1866 -2016: la memoria tradital

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Il sentimento più profondo del Veneto è forse l’autocompiacenza…..; da questa civiltà filtrata non partiranno mai movimenti rivoluzionari, ma proprio il suo spirito conservatore e la dolcezza del carattere può esporla alle epidemie
GUIDO PIOVENE, Viaggio in Italia, 1953
Balza subito agli occhi che l’identità veneta è ambigua e sfuggente; essa oscilla inquieta tra ansie di autosufficienza e di separatezza e volontà di proiettarsi all’esterno mescolandosi agli altri nel mondo; oscilla caparbia tra l’orgoglio di una tradizione secolare che resiste all’usura del tempo e l’ambizione di riconoscere le proprie tracce nella comune civiltà dell’Europa
CESARE DE MICHELIS, Identità veneta, 1999

L’insopportabile ambiguità leghista

Che il governo legaforzista del Veneto costituisca più una minaccia che un’opportunità, un soggetto politico che gioca sull’ambiguità di programmi vaghi e sui fraintendimenti, piuttosto che costituire un coerente e determinato player impegnato a rafforzare il peso e l’integrazione della nostra Regione nell’ambito nazionale, ha trovato una clamorosa conferma nei giorni in cui alcune il suo rappresentante più diretto (Roberto Ciambetti, Presidente del Consiglio Regionale) ed alcuni amministratori locali hanno celebrato il rito del lutto in memoria dell’ “infausta” annessione al Regno d’Italia sancita dal Plebiscito del 1866.
Con tale manifestazione di mestizia i nostri furbetti tardo-dorotei hanno dribblato l’incombenza politico-culturale (ed istituzionale) di dedicare all’evento l’attenzione e la riflessione che il 150° avrebbe meritato; un’occasione, oltretutto, che sarebbe stata utile per operare una ricognizione aggiornata dei temi e dilemmi storiografici, delle aspirazioni, illusioni e delusioni che hanno preceduto ed accompagnato il Risorgimento veneto ed il sofferto, contradditorio processo di unificazione delle Province venete all’Italia.
E’ interessante annotare come i partecipanti al “funerale” si siano espressi attraverso sentimenti che hanno confermato una propensione alla valutazione storica declinata secondo l’approccio vittimistico-piagnone e con una ingenua trasparente adesione ad un progetto di “liberazione” che in realtà corrisponde alla confessata nostalgia per l’antica servitù (si tratti dell’amata matrigna Serenissima – affidata agli Archivi della Storia – o dell’ammirato ed oppressivo vecchio Padrone Impero Austriaco).
A ben vedere, sul piano antropologico-culturale, si tratta di un antico riflesso alla subalternità, rivissuto nella contempraneità, con cui viene cancellato dalla memoria (e dalla coscienza politica), l’enorme bagaglio di valori spirituali, sacrifici, eroismi patriottici, programmi per l’emancipazione da ogni schiavitù (in primis dall’occupante e dalla fame) che i i Padri del Risorgimento veneto hanno lasciato in dotazione ad un popolo in gran parte “estraniato” ai processi storico-politici del suo tempo.
Per comprendere i nostri conterranei leghisti che si dichiarano antiitaliani può esserci di aiuto una lettura aggiornata dell’accorato lamento di Ippolito Nievo rivolto a
“Questo popolo rurale che s’attraversa con sì ostinata apatia agli intenti coraggiosi e liberali di quelli che dovrebbero essere i suoi maestri, egli è così vile ed abbrutito, da non comprendere l’alta utilità di quegli intenti, e da negare ad essi per sola pochezza d’anima la sua cooperazione”.
Nel suo saggio del 1859 invero, Rivoluzione politica e rivoluzione nazionale (pubblicato in Popoli d’Italia e coscienza nazionale, a cura di Giuseppe Gangemi) egli dimostrava di comprendere le ragioni della distanza che separava il “popolo illetterato delle campagne” dagli irrendentisti: “esso aborre da noi, popolo adddottrinato delle città italiane, perché la nostra storia di guerre fratricide, di servitù continua e di gare municipali gli vietò quell’assetto economico che risponde presso molte altre nazioni ai suoi più stretti bisogni. Esso diffida di noi perché ci vede solo vestiti coll’autorità del padrone, armati di diritti eccedenti, irragionevoli, spesso arbitrari e dannosi a noi stessi”…..
Ma è il caso di non essere troppo indulgenti nei confronti del loro vittimismo perchè, come ha ben sottolineato E. Galli Della Loggia nei giorni scorsi (Corriere della sera, 21 ottobre), ciò che li mobilità non sono sentimenti autentici, bensì la “sgangherata demagogia doppiogiochista” della Lega che fa la “veneta” indipendentista in Veneto, ma vorrebbe essere “nazionale” a sud del Po.
Non sono del tutto d’accordo con tale opinione, perché, conoscendone da più vicino (e non da uno, seppur ben fornito di volumi, studio romano) la matrice cultural-organizzativa, propendo a ritenere l’iniziativa leghista la conseguenza di un tatticismo che maschera una debolezza strutturale, la sindrome da periferia maltrattata, l’invidia nei confronti della leadership politica nazionale altrui attribuita al “favoreggiamento” dei poteri forti e non dovuta al consenso (veramente) popolare, disperata autodifesa nei confronti del “mondo nuovo che ti entra in casa” (non solo immigrati).
Condivido invece le parole sferzanti che l’editorialista usa (giustamente) nei confronti dl PD il quale “amaliato dalle fole del federalismo anti-italiano” risulta incapace di sottrarsi al ricatto leghista e di interpretare un ruolo culturalmente all’altezza in questa vicenda, penosa per il Veneto e per l’Italia.
Ma se era prevedibile l’atteggiamento del ceto politico regionale nel suo insieme, mediocremente amalgamato da tatticismo ed ignavia, il segnale più preoccupante, che evidenzia e conferma la marginalità del Veneto e la sua scomparsa dall’agenda politica nazionale è quello della totale assenza di iniziative da parte delle Istituzioni nazionali (Ministero dell’Istruzione, Presidenza del Consiglio, Presidenza della Repubblica) che avrebbero avuto il compito e la respopnabilità di celebrare un anniversario che, al di là di ogni legittima interpretazione revisionista, ricorda e rappresenta un passaggio storico fondamentale per l’intero Paese.
Come ricorda Della Loggia: “sarebbe bastato poco, sarebbe bastato un segnale: chessò riunire il Consiglio dei Ministri per una volta nella città della laguna”…..

