalle straordinarie performance di un certo numero di Imprese e comparti del Made in Italy, in grado di raddrizzare, attraverso l’export, i conti della Bilancia commerciale, però insufficienti a ridare vento alle vele della crescita del PIL oltre la soglia di galleggiamento.
Da più parti (in primis Banca d’Italia) si indica quindi la necessità di superare tale gap puntando sui processi di innovazione che possono scaturire soprattutto dall’incremento delle relazioni collaborative tra Ricerca ed Imprese.
E’ a questo punto però che l’auspicato e fondamentale circolo virtuoso non riesce a decollare, essendo ostacolato da difficoltà ed incongruenze collegate sia con tradizionali resistenze e pigrizie di una parte del mondo accademico, sia con l’endemica incapacità delle PMI ad investire risorse significative su R & D; ma, a nostro avviso, ciò che rimane inesplorato e deve essere quindi svelato è l’imbroglio semantico che ruota attorno alla sfida – finora non affrontata nelle sue estreme conseguenze – dell’innovazione.
“Come si fa a favorire l’innovazione se il nostro linguaggio, e prima ancora il nostro pensiero, non sono innovativi”? Si condensa in questa affermazione di Enrico Letta, qualche tempo fa (quando non era Presidente del Consiglio), il nodo cruciale da risolvere.
Bisogna mettere in conto che il nostro è un Paese gravato da un pesante deficit di cultura scientifica , reso ancor più grave, nei suoi effetti sul sistema economico-produttivo, dal ritardo e dai limiti strutturali con cui l’Italia sta affrontando anche l’ultima innovazione dell’Information and Communication Technology, quella che ha determinato la rivoluzione digitale (vedi in proposito le vicissitudini dell’Agenda): tutto ciò rallenta i processi di trasferimento della conoscenza, accentuando il mismatching tra mondo della ricerca (non solo università) e delle professioni “high skilled” ed imprese (fenomeno che, come evidenziato dal recente Rapporto McKinsey “Education to Employement: Getting Europe’s Youth into Work” e la Ricerca UE “Trapped or flexible”, colpisce pesantemente i giovani scolarizzati) facendo emergere in tutta la sua evidenza la questione che i sociologi hanno identificato come “prossimità cognitivo-sociale”.
Tale diagnosi è confermata dai dati che fotografano un autentico paradosso:
a) mentre cala a livello mondiale la quota di mercato delle imprese esportatrici italiana, e cala la quota di brevetti delle imprese, al contrario aumenta la quota di pubblicazioni scientifiche rispetto sia al numero sia alle citazioni ricevute;
b) i laureati italiani vincono molti ERC – European Research Council (http://erc.europa.eu/) ma non li spendono in Italia; né ci vengono i laureati dei Paesi più ricchi!
Si delinea un contesto operativo che impone prioritariamente di ridare un significato autentico all’innovazione, mettendo in campo progetti ed azioni nei quali la correlazione con le parole adottate sia verificabile e valutabile immediatamente.
C’è bisogno di un “pensiero profondo ed umile” sorretto da una determinazione forte.
E’ l’ispirazione che deve caratterizzare la strategie e le iniziative di Open Innovation: affinchè la conoscenza e le competenze siano sostenute e promosse attraverso infrastrutture tecnologiche e modelli organizzativi in grado di accelerarne la circolazione:
– superando le barriere corporative, le autoreferenzialità, le furbizie ed i tatticismi indotti dal pensiero pigro;
– contaminando il tessuto delle PMI in particolare laddove lo spirito imprenditoriale continua a dare segni di vitalità e creatività che necessitano di essere coniugate con l’intelligenza collaborativa;
– adottando e praticando linguaggi e procedure che alimentino la contiguità, l’empatia e la prossimità cognitivo-sociale che consentono di condividere le sfide.
Nel territorio triveneto, le esperienze e le iniziative impegnate a concretizzare tale impostazione strategica ed operativa, si stanno moltiplicando, attraverso una migliore focalizzazione dei servizi al placement delle Università (come auspica Paolo Gubitta, Corriere del Veneto, 19 gennaio 2014), con progetti collaborativi sostenuti dalle Camere di Commercio, con l’impulso al lavoro di rete dato dalle Istituzioni (Innoveneto, Trentino Sviluppo), con eventi e sperimentazioni (Nordest Technology Transfert)….
