Il semestre italiano di presidenza dell’UE : per un Paese più forte in un’Europa più giusta

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La domanda di futuro che ci interpella.

I cittadini italiani-europei hanno espresso – con le recenti elezioni – segnali molteplici e contradditori: un certo disamore (con l’astensionismo , segnali di rancore (con il voto ai movimenti antieuropei) che sono strettamente correlabili, per una parte, ai pesanti costi sociali provocati dall’austerità imposta dalla BCE e, per un’altra, all’assenza di una prospettiva incoraggiante delle Istituzioni comunitarie, nel contesto di una crisi economico-finanziaria perdurante.

Le promesse e le attese alimentate e cresciute nella prima stagione dell’euro, sono infatti diventate meno credibili perché i costi dell’appartenenza all’UE e della condivisione dei sacrifici necessari per il suo rafforzamento, sono ora giudicati insostenibili – per ragioni opposte – sia dai popoli del nord che da quelli del sud.

Ma i risultati elettorali non segnalano e non devono essere interpretati come il fallimento dell’integrazione europea; ne evidenziano semmai i limiti e l’incompletezza su cui hanno potuto speculare i mercati finanziari – in particolare finanziando le bolle immobiliari ed i titoli pubblici nei paesi del sud – che dapprima hanno negato il rischio e poi – dopo che la crisi scoppiata negli USA ha innescato la questione dei Debiti sovrani europei – lo hanno sopravvalutato, dando vita al fenomeno degli spread che ha contagiato anche l’Italia, portandola sull’orlo del default.

L’Europa, fin dalla sua nascita e attraverso le successive tappe della sua evoluzione, dai Trattati alla adozione della moneta unica, ha rappresentato un fattore benefico per il nostro Paese che ha trovato, nel processo di integrazione comunitaria, sia un ampliamento degli spazi di mercato per la propria produzione industriale ed agricola, che l’impulso per migliorare gli standard dei diritti di cittadinanza e di protezione sociale.

 

Euro, uno scudo usato maldestramente.

Va sottolineato che l’euro, al netto delle “disfunzioni” provocate dagli operatori italiani che hanno – nella fase di decollo – barato e lucrato sui prezzi per la carenza di efficaci azioni di controllo sul cambio da parte delle autorità competenti,   ha costituito uno scudo di fondamentale importanza per l’assetto economico-finanziario del nostro Paese:

a)            frenando la crescita del deficit pubblico italiano che – con la lira vigente – avrebbe continuato un’accelerazione spaventosa determinando anzitempo il collasso del sistema;

b)           riparando e tutelando i risparmi delle famiglie, protetti da una moneta forte che nel corso del tempo ha consolidato il proprio valore di scambio nel mercato finanziario globale sottoposto alle fluttuazioni di una speculazione crescente;

c)            ma, soprattutto, rappresentando un argine decisivo di fronte alla crisi arrivata dagli USA nel 2008 con una forza tellurica che avrebbe travolto come fuscello la moneta nazionale, con effetti drammatici sui conti pubblici, sui costi dell’energia e delle materie prime, sul potere d’acquisto delle famiglie.

Il passaggio quindi dalla lira all’euro è stata un’operazione intelligente e vantaggiosa, la precondizione di una stabilità monetaria che avrebbe dovuto sostenere la crescita basata sulla spinta di un indispensabile aumento di produttività ed essere la leva per la creazione e l’aumento della ricchezza reale.

Purtroppo la solidità della nuova moneta (l’euro) è stata scambiata dalla classe dirigente italiana – nel suo complesso – come un ancoraggio sufficiente e sicuro per lo sviluppo, a prescindere dall’improcrastinabile necessità di affrontare le cause strutturali dell’assenza di crescita con stagnazione dell’occupazione, ovvero il costante calo della produttività riscontrato nel corso degli ultimi 15 anni, verosimilmente determinato da cause più volte identificate, ma non rimosse:

–              scarsa concorrenza e liberalizzazione dei settori nei quali agiscono rendite di posizione e corporativismi professionali che incidono negativamente sulle tariffe e sulla qualità dei servizi per i cittadini

–              insufficiente propensione all’innovazione da parte delle imprese gravate da un’alta pressione fiscale e non coadiuvate dal sistema pubblico della Ricerca

–              un sistema di formazione ed istruzione superiore, in particolare tecnico-professionale, arretrato e sfasato rispetto alle esigenze del mercato del lavoro nel quale continuano a manifestarsi carenza di skill e figure richieste dalla imprese più innovative