Retorica nazionalista e/o lamento venetista

Eventi e/o cerimonie dedicate al Plebiscito del 1866 non avrebbero dovuto essere necessariamente infarcite di retorica nazionalista o di lamentosi proclami da venetisti, bensì occasioni per un bilancio dei nodi critici, per focalizzare i sogni, le difficoltà e le disillusioni che hanno caratterizzato la partecipazione dei veneti al Risorgimento ed in particolare alla Terza Guerra d’Indipendenza ed al processo di costruzione di una Nazione del tutto nuova.
Sicuramente avrebbe potuto essere ri-focalizzata la questione della rappresentazione degli interessi territoriali e della progettualità nazionale così come immaginati ed elaborati dalla leadersip veneta di un tempo nel quale il pensiero politico esprimeva già ideali e proposte per progettare e realizzare un impianto federalista del Paese e non per subire la deriva burocratico-centralista che si sarebbe affermata, trovando la sua fonte di legittimazione nello statuto massonico albertino dell’incolta e pallida Casa reale sabauda e la successiva “consacrazione” con la tracimazione della sua piena “statizzazione” con l’avvento del fascismo.
Che si dovesse (e si debba) discutere della qualità del Progetto Italia e della classe dirigente che se ne è fatta interprete e protagonista, non è un’esigenza da storici, bensì la questione-chiave al centro dell’agenda politica locale e nazionale contemporanea, se solo prestiamo attenzione alla cronaca che ci parla della tensione polemica per il confronto a distanza in atto tra il Ministro per gli Affari regionali e le Autonomie Enrico Costa ed il Presidente Luca Zaia, a proposito del negoziato che si dovrebbe aprire sulla “maggiore Autonomia”.
Se si escludono i “consulenti” ingaggiati dalla Regione Veneto per supportare con le loro competenze tecniche la trattativa con Roma (che verosimilmente ritengono di partecipare ad una nobile iniziativa), vi sono poche persone dotate di media intelligenza ed a conoscenza dello stato comatoso della struttura regionale (escludendo quelle che come l’on. Simonetta Rubinato – da ex Sindaco ed in perfetta buona fede – hanno una visione otimistica dell’Istituzione) che non vedano nel contrappunto polemico in corso, un gioco delle parti nel quale il rappresentante della Regione evidenzia una scarsa cognizione della reale posta in palio, ovvero delle procedure-strutture-risorse professionali e finanziarie necessarie per attivare un significativo trasferimento di competenze dal Centro romano ai Palazzi veneziani (Ferro-Fini e Balbi).

La grande truffa ai lettori

Non deve sorprendere quindi che, nel vuoto di consapevolezze e memoria storica, nel contesto di mediocrità ed opportunismo diffusi (non solo a livello istituzionale, ma anche associativo e culturale – se si esclude una meritoria pubblicazione della CISL Veneto), sia stata la ri-edizione e diffusione del volumetto di un noto venetista a creare un minimo di attenzione e dibattito pubblico attorno alla fatidica data del 21-22 ottobre 1866.
Ad essere precisi, la ri-edizione di 1866: la grande truffa di Ettore Beggiato sarebbe probabilmente passata inosservata ed avrebbe continuato ad essere solo il prezioso bignami per gli aspiranti indipendentisti e per quella comunità Amish nostrana che si immagina erede in purezza del mitico popolo veneto, se il noto G.A. Stella, nelle vesti di improbabile storico, non lo avesse “scomunicato”, denunciando il misfatto della sua diffusione nelle Biblioteche del Veneto da parte della Regione.
Ad essere sinceri, debbo ammettere che la stroncatura da parte del giornalista del Corriere non solo mi ha incuriosito a riprendere tra le mani la pubblicazione, ma mi ha reso l’autore ed il testo, più simpatici e degni di interesse.
Premesso che il lavoro storiografico contenuto nel libretto va in ogni caso apprezzato, anche per la documentazione raccolta che risulta coerente con la tesi puntigliosamente espressa, si tratta ad aviso dello scrivente di una pubblicazione che merita di essere diffuso non solo nelle biblioteche ma anche in tutte le Scuole venete e consigliato come lettura e materiale per un uso didattico finalizzati ad affrontare criticamente-contestualmente due questioni storiche tuttora imprigionate nella distorcente retorica di zelanti professori con profilo da funzionari più che da educatori e di politicanti-fattucchieri (per usare il perffido appellativo di Cesare De Michelis): da un lato la mitografia risorgimentale e dall’altro la insulsa storiella del popolo veneto sottoposta al dominio savoiardo.
Non mi propongo in questa occasione di sottoporre ad una critica ingenerosa il testo di Beggiato, anche perché si tratta di un sorta di pamphlet con un preciso messaggio politico ed a tal fine sono curvate, quando non deliberatamente ignorate, le evidenze documentali testimoniate da saggi, libri, riviste, che raccontano, in tutta la loro drammatica ricchezza di contrasti, un’altra storia rispetto a quella immaginata e descritta dalla “grande truffa”.
Certo, in molti dei passaggi del testo, è forte la sensazione che la vera truffa sia quella operata nei confronti degli ignari lettori ai quali vengono esposte versioni dei fatti ricostruiti con gli strumenti analitici e valutativi di un interprete che li commenta a 150 anni di distanza, usando un linguaggio e dei pre-giudizi come si trattasse di avvenimenti contemporanei.
Non c’è da parte dell’autore alcuna prudenza ed attenzione alla linguistica diacronica, ovvero alla valutazione dei fatti linguistici considerati secondo il loro divenire nel tempo, secondo una prospettiva dinamica ed evolutiva; succede così che si arriva a parlare del “diritto all’autodeterminazione dei popoli” garantito dagli imperatori (sic!), del fantasma del popolo veneto che si aggira per le Cancellerie d’Europa, di accorati appelli alla democrazia in contesti istituzionali che la negano in radice, ed inoltre si attribuisce ex post a sollevazioni e proteste popolari una una valenza rivendicativa che andrebbe contestualizzata al periodo storico e non pensata secondo i canoni interpretativi attuali.
Sul piano più propriamente documentale e storiografico, le ingenuità, le contraddizioni, le dimenticanze e cancellazioni, le vere e proprie omissioni sullo stesso Plebiscito (sicuramente inaffidabile nei risultati, ma espressione di un dato storico più importante del dato elettorale, ovvero del cambiamento delle fonti di legittimazione del potere che esso implicava) infarciscono un testo che come abbiamo già segnalato, ha prioritariamente lo scopo della denuncia più che dell’esaustività ed obiettività della ricerca storica.
Per chi, comunque, volesse operare una “controlettura” dell’analisi storica – parziale ed unilaterale – operata da Beggiato, suggerisco i cinque saggi l’ultimo numero di Venetica, uscito da qualche sttimana e dedicato a L’ALTRO ANNIVERSARIO 1866 – 2016. Orgogli e pregiudizi venetisti e anti-italiani.
Si tratta di lavori nei quali la metodologia, l’accuratezza e la profondità dello scavo consentono di “entrare” nel tempo indagato e comprendere la complessità degli avvenimenti e la pluralità degli attori che concorrono a renderne trasparenti i conflitti e le mediazioni, le poste e la molteplicità degli interessi in gioco: insomma una documentazione preziosa per coloro che cercano i fatti e non le rievocazioni immaginarie.
Nella presentazione del volume, Public history in salsa veneta, Piero Pasini con sobrietà ed uno sguardo disincantato afferma che “L’unione del Veneto allo stato unitario avvenne senza eroismi, con una cattiva condotta della Terza guerra d’indipendenza da parte dei comandi e fu definita principalmente su un piano diplomatico, ma è tuttora in grado di eccitare gli animi e stimolare una discussione che spesso trascende il piano storiografico per finire su quello politico”.
Aggiungerei che, per ritornare alla “trufffa”, il linguaggio usato dall’autore in alcuni passaggi della ricostruzione di episodi rilevanti, è caratterizzato da una grossolanità rivelatrice di un approccio e stato d’animo alterati, per non dire orientati dal pregiudizio razzistico: come si fa, per esempio sulla ultradecantata battaglia di Lissa, osannare la vittoria austriaca (ottenuta – si sostiene – per l’apporto decisivo degli equipaggi veneziani e chioggioti) sorvolando che – a ben vedere – si è trattò di un episodio nel quale il sangue versato era quello di marinai sardi, napoletani e siciliani (da cui anche la rivolta palermitana del “Sette e mezzo”) e non degli “odiati” italiani (popolo, potremmo dire, ancora in formazione).
Le annotazioni e le descrizioni partigiane (che in numerosi passaggi indugiano nella pesante ironia anti-italiana) non rappresentano, però, solo una caduta di stile, bensì tradiscono e talvolta esplicitano un pensiero ed un sentimento che si condensano in una retorica nazionalista da piccola patria veneta misconosciuta e tradita.
Dove portano il suolo ed il sangue veneti