Si tratta di una fenomenologia emergente incoraggiante perché orientata verso un’ecosistema della conoscenza che consenta di irrobustire il processo virtuoso di arricchimento e moltiplicazione di buone pratiche di innovazione.
Il progetto EMPLEKO si propone come piattaforma aperta, predisposta ad implementare, integrare e finalizzare maggiormente al matching, mettendola a disposizione delle Imprese per trovare soluzioni alle loro esigenze di R & S, attraverso un sistema collaborativo all’interno del quale le Imprese stesse e gli Esperti “intrecciano” i loro bisogni, le loro competenze e le loro risorse per raggiungere l’obiettivo comune di rilanciare la competitività del sistema produttivo italiano.
2. Il deficit di innovazione del sistema industriale
Nel precedente contributo (Mission 2014) abbiamo sostenuto che esistono diagnosi accurate sul deficit di innovazione del sistema industriale italiano, che focalizzano in particolare i limiti strutturali di efficienza e produttività. Generalmente i numeri e le tabelle che li rendono evidenti non trovano molta divulgazione e visibilità. Mi sembra pertanto opportuno segnalare quelli contenuti nel Paper della Banca d’Italia (n. 121, aprile 2012) “IL GAP INNOVATIVO DEL SISTEMA PRODUTTIVO ITALIANO: RADICI E POSSIBILI RIMEDI” – di M.Bugarelli, L.Cannari, F.Lotti, S.Magri). Il ritardo dell’Italia nell’attività innovativa rispetto ai principali paesi industriali viene strettamente correlato alla frammentazione del sistema produttivo in molte piccole imprese che hanno difficoltà a sostenere i costi elevati insiti nella ricerca e sviluppo e ad assumersene i rischi. E i nodi cruciali che tale panorama presenta sono numerosi, “intrecciati”, ma, potremmo sottolineare, ben enucleati e quindi affrontabili con una strategia e strumenti adeguati. In estrema sintesi: l’insufficienza delle risorse finanziarie pubbliche per R & D è aggravata dall’incertezza e precarietà delle misure previste per PMI (0,006 % del Pil contro il 0,11 della Germania); la flessibilità del lavoro – quando riguarda gli high skilled – deprime i processi di innovazione, così come la gestione centrata sulla “managerialità familiare” è un fattore di rallentamento delle scelte di riorganizzazione; il persistente individualismo si riflette nella scarsa propensione delle imprese alla cooperazione nell’utilizzo dei finanziamenti e partnership con università (e centri di ricerca) che, a dir il vero, nell’ultimo decennio, si sono attrezzate con l’avvio di ben 58 UTT (Uffici per il Trasferimento Tecnologico). Si tratta di una “risposta” importante, in molti casi generosa e competente, di cui non abbiamo però una ricognizione precisa ed aggiornata. Sappiamo che per favorire la collaborazione tra pubblico e privato, sono stati attivati una molteplicità di iniziative di programmazione e di interventi concreti, con ricadute territoriali scoordinate: distretti tecnologici, parchi scientifici e tecnologici, incubatori, poli di innovazione. Questi strumenti sono stati utilizzati sia dal MIUR sia dalle Regioni, dalle Università e Camere di Commercio: di essi non si un quadro sistematico di valutazione, ma ne sono state identificate le principali criticità. Nelle esperienze di collaborazione tra ricerca pubblica e impresa si sono manifestati limiti ed inefficienze nella governance: spesso confusa, dispersa tra molti soggetti, priva di una chiara individuazione delle responsabilità (soprattutto nel caso di molti distretti tecnologici); nella presenza talvolta troppo dominante delle università, a svantaggio della concreta possibilità di assicurare un adeguato ritorno economico alle imprese; nella sottostima dei tempi e dei costi necessari per rendere operativa la collaborazione; nella scarsa stabilità delle strutture in termini di personale con elevate competenze; nella mancanza di una chiara identificazione di obiettivi intermedi cui subordinare l’erogazione dei contributi pubblici. In questo contesto di debolezza sistemica, con un tessuto di PMI in affanno ed un’azione pubblica caratterizzata da asimmetrie organizzative, la strategia operativa dell’Open Innovation diventa una strada obbligata per accelerare i processi di aggiornamento tecnologico-organizzativo del sistema produttivo: ma è fondamentale saper riconoscere propedeuticamente i problemi culturali, di linguaggio e metodologici che ne hanno finora condizionato l’evoluzione. Il Progetto EMPLEKO intende misurarsi con le criticità persistenti e facilitarne la soluzione.