–              un costo dell’energia molto maggiore di quello dei paesi concorrenti

–              un mercato del lavoro poco aperto (per usare un eufemismo) ai giovani

–              una pubblica amministrazione farraginosa, arretrata sul piano tecnologico-organizzativo ed impreparata quindi a sostenere lo sforzo competitivo del sistema produttivo

–              un sistema di giustizia civile tra i più lenti, inefficienti e costosi dei paesi avanzati

–              e, non ultima, una perdurante e diffusa corruzione che ha continuato a pesare sui conti pubblici, scoraggiare la competizione l’arrivo di investitori esteri.

Si tratta di una serie di nodi cruciali che attendono di essere affrontati con una politica di riforme strutturali di ampio respiro e che sono entrati con colpevole lentezza e contraddizioni nell’Agenda politica dei Governi succedutisi negli “anni dell’euro” che – proprio in ragione della protezione assicurata dalla moneta unica – hanno oscurato la realtà di un Paese che perdeva il 20 % di competitività in un mercato internazionale sempre più aperto e sfidante.

Buon ultimo e con una determinazione più che motivata, il Governo Renzi vi ha ri-messo mano, accelerando anche il percorso parlamentare della riforma elettorale ed istituzionale, questioni sulle quali le difficoltà e le resistenze al cambiamento si stanno manifestando in modo trasversale, confermando la necessità di introdurre nel dibattito politico italiano il linguaggio della verità e della trasparenza, ovvero di denunciare e combattere il gioco sporco degli illusionisti che scaricano sull’Europa le responsabilità – tutte italiane – dello stato di crisi sistemica del Paese, pur di ritardare e dribblare i necessari processi di innovazione ed affrontare i veri limiti e le incongruenze della politica comunitaria.

 

Grillo, Salvini e Pinocchio

Si rende quindi necessario, prioritariamente, smascherare lo sfascismo antieuropeo e le bugie anti-euro perché rappresentano un’operazione che non produce solo l’effetto di intossicare il confronto politico interno, ma soprattutto si traduce in un sabotaggio dei valori e degli interessi profondi che legano il futuro dell’Italia a quello dell’Europa.

Grillo Salvini ha strutturato la loro campagna elettorale per le europee su un doppio binario. Da un lato, quello scontato della polemica anti-euro, finalizzato ad intercettare tutti gli italiani – e sono un numero crescente, purtroppo – che non avendo ricevuto nell’ultimo decennio dalle forze politiche e dal sistema dei media nazionali analisi serie e puntuali sui numeri e sulle ragioni obiettive dei conflitti interni all’Unione Europea e tanto meno risposte ai mille problemi quotidiani, vengono orientati a rivolgere i loro motivi di delusione e rabbia verso un’Europa “cattiva matrigna”.

L’apparentamento del M5S con l’inglese Farage e della Lega con la francese Le Pen, costituiscono ora una scelta strategica per continuare a soffiare ed a lucrare sui sentimenti antieuro.

Va d’altronde sottolineato che la causa profonda della disaffezione – che i sondaggi riscontrano – dei cittadini italiani nei confronti delle istituzioni comunitarie è causato dalla incapacità di opinion leader, giornalisti (per lo più disinformati ed incompetenti), agenzie culturali, associazionismo politico e sociale, di innovare la chiave interpretativa e narrativa della nuova Comunità nascente: un gap che le forze politiche autenticamente europeiste debbono proporsi, per la parte e le responsabilità che competono loro, di contribuire a superare attraverso il linguaggio e l’esercizio della rappresentanza coerenti con il progetto di una più compiuta cittadinanza europea.

Oltretutto tale messaggio innovativo costituisce la scelta giusta per contrastare l’operazione degli sfascisti, che è condotta con l’armamentario di argomenti e pregiudizi che tendono a semplificare e strumentalizzare le ragioni del confronto e della competizione in corso nell’ambito comunitario, il cui provincialismo gretto ed autolesionistico si evidenzia nella creazione di polemiche, in particolare con i partner tedeschi e la leadership della Merkel, assurta a simbolo di “gendarme” del rigore finanziario.