La concezione ideologica dell’etnos venetista diventa la chiave interpretativa di una storia il cui travisamento e la cui distorsione sono perseguiti per difendere il proprio popolo, presupposto come ancoraggio solido di suolo e sangue veneti, senza se e senza ma!
Ci sarebbe da sorridere se tale approccio potesse essere confinato tra gli svarioni di un dilettante (storico) allo sbaraglio; purtroppo non è così, perché il nostro autore ne è tra i fondatori, appartiene e si identifica con un movimento politico che – seppur con le articolazioni lombardo-venete che ne hanno caratterizzato la trentennale vicenda – ha nella Lega la sua matrice organizzativa fondante.
E la Lega, nel suo Dna, come è stato con perspicacia osserrvato da un brillante storico del Risorgimento “è un movimento nazionalista contro la nazione italiana, perché identifica un soggetto che appartiene a un territorio specifico con il meccanismo del sangue e del suolo” (Alberto Maria Banti, Il Foglio 20 novembre 2010).
Ciò significa che, per quanto paradossale possa sembrare, le strutture elementari del suo discorso collimano con quella che è stata la retorica della costruzione dell’Italia, una nazione che, ancora Banti “per il Risorgimento non è un’astrazionne culturale, ma un legame biopolitico, cementato dal concetto di stirpe”, tanto che non deve sorprendere più di tanto che tale concezione abbia trovato una aberrante declinazione con le Leggi razziali le quali “in fondo, non sono che la gemmazione coerente del fatto che la nazione è sangue e suolo per i fascisti, così come lo era stata per i liberali”.
Insomma, pur mettendo tra parentesi il ventennio nero, dalla Liga veneta delle origini alla Lega di Salvini (che trova un ancoraggio ideologico europeo con la Le Pen), piccola o grande che sia, la patria è sempre cucinata con la stessa salsa ideologica nazionalista.
Non c’è da stupirsi quindi che nella vulgata leghista, si tratti delle parole beffarde del mite Beggiato (citando l’Ammiraglio Teghettoff) “Uomini di ferro su navi di legno hanno sconfitto gli uomini di legno su navi di ferro”, oppure (in riferimento all’iniziativa di Bettino Ricasoli – Primo Ministro del Regno d’Italia -, per l’introduzione del tricolore a Venezia due giorni prima del Plebiscito) “L’arroganza e cialtroneria del governo italiano si dimostra senza limiti” ed ancora (commentando una presa di posizione di Garibaldi critica nei confronti della corruzione dilagante nel nuovo Stato) “devo mio malgrado citare Giuseppe Garibaldi che con l’ingenuità di aver fatto tante battaglie senza sapere perché….”; oppure si debbano registrare le tonitruanti volgarità e rozzezze verbali del leader maximo Salvini nei confronti di zingari ed immigrati, si riscontri l’uso di una semantica che strizza l’occhio ai primordiali istinti razzisti (del “popolo veneto”, “lombardo” od “italiano” secondo le convenienze tattiche).
Succede così che dalle viscere del popolo invocato, si moltiplichino le grida, gli episodi, le iniziative, in cui la mobilitazione è rivolta contro il pericolo dell’invasione e la propaganda politica è focalizzata sull’evocazione di tutti i fantasmi minacciosi nei confronti dei confini…..
Queste rapide annotazioni dovrebbero rendere evidente che nel dibattito su Plebiscito e dintorni, va inanzitutto denunciata e depurata l’idea che siano il sangue ed il suolo da soli a trasmettere i valori fondanti della comunità, sia essa l’improbabile patria veneta o la giovane nazione italiana.
Un correttivo importante può sicuramente derivare dall’animata discussione referendaria sulla Riforma della Costituzione perché, al di là delle faziosità ed esasperazioni polemiche che la stanno caratterizzando, ha creato l’interesse e la convergenza sulle regole ed i valori fondativi della convivenza e della cittadinanza politica…
Il ruolo della classe dirigente…che non c’è!

