Una nuova governance europea

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Sergio Fabbrini POLITICA E SOCIETA – 28 Febbraio 2016 – Il Sole 24 Ore

È bene che i rapporti tra Renzi e Juncker si siano normalizzati. Finalmente il confronto tra il governo italiano e la Commissione europea ha riacquisito un carattere rispettoso e costruttivo, riducendo il tasso di personalizzazione che lo stava paralizzando. Tuttavia, consiglierei di non confondere la diplomazia con la politica.

Il contrasto tra l’Italia e l’Eurozona è destinato infatti a persistere per ragioni strutturali. Naturalmente, molto può essere fatto nelle condizioni esistenti per ridimensionare quel contrasto. Soluzioni di continuità possono essere promosse per rendere l’Eurozona e l’Ue più reattive rispetto alle grandi sfide della crisi finanziaria e migratoria. E va meritoriamente in questa direzione il documento proposto pochi giorni fa dal governo italiano alle istituzioni europee. Queste ultime dispongono di già degli strumenti normativi e finanziari per rendere possibile o per sostenere politiche di rilancio economico anche nei paesi periferici, attraverso un’interpretazione più flessibile dei vincoli del Patto di stabilità e crescita. Flessibilità prevista nei testi in caso di condizioni avverse ovvero quando un governo nazionale introduce riforme strutturali che hanno costi nell’immediato ma generano benefici nel futuro. Come è il nostro caso. Allo stesso tempo, l’Italia deve fare di più per ridurre il suo debito pubblico e rendere più competitiva la sua economia. In proposito, il modello economico dell’Eurozona, basato su un mix di riforme strutturali e di politiche di riduzione/consolidamento fiscale, ha prodotto risultati importanti, come in Spagna e Irlanda. In Spagna, dopo il collasso finanziario del periodo 2011-2013, quel mix ha portato il paese ad un tasso di crescita, nel 2015, di quasi il 3,5 per cento. In Irlanda, dopo il tracollo finanziario del periodo 2012-2013, quello stesso mix ha favorito una crescita economica, nel terzo quadrimestre del 2015, addirittura del 7 per cento. Si capisce perché si additino questi due casi come la prova che il consolidamento fiscale costituisca la condizione per lo sviluppo. L’Italia può sicuramente imparare da quelle esperienze, ma non può seguire la loro strada.

Perché? A ben guardare, il modello economico dell’Eurozona appare molto meno di successo di quanto si ritenga a Bruxelles. La crescita economica media dell’Eurozona continua a essere molto debole (le previsioni più ottimiste per il 2016 prevedono un tasso medio dell’1,5%, la metà rispetto a quello previsto per gli Stati Uniti). Tale debolezza non riguarda solamente i paesi periferici, ma anche i paesi centrali dell’area, come la Germania. La disoccupazione non diminuisce in modo significativo. Ma soprattutto quel modello ha destabilizzato politicamente gli stati che lo hanno adottato. A due mesi dalle elezioni, la Spagna è ancora senza un governo. In Irlanda, le elezioni di venerdì scorso stanno rendendo difficile la formazione di una maggioranza coerente. In entrambi i paesi è probabile che ci saranno nuove elezioni a breve. Un esito inevitabile quando le politiche di consolidamento fiscale trascurano i vincoli del consenso elettorale. Non solo. In tutti i paesi dell’Eurozona c’è una crescita impetuosa dei partiti anti-austerità, mentre negli altri crescono partiti anti-europei e nazionalisti. La crisi migratoria, combinatasi con quella finanziaria, ha esteso ulteriormente l’incendio. Sembra difficile pensare che tali sfide e trasformazioni possano essere affrontate solamente con soluzioni di continuità.

Se l’Italia vuole crescere in modo stabile, all’interno dei vincoli della riduzione del debito pubblico e del mantenimento del consenso politico, allora non può limitarsi all’utilizzo prolungato delle clausole di flessibilità. È difficile promuovere politiche espansive a livello nazionale se non si cambia contestualmente la loro governance europea. Contrariamente a quello che scrivono i presidenti delle banche centrali di Germania e Francia, l’alternativa non è tra un modello intergovernativo ancora più centralistico e un modello nazionale ancora più decentralizzato. Il governo dell’Eurozona non può essere un ministro del Tesoro, scelto dai governi nazionali e verso di essi responsabile, privo di un proprio bilancio ma con il potere normativo di approvare o meno i bilanci degli Stati membri. Quest’idea centralistica, se realizzata, condurrà alla fine delle democrazie nazionali e alla trasformazione dell’Eurozona in una tecnocrazia dispotica. Né l’alternativa può essere il ritorno alle sovranità nazionali disciplinate dall’azione impietosa dei mercati. In poco tempo, l’euro come moneta comune cesserebbe di esistere. Al contrario di queste due alternative, l’Eurozona avrebbe bisogno di combinare un mix di politiche differenziate all’interno di un comune modello istituzionale. L’Eurozona ha sì bisogno di un potere esecutivo forte, ma dotato di una sua legittimazione. Un esecutivo separato dal potere legislativo, così che quest’ultimo possa controllarlo senza reticenze partitiche. Quei due poteri, attraverso controlli e bilanciamenti, debbono potere gestire un bilancio limitato ma autonomo, da utilizzare in funzione anti-ciclica per promuovere politiche di interesse comune. Insomma, la crescita dell’Eurozona, e dell’Italia al suo interno, richiederà politiche diverse a livello nazionale ma più democrazia comune a livello europeo. Ciò richiederà di combinare soluzioni in continuità con riforme in discontinuità. Se la riforma dell’Italia procederà insieme alla riforma dell’Eurozona, allora il contrasto tra le due genererà un esito positivo per entrambe.

 

 

 

 

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