La sistematica   falsificazione della storia recente riguardante il processo di integrazione europea, è usata allo scopo di continuare la polemica politica domestica: ma tale pratica – lo dobbiamo avere ben chiaro – rappresenta un danno incalcolabile per la credibilità del nostro Paese proprio nel momento in cui è impegnato nella responsabilità di gestione del semestre:

  1. ci espone alla delegittimazione nell’arena politico-istituzionale europea rafforzando nei confronti delle proposte e rivendicazioni italiane – sulla cosiddetta flessibilità – in sede comunitaria i pregiudizi alimentati dal comportamento di Berlusconi: dopo aver subito i danni dei sorrisini del duo Merkel-Sarkozy, dobbiamo sopportare ora il peso di una scarsa credibilità;

 

  1. rischia di indebolire la forza e la  rappresentatività della delegazione parlamentare italiana a Bruxelles, chiamata, in una fase storica drammatica, a trovare le formule politiche ed i contenuti programmatici con cui sostenere unitariamente le ragioni superiori degli interessi strategici italiani da tutelare.

 

Il Parlamento europeo infatti non è:

  1. Il teatrino in cui ci si può insultare e nel quale si possono usare argomentazioni ideologiche prive di fondamento e di sostenibilità e presumere che ciò procuri un vantaggio all’Italia.
  2. Non è neppure un salotto per sognatori ed intellettuali animati da pie intenzioni e privi della conoscenza degli interessi e tradizioni culturali nazionali in campo, che debbono trovare costantemente mediazioni e sintesi parziali, ma condivise.
  3. E’ piuttosto una vera arena politica competitiva, all’interno della quale valgono le buone idee e la capacità di sostenerle con i rapporti di forza che vengono giocati, però, all’interno di un perimetro di certezze che garantiscono la solidità dell’impianto istituzionale e, soprattutto, costituiscono un vantaggio per tutti i protagonisti incommensurabilmente superiore a quello marginale propagandato dai demagoghi e disfattisti che irridono la bandiera comunitaria di un continente pacificato ed incitano alla rissa sventolando le bandierine di piccole patrie contaminate dagli antichi virus del nazionalismo, del populismo e del razzismo.

Ciò che sconcerta è osservare, nei movimenti antieuropeisti che sono emersi con prepotenza dalle recenti elezioni in diversi Paesi, l’obnubilamento e la smemoratezza irresponsabile relativamente ai vantaggi che i Trattati per l’integrazione europea hanno determinato per tutti i popoli che hanno potuto varcare i vecchi confini, circolare liberamente, intensificare lo scambio di merci, condividere standard più elevati di diritti di cittadinanza, attrezzarsi per affrontare insieme le sfide della globalizzazione, dotarsi di reti ed infrastrutture che ampliano gli orizzonti della mobilità e degli spazi di azione per imprese sempre più internazionalizzate ed efficienti…

 

Il vento della generazione Erasmus

Ma non bisogna disperare: come rivela un recente Rapporto Giovani dell’Istituto Toniolo, due ragazzi italiani su tre sono convinti che il progetto comunitario sia più un’opportunità che un vincolo.

Al netto della delusione per come l’Europa ha affrontato la crisi e di un giudizio su di essa fortemente influenzato dall’atteggiamento che i giovani hanno nei confronti delle istituzioni italiane, la “generazione Erasmus” ha sperimentato la bellezza e l’utilità della libera circolazione senza visti e passaporti da mostrare; le frontiere cadute non sono solo quelle burocratiche, ma anche culturali, ragion per cui l’opinione prevalente è che bisogna andare avanti, anche con un esercito comune ed un’unica politica sociale ed estera.

 

Reintroduzione della lira?

Ciononostante, è ancor più avvilente riscontrare la rozzezza e l’avventurismo delle posizioni politiche che continuano ad usare nel dibattito politico, in Italia, il tema dell’abbandono dell’euro e/o della sua messa in discussione.

Per le ragioni già ricordate, è necessario contrastare la propaganda leghista e pentastellata con la massima energia, denunciandone il carattere regressivo e la carica distruttrice, di cui sono veicolo, per gli interessi nazionali.