Ma tornando alla querelle di casa veneta, bisogna interrogarsi sul perché il fatidico 1866 non ha determinato un sussulto di consapevolezza nella classe dirigente locale sulla necessità e sul significato assunti dall’esame critico – oggi – delle ragioni nobili ed anche delle controindicazioni di un rapporto fervido e generativo tra la Polity territoriale ed il Sistema istituzionale Paese.
La risposta breve e semplificatoria è che parlare di classe dirigente in Veneto è come invocare la pioggia in certe giornate torride d’estate.
Allora è più utile domandarsi quali possono essere le cause che hanno provocato la siccità odierna; a tal proposito ci aiuta un’affermazione che a vent’anni di distanza dall’intervista nella quale è apparsa risulta una sorta di appello inascoltato. Leggiamola:
“La sfida lanciata dal fenomeno secessione (ma non solo ovviamente), prima ancora che politica, appare di natura culturale, di criteri di comprensione della realtà che muta. ed è una sfida che richiede la rivisitazione delle progetualità culturali e organizzative degli attori collettivi, nonché delle modalità educative delle agenzie di socializzazione. Se non si vuole lasciare soprattutto le nuove generazioni sole di fronte ai profondi cambiamenti della società” (Intervista a Daniele Marini, IL GAZZETTINO, 30 ottobre 1997).
Alzi la mano chi nel tempo intercorso dall’intervista ritiene di aver dato un contributo determinante per evitare lo scollamento riscontrabile tra cittadini ed istituzioni e di avere intravvisto l’inizio dello smottamento etico-civile (ed economico-finanziario) che si è manifestato clamorosamente negli ultimi anni, in presenza di una classe dirigente quanto meno inadeguata!
Mentre andava in scena il dominio incontrastato de “Il Padrone del Nordest sono io”, con l’assalto alla diligenza delle risorse pubbliche e contemporaneamente un paio di autocrati venerati da un vasto pubblico saccheggiavano i forzieri del risparmio popolare, assistevamo al silenzio di un’opinione pubblica “addomesticata” da sociologi e giornalisti (seguiti a ruota dal ceto politico regionale) impegnati a srotolare pagine di giornali e pubblicazioni con sondagi e documentazione focalizzati su una tesi monocorde (e monotona): il Veneto ha un solo problema da affrontare per il suo futuro, il federalismo! (e questa rappresenta anche la soluzione per contrastare il bau bau secessione).
Abbiamo così assistito al formarsi di una bolla mediatica che ha mascherato un deficit mostruoso di conoscenza storica e dello stato reale delle attese, delle contraddizioni e delle reali strategie di cambiamento necessarie per il Sistema-Veneto nel suo insieme ed in rapporto alle sue peculiarità.
Di tale bolla sono stati protagonisti e vittime – purtroppo – anche i movimenti di opposizione che negli anni ’90 si erano candidati a diventare un’alternativa democratico-progressista di governo ed hanno fallito miseramente la loro scommessa; ed oggi – seguendo il canovaccio della rivisitazione storica qui proposto – diventa necessario rileggerne i programmi con le buone intenzioni, ma anche i velleitarismi presenti, per evitare ulteriori disillusioni.
E ciò al fine di evitare che di quegli anni non restino solo le macerie resocontate ex-post dai due libri intensi e sconvolgenti di Roberto Mazzaro…(I Padroni del Veneto, 2012 – Veneto anno zero, 2015).
Ci troviamo infatti a fare i conti con l’evaporazione di una soggettività politica all’altezza delle sfide (in primis quella di un maturo federalismo e governo delle città mutanti) perché essa – con il declino inarrestabile della funzione-Partito avviato a fine anni ’80 – non si si è potuta alimentare in Centri di riflessione ed orientamento operanti nel territorio regionale (Centri Studi, Agenzie di Formazione dedicata, Fondazioni di ricerca e culturali…); è stata pertanto assoggettata ad una subalterna e periferica interpretazione del “mestiere” e della “linea” affidatale dai Partiti nazionali.
Su di essa poi, sono gravate anche lorientamento e le suggestioni fuorvianti di alcuni opinion leader che hanno vagheggiato una vivacità, un ruolo ed una responsabilità non corrispondente ad un esame realistico dello stato dell’arte:
– pensiamo al generoso ed intelligente “facchino del nordest”, ovvero Giorgio Lago, l’ex brillante giornalista sportivo che, assunta la Direzione (in momenti diversi) dei due più importanti Quotidiani locali, tifo’ per e sostenne con vigore i sindaci dl Nordest nelle loro rivendicazioni nei confronti di Roma contribuendo ad illuderli di essere una grande squadra, senza però (non era d’altronde il suo compito) aiutarli focalizzare i contenuti programmatici di una vera ed autentica stagione di sussidiarietà responsabilizzante (altra cosa dall’invocazione di un federalismo ritenuto una sorta di palingenesi).
– Che dire poi del sondaggiologo dell’autonomia e della vagheggiata “indipendenza” (clamorosa quella ottenuta attraverso il web e “validata” demoscopicamente e giornalisticamente (RAI news: POLITICA 2014/03/22 07:50 Il voto promosso dai venetisti di Plebiscito.eu Referendum indipendenza Veneto: 2 milioni di sì La consultazione online per ottenere l’indipendenza del Veneto dall’Italia ha ottenuto molti consensi, ma non ha valore istituzionale. Il promotore Busato però dal palco di piazza dei Signori ha proclamato “la nascita della Repubblica veneta”). Parliamo ovviamente di Ilvo Diamanti, il sociologo che – per assenza di strumenti di conoscenza sul piano storico ed antropologico-culturale – ha contribuito a creare nell’opinione pubblica veneta (e nazionale) un’interpretazione distorta della (legittima) protesta antifiscale ed antiburocratica dei veneti (ovvero non per la secessione dallo Stato, ma per il suo efficientamento) scambiandola come richiesta di un federalismo avanzato, assunta (e non lo poteva essere) come introiezione di una consapevolezza già acquisita dei termini nuovi del rapporto tra Terrritorio ed il Governo centrale. Oltetutto, le analisi e le ricerche succedutesi nel corso degli ultimi lustri hanno operato un grave misconoscimento della reale portata di alcune proteste, ovvero dei latenti umori razzisti e sentimenti etnocentrici che erano incubati dal linguaggio e dalle pratiche amministrative della politica leghista affermatasi progressivamente in Veneto nell’ultimo ventennio e di cui abbiano indicato più sopra la matrice
– Nella galleria dei maitre a penser di casa nostra non può mancare la presenza fissa (attraverso i talk show del “filosofo incazzato” Massimo Cacciari, la cui generosa ed autentica passione civile (che lo ha portato a sfidare Galan per la Presidenza del Veneto nel 2010) non deve oscurare anche le opacità e contradditorietà di un’esperienza amministrativa realizzata ripetutamente da Sindaco in un contesto territoriale come quello veneziano che ha costituito un’autentica palude di inefficienze, corporativismi ed arretratezze di quella che potremmo chiamare la “capitale infetta” del Veneto:
a) con la vicenda eclatante del MOSE che una velleitaria posizione contraria dello stesso Cacciari si è trasformata in un alibi per non esercitare una rigorosa posizione di controllo sulla funzione e le attività del CONSORZIO VENEZIA NUOVA incaricato della sua costruzione e diventato l’epicentro di una mostruosa rete di corruzione e di sprechi;
b) con la catena di mazzette ruotante attorno al “tesoriere rosso” del PD veneziano Giampietro Marchese (coadiuvato da “ignari” postini tuttora in esercizio politico), che è arrivata a colpire il Sindaco Orsoni con l’arresto (ovviamente anche lui all’oscuro dei traffici illeciti usati per sostenere la sua campagna elettorale);
c) per finire con il collasso finanziario di Comune & Partecipate (si è calcolato in circa 1 miliardo l’ammontare complessivo del deficit).