3. La morfologia produttiva ed organizzativa
Misurarsi con le criticità del sistema industriale italiano significa innanzitutto conoscerne la morfologia produttiva ed organizzativa; nel momento in cui il dibattito pubblico è focalizzato nella difficile ricerca di policies adeguate a favorire l’uscita del Paese dalla perdurante recessione, abbiamo l’opportunità di correlarle ad una mappa conoscitiva aggiornata e puntuale. Il 9° Censimento generale ISTAT dell’Industria e dei Servizi, presentato a Milano il 28.11.2013, mette a disposizione informazioni che fanno piena luce sulla realtà delle imprese italiane, con riferimento sia ad aspetti quantitativi sia a fenomeni riguardanti l’organizzazione, le strategie, i mercati, l’innovazione, l’internazionalizzazione. Una prima chiave di lettura dello stato dell’arte è data dall’indagine sull’accesso e l’uso delle ICTs , che mostra un quadro relativamente deludente (confermando le rilevazioni, più mirate e focalizzate sul piano territoriale, realizzate dall’Osservatorio della Confindustria Servizi Innovativi del Veneto. Una seconda chiave interpretativa, è quella relativa alla spesa media in ricerca e sviluppo per impresa industriale: 35.000 euro in Finlandia, 32.000 nel Regno Unito, 25.000 in Francia e (solo) 4.000 in Italia sono cifre per così dire autoesplicative! E’ però indispensabile associarle (per comprenderne la miseria) ai dati del censimento che fotografano, in primo luogo, con precisione, i mutamenti strutturali dell’apparato produttivo tra il 2001 e il 2011; il quadro che emerge mostra che il sistema delle imprese italiane ha mantenuto una connotazione fortemente incentrata sulla piccola dimensione aziendale: nel 2011 sono risultate attive circa 4,4 milioni di imprese, con 16,4 milioni di addetti, registrando – rispetto al 2001 – un aumento di 340mila imprese (+8,4%) e di circa 700mila addetti (+4,5%). Ma la conferma del “nanismo” non deve indurre a facili e scontate conclusioni: infatti, dalla superficiale uniformità statistica, il Censimento ha consentito di estrarre – attraverso l’analisi multivariata – una sintesi con l’ identificazione di cinque raggruppamenti di Imprese: a) il gruppo quantitativamente più rilevante (le imprese “conservatrici”) include quasi il 64% delle imprese (670mila unità, con un’occupazione di quasi 6 milioni di addetti); b) Il secondo gruppo (le imprese “dinamiche tascabili”) comprende poco meno del 20% delle imprese (circa205mila unità, con 2,6 milioni di addetti), con un profilo settoriale simile a quello medio e una dimensione di poco inferiore ai 13 addetti; c) Il terzo (le imprese “aperte”), conta 75mila unità, assorbe 1,7 milioni di addetti e registra una dimensione media di 22,9 addetti. Questo gruppo è caratterizzato settorialmente da una presenza piuttosto elevata d’imprese industriali (il 42,7%); d) Il quarto raggruppamento (le imprese “innovative”) conta 74mila imprese, che impiegano 1,5 milioni di addetti e mostrano una dimensione media di 19,8 addetti per impresa. Esse presentano un profilo settoriale abbastanza simile a quello medio e sono connotate soprattutto dalla dominanza di comportamenti innovativi; e) Infine, il quinto (le imprese “internazionalizzate spinte”) include solo il 2,6% delle imprese (27mila unità, che impiegano 1,1 milioni di addetti), per una dimensione media di 39,5 addetti. Complessivamente, quindi, emerge un quadro di profili d’impresa notevolmente eterogenei che comportano la necessità di adottare strategie ben mirate: esiste infatti, da un lato, un elevato potenziale di crescita e competitività alla portata di una molteplicità di imprese, anche di piccole dimensioni in molti settori ed aree territoriali ; dall’altro un’area di conservazione e comportamenti difensivi risulta molto estesa, che coinvolge anche ampi segmenti di imprese di medie e grandi dimensioni. Diventa quindi decisiva l’individuazione delle strutture produttive preparate al salto di qualità ed a cui guarda EMPLEKO.