Non dobbiamo lasciare ai cittadini italiani nessun margine di dubbio: la reintroduzione della lira non sarebbe un’operazione romantica, bensì dagli effetti drammatici e traumatici: il primo sarebbe un’immediata svalutazione molto significativa, stimata nell’ordine del 40 per cento. Ciò comporterebbe sicuramente uno stimolo alle esportazioni, ma a prezzi pesantissimi:

–              con l’impatto automatico sul debito pubblico e privato, attualmente determinato in euro, che quindi aumenterebbe dello stesso importo della svalutazione

–              ne seguirebbe un forte peggioramento della posizione patrimoniale di quei soggetti, imprese, famiglie e banche, che hanno nei propri bilanci passività in euro superiori alle attività, prolungandone ed aggravandone la crisi finanziaria

–              il debito pubblico italiano, in larga parte detenuto da investitori stranieri, diventerebbe ancor più insostenibile

–              l’aumento dello spread e del costo del credito innescherebbero un avvitamento del sistema economico-finanziario (aumento dell’inflazione, ecc.) ed il probabile collasso dell’intero Paese.

E’ pertanto fondamentale una lotta dura sul piano argomentativo e dialettico per evidenziare l’autentico karakiri che gli sfascisti antieuro propongono al nostro Paese: anche se risulta persino raccapricciante, è necessario divulgare il prospetto dei costi che deriverebbero dal “no alla UE”: 800 miliardi! (vedi l’elaborazione de Il Sole 24 Ore, lunedì 5 maggio 2014).

Non si tratta quindi di sostenere una polemica politica contingente, bensì di fissare la strategia ed i contenuti programmatici per il piano di salvezza del Paese che tra i punti programmatici ha un ancoraggio forte e strutturale nell’integrazione sociale, istituzionale ed economico-finnanziaria comunitaria.

Per il nostro Paese si tratta di aver ben chiaro che i fronti interno ed internazionale sono le due facce della stessa medaglia, nell’azione per il rinnovamento e la rinascita nazionale!

Nelle conclusioni del suo libro Trentatrè false verità sull’Europa Lorenzo Bini Smaghi sostiene – sulla scorta di un’approfondita analisi che gli deriva non solo dalla competenza scientifica, ma anche dalla esperienza diretta sul campo (membership del Comitato esecutivo della BCE) – che “il destino dell’Europa si gioca nei prossimi anni in gran parte a Roma. Ci si deve dunque interrogare sul ruolo che l’Italia può svolgere per avviare un circuito virtuoso, per la sua economia e per il Continente”.

Nel condividere pienamente tale diagnosi, riteniamo necessario prospettare con questo contributo alcuni elementi per un programma di politica economico-sociale ed europea su cui impegnare l’azione di rappresentanza e mobilitazione politico-culturale degli europarlamentari italiani dovrebbero sostenere per dare forza e legittimità all’azione del Governo Renzi nella gestione del semestre a guida italiana .

 

  1. Multilevel governance

Il primo appunto che annotiamo innanzitutto per la nostra agenda personale e che riteniamo debba essere assunto dalle forze politiche e da tutti i soggetti sociali e professionali, senza distinzioni di sensibilità ed orientamento culturale, è il superamento della pratica politica della separazione tra livelli di rappresentanza (territoriale, nazionale, europeo) e l’adozione dell’ approccio della multilevel governance che consenta di sostenere una progettualità più coordinata, integrata e funzionale ad implementare – sia con l’azione di Governo che con l’attività nel Parlamento ed i ruoli operativi europei – i provvedimenti più efficaci per recuperare competitività e far crescere nuovamente l’economia del nostro Paese, all’interno di una strategia comunitaria espansiva.

 

  1. Contractual arrangements

L’appuntamento più prossimo ed inequivocabile per testimoniare tale scelta ci sarà dato con la definizione dei cosiddetti contractual arrangements – Accordi contrattuali tra l’Unione e i Paesi membri – che secondo la decisione del Consiglio europeo del dicembre 2013 dovrebbero essere concordati nella seconda metà del 2014, sotto la presidenza italiana. Il contratto dovrà costituire l’occasione per formalizzare, in ambito europeo, l’impegno dell’Italia a dare concreta e tempestiva attuazione al processo riformatore avviato dagli ultimi Governi ed in modo più determinato dal Governo Renzi, e ciò a fronte della rimodulazione del percorso di risanamento delle finanze pubbliche, ovvero dei vincoli del Fiscal compact, al fine di uscire dalla retorica asfissiante dell’austerità e dare un impulso alle politiche della crescita, fondamentale per aggredire il debito pubblico e dare contestualmente risposte alla drammatica emergenza occupazionale.