Cultura e identità del Veneto

Ebbene, all’interno di questo quadro succintamente tratteggiato che induce allo sconforto, parallelamente alla polemica sul Plebiscito, ha fatto capolino la discussione sulla cultura e sull’identità del Veneto; si tratta di verificare se esistano e come esse possano diventare risorse preziose su cui far leva per rimettere in moto il processo di formazione e rigenerazione di una classe dirigente in grado di fronteggiare e governare le sfide di una contemporaneità gravida di radicali mutamenti in corso.
Naturalmente nell’indagare quali sono gli elementi costitutivi del patrimonio storico-culturale è opportuno tener presente il suggerimento metodologico del prof. Umberto Curi (L’identità non è reclinata verso il passato – Corriere del Veneto, 29 ottobre 2016), preoccupato che il ragionamento su cultura e identità non porti alla scoperta della funzione cruciale del “Palio dei mussi”….
Senza ri-aprire il varco alla polemica, ricorrente in Veneto, su “cultura alta, cultura popolare, cultura di massa” (rinviando per questo al manuale di Loredana Sciolla – Sociologia dei processi culturali), ci limitiamo a richiamare una frase di due grandi filosofi della Scuola di Francoforte, M. Horkheimer e Th. W. Adorno, che raffigura la capacità “Non di conservare il passato, ma di realizzarne le sue speranze” (Dialettica dell’illuminismo).
Si tratta di un “lavoro” obbligato perchè i limiti strutturali che caratterizzano i Gruppi dirigenti del Veneto (documentati dalla recentissima indagine condotta da Gianni Ricamboni e Selena Grimaldi, di cui parla Francesco Jori su Il Mattino di Padova del 6 novembre 2016, IL CONSIGLIO REGIONALE. “Ceto dirigente a corto di leader e di donne” ) pur essendo esplosi e stati evidenziati dalle clamorose vicende giudiziarie e non di MOSE e Banche Popolari, “non sono riusciti (finora, ndr) a innescare una riflessione critica sulle procedure di selezione e di (una loro)valutazione. Assuefatta all’idea che il Nordest sia sempre migliore di quanto raccontato dai media (ancora la “bolla” ndr) l’opinione pubblica non ha saputo reclamare spiegazioni all’altezza della gravità di fatti. Poca analisi, poca elaborazione” (NORDEST 2016, Stefano Micelli, Un anno di svolta).
Ritengo che esso costituisca non tanto un tema di riflessione accademica riservata a storici ed intellettuali, bensì un “dossier” centrale dell’agenda politica regionale.
Certo è anche l’occasione per scuotere la polvere che giace sui libri e documenti di un’enorme biblioteca dimenticata che rappresenta un patrimonio di valori e conoscenze custoditi in analisi, saggi & trattati scientifici, letteratura & poesia, accumulatosi dal Risorgimento fino agli anni ’60.
L’affermarsi – negli anni ’80 – di un ceto politico egemone e “smemorato”, orientato strategicamente ad accompagnare la crescita economica senza interrogarsi criticamente sulle sue basi e su limiti e contraddizioni di uno sviluppo sregolato, ha indotto a ritenere la storia (recente e/o passata) materia inerte da riservare all’attività didattica e non – come sarebbe stato più logico – fondamentale risorsa cognitiva per arricchire la preparazione e la riflessività della leadership impegnata nella focalizzazione delle scelte riguardanti il futuro e la progettualità più innovativa ed efficace per affrontarlo.
Recuperare la memoria storica e rifletterci sopra, ci avrebbe consentito, per dirla in modo provocatorio, di “salire sulle spalle di molti nostri Padri veneti giganti” e non affidarci ai nanetti e cortigiani del Potere locale che nell’ultimo trentennio ci hanno assillato (ed annoiato) con letture e lezioni che descrivevano la fenomenologia di una società ed economia in ebollizione senza scandagliare la profondità delle cause strutturali e dei valori fondanti che determinavano il sommovimento della terra veneta e le possibili fratture di faglia.
Naturalmente è successo che a fronte di analisi superficiali è cresciuta e si è insediata una generazione di leader superficiali, ovvero un ceto maggioritario di esercitanti la funzione di classe dirigente tardo-dorotea, impegnata ad aggiudicarsi i residui di potere e di spesa pubblica che la progressiva crisi economica e di fiducia dei cittadini nei confronti delle Istituzioni affidava alla periferia.