4. Governance della ricerca
…..ma il “salto di qualità” è inscindibilmente correlato alla possibilità, per il sistema delle Aziende – soprattutto PMI – di comunicare, interagire, collaborare con i Centri e le Agenzie impegnate nella Ricerca: ed anche in questo ambito la situazione in Italia è per certi aspetti drammatica; lo evidenzia il fatto che più di metà dei ricercatori italiani che hanno vinto gli Starting Grants ERC (European Research Council) abbiano deciso di portarli all’estero. Se ne può dedurre che l’attrattività delle Istituzioni di ricerca del nostro Paese è davvero modesta. A fronte di questo segnale preoccupante aumentano gli interrogativi sull’effettiva praticabilità di programmi di ricerca con standard di riconoscibile validità ed efficacia a livello internazionale: le risorse pubbliche sono ritenute insufficienti, perché i tagli alla spesa pubblica indotti dalla spending rewiew negli ultimi anni hanno colpito la ricerca accademica senza l’adozione di criteri selettivi. In tutta questa vicenda l’aspetto più inquietante è che i nodi cruciali non vengono affrontati e nemmeno inseriti nell’agenda pubblica, almeno alla pari con altre questioni come il costo dell’energia e la dotazione infrastrutturale (in particolare tecnologica) che costituiscono il vero handicap che grava sul grado di competitività delle nostre Imprese. La Ricerca sembra assurdamente costituire un bene di lusso! La necessità di una discussione pubblica è indispensabile perché alcune domande riguardano gli utilizzatori della Ricerca (in primis le Aziende): 1) innanzitutto l’allocazione delle risorse: è giusto tenere in vita dipartimenti e centri di ricerca in cui più del 30% delle persone non fanno ricerca al di sopra di standard minimi? 2) come va utilizzati gli indicatori di valutazione della ricerca accademica per rafforzare gli istituti che hanno maggiori potenzialità e risulti più concreti; 3) è giusto concentrare gli investimenti su pochissime istituzioni di ricerca in grado di raggiungere una massa critica di scienziati di livello? 4) come vanno strutturare le reti collaborative tra istituzioni affinchè gli investimenti ed i risultati siano conndivisi; 5) qual è la strategia più efficace per consentire ai centri di ricerca italiani di crescere nella competizione mondiale, anche attraverso l’attrazione dei talenti. Contestualmente a questi interrogativi si pone la questione del modello di raccordo necessario tra ricerca, politica industriale e il tessuto e la tipologia delle aziende che abbiamo esaminato nel contributo (3) e che verosimilmente costituisce la realtà del prossimo futuro? Quale ricerca è maggiormente congeniale al nostro Paese? Dovremmo puntare quasi tutto sull’innovazione in aree collaudate – moda, turismo e alimentari – e indirizzare la “vera” ricerca in pochissimi settori, ben selezionati, giocando solo lì la nostra competizione col mondo globale della scienza? Di quale governance della ricerca abbiamo bisogno? Ogni Ministero per sé e “regole sparse” o serve una visione d’insieme e un’azione coerente nel tempo? Sono temi e dilemmi che sonno stati affrontati con una molteplicità di approcci, dati e contributi scientifici in un Convegno alla Bocconi su “La ricerca in Italia. Cosa distruggere, come ricostruire” ( Milano, 9 dicembre 2013). Certamente le risposte vanno cercate mettendo mano alla dotazione finanziaria, alla concentrazione ed all’efficientamento dell’uso delle risorse, all’applicazione di criteri rigorosamente meritocratici nella selezione dei ricercatori. Ma soprattutto deve entrare in campo un nuovo misuratore dell’intensità e qualità della comunicazione tra offerta (Ricerca) e domanda (Imprese). La Piattaforma collaborativa di Empleko affronta tale sfida e si propone come strumento decisivo per accelerare e concretizzare tale dialogo, introducendo il linguaggio, la metodologia e la pratica dell’open innovation, con modalità inedite nel nostro Paese.