Ripensamento e rigenerazionenievo-italiano

Cosicchè ora risulta più evidente ed urgente avviare un ripensamento complessivo, sia per rigenerare una nuova classe dirigente sia, contestualmente, ripensare un orizzonte valoriale e programmatico incardinati su alcuni ancoraggi storico-culturali più robusti.
Ho già avuto modo di illustrare un punto di vista ed alcune indicazioni programmatiche sul #Venetochevogliamo e pertanto rinvio ai link per l’articolo e la scheda elaborati in occasione delle elzioni regionali del 2015:

Una nuova narrazione per il #Venetochevogliamo


In questo documento presento degli “esercizi di rilettura” che hanno per oggetto alcune questioni dirimenti per la riqualificazione della Governance del Veneto; vanno considerati come appunti guida per una riflessione che esamina il passato non per farsene soggiogare, bensì per trarne elementi utili alla ri-progettazione del futuro.

1. Riprogettando il Regionalismo Federalista che non sia estraneo od autoreferenziale rispetto alla ristrutturazione dello Stato centralistico, per la quale bisogna investire le migliori energie trovando ispirazione nel pensiero e nelle opere di Daniele Manin, Pietro Paleocapa, Silvio Trentin, perché la scommessa vera non è il piatto di lenticchie di una maggiore Autonomia che lascia intatto un impianto burocratico-amministrativo parassitario ed inefficiente, portatore di corruzione e sprechi alimentati da processi legislativi e procedurali lenti e farrraginosi. Un nuovo respiro a tale impostazione può derivare dalla sostituzione della subcultura leghista-protestaria rivendicativa e sterile, con un’autentica cultura della sussidiarietà che si deve tradurre in programmi dettagliati e praticabili concertazioni con sistematicità con le Autorità di Governo ed a tal fine bisogna istituire tre nuovi Assessorati:

a) Il primo dedicato all’Italia che vogliamo, ovvero alla elaborazione e promozione di tutte le iniziative che debbono incidere sulla struttura statuale (Ministeri, Enti Pubblici, Spesa pubblica, Agenzie, Legislazione) al fine di reingegnerizzarne la funzionalità nel senso dell’efficienza, flessibilità, accessibilità ai cittadini. Naturalmente tale attività si dovrà collegare alle funzioni di rappresentanza nell’ambito del nuovo Senato.

b) Il secondo finalizzato alla rafforzare una Governance regionale, attraverso una Legge elettorale che incentivi e valorizzi una sintesi politica e un policy making coerenti con una visione non localistica delle questioni riguardanti l’intero territorio veneto, attualmente caratterizzato da una frammentazione della rappresentanza per collegi provinciali che hanno favorito scelte programmatorie clientelarie e contraddditorie (in primis nella Sanità). E’ giusto sottolineare che la recentissima Legge regionale 19/2016 per istituire l’Azienda Zero e ridurre le Usl da 21 a 9, «pietra angolare di tutta la legislatura » secondo la definizione del Presidente Zaia, costituisce un passo in avanti nella direzione qui auspicata.

c) Il terzo impegnato a realizzare un nuovo processo di partecipazione dei cittadini attraverso la definizione di precise metodologie di coinvolgimento e l’adozione delle procedure per una piena cittaddinanza digitale orientata sia alla consultazione che all’accessibilità ai dati ed ai servizi

2. Ripensando il Federalismo antropologico che ha costituito l’autentico motore per un Veneto che penalizzato dalla scelta centralistica operata dal Regno Sabaudo ha dovuto attraversare un lungo “deserto” caratterizzato dalla miseria e dall’emigrazione, affrontare le immani tragedie di due guerre mondiali e del fascismo, ma ha saputo credere ed investire sull’autosviluppo. Tale opzione non è stata casuale bensì è maturata con la consapevolezza di una borghesia industriale in grado di usufruire delle barriere doganali all’entrata e con l’attivazione (anche con l’impegno diretto della Chiesa locale) della gestione cooperativa del credito a sostegno delle piccole Imprese. Quando è arrivato il secondo dopoguerra, i germogli di attività ed i Distretti inndustriali già presenti nel territorio (nel nuovo contesto di un mercato nazionale ed europeo più dinamici) sono diventati una piattaforma in gtado di generare e consolidare un sistema sociale ed economico non solo con standard di sviluppo tra i più elevati in Europa, ma anche ad “incorporare” caratteristiche di flessibilità e potenzialità di performance notevoli. Ebbene, tutto ciò è stato reso possibili per la presenza e l’incidenza dei principi ispiratori del Capitalismo personale, vero baricentro di tutti gli step della crescita, da fine 800 ai giorni nostri. Il Veneto ha potuto giovarsi della presenza in alcune aree territoriali e ceti sociali di un Dna generatore di un’imprenditorialità tenace e creativa che oggi è sollecitata a nuove sfide attraverso l’immersione nelle e la gestione delle opportunità derivanti dalla una rivoluzione digitale. Essa può consentire al peculiare sistema veneto di realizzare la quarta accelerazione economica della sua storia, attraverso l’innovazione tecnologica e la diffusione dei modelli di Rete d’Impresa e dei processi gestionali di filiera condivisi. E tale nuovo salto di qualità potrà e dovrà essere sostenuto ed alimentato da una innovativa strategia formativa strutturata con una partnership più intensa e collaborativa tra mondo delle Imprese e Scuola-Università, ottimizzando e moltiplicando l’esperienza che potrà essere realizzata con il Competence Center recentemente definito nell’ambito del Progetto Manifattura 4.0. Ma anche in questo nuovo passaggio epocale il focus dovrà rimanere centrato sull’esigenza di implementare la vitalità imprenditoriale, ovvero la cultura del rischio, dell’iniziativa e della responsabilità personale il cui tasso di incremento da qualche tempo segnala cedimenti (e questo è il vero timore che deve coltivare chi aspira e si candida a governare la nostra Regione)