5. La funzione di EMPLEKO
Tirando alcune prime conclusioni di tipo operativo dalle analisi e considerazioni sintetiche finora illustrate, constatiamo che: a) la maggior parte delle imprese italiane sollecitate a trasformare le conoscenze tecnico-scientifiche in tecnologie valide per affrontare il nuovo contesto competitivo, sono per lo più micro, piccole e medie imprese, poche quelle di grandi dimensioni; b) la maggior parte di esse opera in settori nei quali la tecnologia, per lo meno a livello di prodotto, ha finora costituito una componente non centrale della loro qualificazione e competitività, dipendenti prevalentemente dall’efficienza e dalla innovatività dei processi e dei sistemi di produzione e da fattori non tecnologici; c) ma l’aspetto sicuramente più rilevante è che molte delle micro-piccole imprese, soprattutto nei settori del Made in Italy, non sono oggi attrezzate, sia sul piano strategico che per quanto attiene la struttura organizzativa interna, per “assorbire” le conoscenze tecnico-scientifiche avanzate, prodotte sia dalla ricerca pubblica che dai centri ed agenzie specializzate privati, allo scopo di trasformarle in tecnologie applicative portatrici di innovazione e fattori di competitività. La sfida prioritaria odierna, per assicurare la competitività di medio-lungo termine del nostro sistema imprenditoriale nel contesto della globalizzazione richiede quindi lo sviluppo di innovazioni, sia di prodotto sia di processo produttivo e di modello di business, che siano rese possibili e praticabili attraverso la collaborazione tra i soggetti portatori di conoscenza ed expertise e le imprese, per le quali non è più possibile innovare in modo incrementale, capitalizzando sulla interazione con i clienti, ma debbono decidere di aumentare drasticamente la qualità del personale e attingere alle fonti esterne della ricerca. La piattaforma di EMPLEKO promuove il matching per rendere possibile l’iniezione nelle imprese, a cominciare dai distretti e dalle filiere produttive, dosi massicce di innovazione, aiutandole a ristrutturare i processi produttivi e logistici e, in alcuni casi, a riprogettare radicalmente i prodotti. Ciò attraverso funzionalità e servizi specializzati attivi sul territorio in grado di dialogare con gli imprenditori, di interpretarne i bisogni e di metterli in relazione con i produttori di conoscenze codificate, siano esse altre imprese, fornitori, consulenti o università. Sia nella sua configurazione che con le azioni di sostegno e promozione, EMPLEKO costituisce un ambiente innovativo che incoraggia i suoi «abitanti» ad esplorare «l’adiacente possibile», rendendo disponibile un campionario più ampio e versatile di parti di ricambio – siano esse fisiche-meccaniche o concettuali – e promuovendo modi nuovi di ricombinarle. Essa si propone anche come un’infrastruttura digitale per promuovere il rinnovamento del made in Italy: 1) attraverso la combinazione creativa tra valore d’uso e valore simbolico per ri-creare il successo dei prodotti italiani in una gamma vasta, oltre le tradizionali nicchie; 2) con la valorizzazione delle unicità storiche, culturali e territoriali resa praticabile dall’applicazione di conoscenza avanzate di management. EMPLEKO significa una scelta di investimento redditizio perché rende praticabile in modo più efficiente la esternalizzazione delle procedure ed i costi della ricerca «catturando» attraverso la rete l’intelligenza e la conoscenza diffuse e consentendo di rendere percorribili alle PMI i due diversi modelli di innovazione indispensabili per far uscire il Paese dalla crisi: – combinando tra loro i fattori di forza dell’industria tradizionale con la nuova economia del terziario avanzato; – integrando a valle le grandi capacità scientifiche espresse dai poli di eccellenza (Università, Parchi scientifici, Agenzie e Centri di Ricerca) per rigenerare l’iniziativa imprenditoriale e le attività industriali.
6. EMPLEKO: Open Innovation as a service
“Abbiamo migliorato i prodotti, cambiato i canali distributivi. Dobbiamo certamente migliorare sulla strutura dell’innovazione che è ancora troppo spontanea e non legata a centri di ricerca o alle università” (Alessandro Vardanega – Pres. Confindustria TV – Il Sole 24 ore 27.2. 2014). In questa dichiarazione, lucida ed onesta, è fotografata quella parte dei problemi solitamente messi in ombra nelle analisi e rivendicazioni delle associazioni imprenditoriali, focalizzate – legittimamente – sulla ultradecennale querelle per fisco, infrastrutture e credito. Per diverse ragioni, che abbiamo sottolineato nei precedenti interventi, i processi di innovazione nel tessuto delle PMI hanno avuto un andamento random; ben oltre le difficoltà strategiche rappresentate dal “dilemma dell’innovatore”, essi sono diventati progressivamente un esercizio di equilibrismo manageriale. Non ci deve sorprendere quindi che nel Rapporto sulla competitività dei settori produttivi 2014 dell’ISTAT venga evidenziato che per contrastare la recessione le aziende manifatturiere hanno principalmente fatto ricorso ad orientamenti strategici “interni” di difesa della propria competitività: la riduzione dei costi di produzione, il miglioramento qualitativo dei prodotti,l’ampliamento della gamma dei prodotti offerti e il contenimento dei prezzi e dei margini di profitto; mentre, tra le strategie “esterne” si è rilevato prevalentemente un rafforzamento elle strategie di commercializzazione in misura pressoché identica in Italia ed all’estero. D’altronde, come è stato osservato già qualche tempo fa (A. Granelli, Innovazione. Andare oltre la tecnologia – L’IMPRESA), “Innovare oggi richiede una lettura continua dei segnali del mercato e la capacità di mettere insieme – in maniera creativa , profittevole ed ecologicamente sostenibile – ingredienti sempre più diversificati (materiali, tecnologie, interface, estetica, servizi, sensazioni, ricordi…), costruendo esperienze “memorabili” ancorate ad uno specifico luogo – vero garante dell’unicità dell’esperienza”. L’aspetto paradossale della situazione, meno indagato e fatto emergere finora, è che il fattore conoscenza è enormemente cresciuto sia in termini di diffusione – attraverso le tecnologie abilitanti e le expertise – che di profondità – attraverso le ricerche di laboratorio e/o nei testi delle pubblicazioni scientifiche. L’indicazione che viene dal Progetto EMPLEKO è che questa risorsa strategica, che identifichiamo come “innovazione allo stato potenziale”, deve essere affidata ad esplicite e strutturate dinamiche di matching, che la Rete rende praticabili e profittevoli creando un mercato più trasparente ed efficiente. Usando un’espressione che potrà risultare sbrigativa, è tempo di passare “from the lab to the market”. L’innovazione quindi deve entrare in un’agenda pubblica nella quale vengono superati i diaframmi culturali ed organizzativi tra ricercatori, specialisti, aziende, istituzioni pubbliche e gli stessi consumatori (che in fin dei conti sono i veri detentori del diritto ad una maggiore trasparenza). Quest’ultima annotazione è anche alla base dell’esigenza avvertita di un linguaggio, per descrivere e orientare il carattere di “bene pubblico” dell’innovazione, che dismetta l’abito della specializzazione – sia essa economica o scientifica – e diventi più popolare nel senso di accessibile, comprensibile ed aperto alle contaminazioni multidisciplinari, che costituiscono leve decisive per la creatività e la scoperta, sintonizzato con il messaggio della National Innovation Initiative realizzata negli USA. E’ su tali convinzioni ed orientamenti strategici che si basa il modello operativo di EMPLEKO, una Piattaforma collaborativa che persegue quella che Chris Anderson ha definito “Crowd Accelerated Innovation” e che rappresenta per Ricercatori, Professionisti ed Imprese l’opportunità di immettere nel motore della nostra economia una formidabile energia.