3. Avviando la Reingegnerizzazione del sistema amministrativo locale: la subcultura politica dominante nell’ultimo ventennio (con la Governance regionale a trazione forza-leghista e lega-forzista) si è dimostrata del tutto inadeguata ad affrontare la sfida della modernizzazione di un Municipalismo, virtuoso nella gestione di budget progressivamente ridimensionati dai ridotti trasferimenti romani, ma del tutto impotente ad interpretare la domanda di aggregazione, semplificazione, efficientamento dei Servizi ai cittadini che necessita prioritariamente di una nuova cultura politica in grado di: a) far emergere leader preparati a gestire la complessità; b) accettare la sfida dell’adozione di criteri di gestioni manageriali con i quali affrontare anche il controllo dei processi di liberalizzazione di alcuni servizi ed in particolare la razionalizzazione delle Utilities e dell Partecipate. Ma, senza la spinta ideale ed etico-civile di una leva di amministratori che sappia sfidarsi e sfidare le comunità locali a ripensare la dimensione Istituzionale che sovrintenda il governo decentrato del territorio, è impensabile di uscire dall’entropia, il disordine e la frustrazione dominanti nella magior parte dei piccoli Comuni del Veneto rattrapiti e prigionieri della retorica leghista interessata ad alimentare la protesta piagnona e non risvegliare le energie sommerse che una nuova stagione di cittadinanza attiva e di sussidiarietà ispirata alle esperienze di tempi molto più difficili di quello presente, posso attivare. Anche in questo caso, attingere alle testimonianze e documentazioni di pratiche virtuose nella microstoria locale diventa una risorsa in più, da coniuigare naturalmente con la creatività e le scelte innovative che possono essere operate da una nuova generazione di Amministratori.

4. Ridisegnando la mappa della infrastrutturazione e focalizzando i nodi cruciali che stanno rallentando/impedendo la traduzione dei bisogni in scelte operative; non è questa l’occasione per sviluppare un ragionamento complessivo, ma ritengo utili alcune annotazioni. A) E’ di fondamentale importanza un bilancio etico-politico-finanziario-strategico dell’impatto che ha avuto il Project Financing in Veneto ed affidare ad un Think tank di specialisti-ingegneri-rappresentanti politici il compito di documentare e valutare le pratiche e le opportunità presenti nell’ambito europeo per poter riprendere un uso oculato della finanza di progetto, in ogni caso da adottare in situazioni specifiche e con procedure di trasparenza e coinvolgimento degli stakeholder e delle comunità interessate; B) le priorità degli investimenti e delle Opere pubbliche debbono essere raccordate alla Pianificazione strategica adottata dalla Regione e non rispondere agli input lobbistici di settori economici e territori direttamente interessati; C) tutto deve essere contestualizzato al processo di internazionalizzazione dell’economia veneta, con particolare riferimento sia alle traietttorie dell’export che ai flussi turistici in entrata; D) la leadership politica regionale deve dotarsi di unna visione coplessiva ed integrata delle domande e delle esigenze esprese dai territori; ciò rappresenta un passaggio fondamentale se si vuole far assumere alla Regione un ruolo trainante e dirimente nello scacchiere nazionnale ed europeo di scelte strategiche di enorme rilievo non solo finanziario: dal Quadrante veronese all’Interporto di Padova, dal Porto Offshore di Venezia al Traforo del Brennero, dalla riqualificazione della Valsugana alla Pedemontana ed alcompletamento della Valdastico. Anche per questo capitolo essenziale per un Regionalismo maturo, esperienza e documentazione storica (con casi di successo, errori clamorosi, incompiute e scandali) e visione aggiornata delle scelte necessarie, costituiscono un mix di conoscenza-competenza indispensabili alla leadership politica.

5. Ristrutturazione del Sistema Credito: la dolorosa attraversata della crisi in corso non dovrà provocare solo “lacrime e sangue” per i risparmiatori e lavoratori dipendenti, bensì diventare un’occasione decisiva per salvaguardare un asset che ha rappresentato la leva decisiva per l’uscita del Veneto dal sottosviluppo nel corso degli ultimi 150 anni della sua storia. Soprattutto in questo ambito la presenza di autentici giganti del passato come Leone Wollemborg e Luigi Luzzati, di brillanti esponenti del mondo bancario venuti a mancare nell’ultimo decennio (Silvano Pontello, Angelo Ferro, Gianni Marchiorello) e di una esteso ancor vitale reticolo di Istituti di Credito, ci consegnano una realtà che, seppur stuprata in almeno un paio di nodi fondamentali da gestioni autocratiche avallate da ampie consorterie e clientele sottrattesi ai vincoli etici e prudenziali di buona gestione, rappresenta tuttora un patrimonio indispensabile per supportare la quarta rivoluzione industriale e le scelte strategiche di sviluppo territoriale. Ecco perché anche in questo caso una Regione che voglia uscire dalla stagione infausta in cui ha fatto sostanziamente da “palo” e megafono delle istanze localistiche che hanno dimostrato la loro inconsistenza truffaldina, deve ripensare criticamente la dislocazione, il dimensionamento, la mission e le alleanze che devono caratterizzare il processo di riorganizzazione e risanamento avviato. Anche tenendo in buon conto gli esempi positivi, pragmatici ed efficaci, a cui hanno recentemente dato vita le due Banche Popolari lombardo-venete (guarda caso) di Verona e Milano….

6. Veneticità come brand: in uno splendido volumetto dei Giovani Imprenditori di UNINDUSTRIA Treviso (VENETO AL CENTRO. Identità e valori come brand territoriale) si opera una ripulitura semantica del linguaggio venestista recuperando una concezione sobria e funzionale della rappresentazione di una Regione con un’indubbia storia millenaria, ma con la necessità di essere riconosciuta ed interpretata come un territorio virtuoso oggi, nella contemporaneità di un mondo sempre più attraversato dalle dinamiche della globalizzazione. E partendo da una definizione di A. Gambino “Parlando di identità, ci si riferisce a quel dato conscio (anche se non necessariamente elaborato in modo consapevole in tutti i suoi aspetti), intorno al quale ogni soggetto organizzala propria intera esistenza” (Inventario italiano, 1998), elabora la proposta di assumere la veneticità, attribuendele il compito di dare identità valoriale al capitalismo personale, sottolineando che i suoi caratteri distintivi non sono il portato di una storia millenaria, di una terra, (che, aggiungiamo noi, va indagato con gli strumenti analitici dell’antropologia culturale e non con l’approccio fumettistico della storia fantasy tanto cara ai “nativi” venetisti) ma si impersonano proprio nelle identità comportamentali (lavoro, spirito imprenditoriale e sacrificio) e nella mentalità del capitalismo personale (la voglia di fare). C’è insomma un problema di comunicazione della realtà socio-culturale di una comunità territoriale con i tratti distintivi di un’umanità operosa, solidale, impegnata nell’innnovazione ed aperta all’inclusione, che, pur con non poche contraddizioni e limiti (compresi quelli derivanti dalle “strozzature” di un processo di unificazionne nazionale centralistico, ha saputo dimostrare di costituire una realtà forte, persistente e resiliente. Ed a tal proposito si può citare Enzo Rullani quando sostiene che ”L’esperienza dello sviluppo passato, che è avvenuto nonostante la presenza di questi limiti (…), li ha fatti diventare parte del paesaggio antropologico locale” (Dopo la grande crescita, 2000)
Naturalmente l’adozione della veneticità corrisponde ad una intelligente ed aggiornata strategia di marketing territoriale e vuole rappresentare un ulteriore segno di vitalità imprenditoriale che non si fa imprigionare dalle vetuste anticaglie interpretative del venetismo, ma anche – aggiungo io – del veteromarxismo in salsa veneta che nel corso del trentennio di fine secolo scorso si è ostinatamente impegnato nella caricatura di un modello veneto reiteratamente pensato come prossimo al crollo per limiti intrinseci.

7. Oltre la Carta di Asiago. In riferimento al “discorso” che sin qui abbiamo condotto, è utile e giusto ricordare che “qualcosa di buono” si può rintracciare nelle legislazioni recenti della Regione Veneto e l’esempio dei colloqui con i “Saggi” che sono confluiti nella Carta di Asiago, finalizzati a promuovere una riflessione a voce alta sulla nuova stagione della pianificazione urbanistica e territoriale hanno offerto nel 2006 un esempio – parziale e settoriale – di come la elaborazione di scelte legislative innovative ed impegnative per le questioni rilevanti che esse affrontano possa essere preceduta e coadiuvata dal contributo del pensiero alto di Intellettuali, Ricercatori, Storici e Professionisti con le sensibilità culturali e le competenze scientifiche in grado di fornire ai poliicy maker un quadro conoscitivo più vasto e profondo di quello posseduto dalle forze politiche che hanno – in ultima istanza – il potere e la responsabilità di scegliere e decidere. Per arrivare, però, a determinare un tale clima collaborativo tra Leadership politico-istituzionale ed Operatori culturali, le procedure della consultazione e/o della tradizionale consulenza-affidamento di incarichi, non sono (più) sufficienti. E’ fondamentale che crescano in Veneto la tensione etico-civile e la elaborazione culturale e scientifica generata da autentiche passioni per il bene comune, inteso non nella versione intimista e premoderna della decrescita, bensì nella visione e percezione dei nuovi paradigmi che caratterizzano il cambiamento in corso, così ben descritti da Ennio De Giorgi:
“Io penso che all’origine della creatività in tutti i campi ci sia quella che io chiamo la capacità o la disponibilità a sognare, a immaginare mondi diversi, cose diverse, a cercare di combinarle nella propria immaginazione in vario modo. A questa capacità, forse alla fine molto simile in tutte le discipline (matematica, filosofia, teologia, arte, pittura, scultura, fisica, biologia …) si unisce poi la capacità di comunicare i propri sogni, e una comunicazione non ambigua richiede anche la conoscenza del linguaggio, delle regole interne proprie alle diverse arti, delle diverse forme del sapere umano” (Michele Emmer, De Giorgi, La mente che battè Nash, LA LETTURA 11 settembre 2016)
Tale tensione e tale elaborazione culturale hanno bisogno di sedi, luoghi e strutture che le ospitino e se ne occupino. Ovviamente ci sono le Università, le Fondazioni, ma una funzione che va potenziataè sicuramente quella editoriale che ha principalmente il compito – nella dimensione territoriale regionale e triveneta – di realizzare il recupero del pensiero e delle opere di Autori, Leader politici, personalità che hanno incrociato nelle loro attività letterarie, politiche, scientifiche, gli umori, le risorse, gli interrogativi sul futuro, suggeriti dalla terra veneta e dalla umanità che in essa dimora, crea, produce, gioisce, soffre, si lamenta, manifesta ostilità (nei confronti dei foresti), ma è sempre pronta ad intercettare le traiettorie dello sviluppo che le consentano di fuoriuscire dal rischio entropia e proporsi come modello di crescita sociale ed economica

E siccome ho invocato l’esigenza del rilancio di una qualificata attività editoriale, passo la parola, per una considerazione conclusiva al veneziano-veneto con la sensibilità più raffinata per indicare il percorso da intraprendere e la connessione da fare tra patrimonio cultural-identitario del passato e soggettività intelligente-intraprendente contemporanea:

“Qui sta, a parer mio, il punto di partenza, nell’immaginare senza complessi di inferiorità e al tempo stesso senza egoismi o malizia un Veneto ricco di irrinunciabili individualità e al tempo stesso capace di riconoscere che non c’è altro spazio, altra dimensione geoplitica nella quale esistere che quella nazionale ed europea, com’è sempre stato”

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