 

  1. Fondo di garanzia per l’occupazione

La prima, visibile, coerente, condivisibile da tutti i Paesi membri (con il superamento di visioni, rivendicazioni, pregiudizi di matrice nazionale) misura che deve scaturire dall’intesa negoziata, riguarda – appunto – il tema del lavoro. Vanno trovate le risorse finanziarie per rafforzare prioritariamente i fondi di garanzia per l’occupazione giovanile. Contestualmente va predisposto un meccanismo di finanziamento comune della disoccupazione collegato all’avanzamento delle riforme strutturali avviate nei singoli Paesi affinchè emerga chiaramente che i risparmi prodotti dal rigore sono finalizzati a dare maggiori garanzie ai milioni di lavoratrici e lavoratori disoccupati e/o coinvolti dalle trasformazioni economiche e dai processi di flessibilizzazione del mercato del lavoro. Si tratta di una questione che rappresenta un vero e proprio “dovere dell’Unione”, come giustamente titola l’articolo dettagliato di A. Quadrio Curzio (Il Sole 24 Ore, 4 maggio 2014).

 

  1. BCE per lo sviluppo

Bisogna inoltre procedere alla creazione di strumenti finanziari, che potranno essere inizialmente garantiti da titoli dei Paesi membri per trovare successivamente una soluzione unitaria condivisa a livello comunitario (Eurobonds) che consentano di “irrorare” in modo più potente il mercato finanziario e del credito attraverso più tempestive ed incisive politiche di intervento della BCE per lo sviluppo. Anche in questo caso si tratta di superare la logica delle contrapposizioni ideologiche tra Paesi, alimentate dalla sfiducia reciproca in merito alla mutualizzazione dei rischi, pubblici o privati, determinata dal sospetto che l’obiettivo per alcuni, sia la “socializzazione dei debiti passati”. L’Italia, in quanto primo contribuente – per peso sul debito – per il Fondo Salva Stati, ha il diritto ed anche il dovere di propugnare una strategia di maggiore protagonismo della Banca Centrale per il sostegno alla crescita: non è in gioco il tanto invocato “ruolo di prestatore di ultima istanza”, bensì l’esigenza di affrontare alla radice la questione della crescente divergenza reale tra le economie europee. La UE presenta nel 2014, a distanza di 28 anni dall’Atto Unico, oltre al positivo bilancio – in particolare per il nostro Paese – che abbiamo sinteticamente descritto, anche una lunga e sottovaluta storia di “asimmetrie” , ovvero l’assenza di una policy per la convergenza tra Nord e Sud, cosicchè oggi la crescente distanza tra i diversi Paesi sta diventando la vera palla al piede per lo sviluppo dell’intera eurozona. Pertanto nel Parlamento europeo va affrontato l’aggiornamento della politica di austerità con il duplice obiettivo di intervenire sugli squilibri territoriali dello sviluppo e contrastare la prospettiva della stagnazione economica che già ora si manifesta attraverso il fenomeno della deflazione, che – com’era prevedibile – comincia a colpire anche il Paese (la Germania) più refrattario a politiche monetarie espansive: il rischio dell’avvitamento su se stessa dell’intera eurozona può diventare esplosivo!

 

  1. Il segnale (positivo) dell’Unione bancaria

Va nella giusta direzione del rafforzamento della governance comunitaria il meccanismo di gestione delle crisi creditizie recentemente approvato. Non si tratta infatti di una questione di pura tecnicalità riguardante la “tecnocrazia” comunitaria, bensì dell’avio di un processo irreversibile di consolidamento di regole e strumenti che da un lato tutelino il risparmio dei cittadini europei e dall’altro determino una gestione del credito più trasparente, sottratta alla discrezionalità di lobbies e gruppi di potere operanti sia ai livelli nazionali che territoriali che negli ultimi anni si sono resi protagonisti di operazioni finanziarie che hanno bruciato ingenti risorse e rallentato il flusso della circolazione del credito a favore delle PMI. L’Unione Bancaria, che va ulteriormente completata, rappresenta un pilastro fondamentale per consolidare un processo di sostegno effettivo alle politiche di sviluppo e superamento della frammentazione del mercato finanziario e del credito.

 

  1. Una politica estera e della difesa rafforzate

L’esigenza di sconfiggere in Italia il populismo antieuropeo e di orientare l’opinione pubblica nazionale ad una maggiore consapevolezza della dimensione internazionale dei problemi drammatici che il nostro Paese non può affrontare con una miope visione nazionale o – peggio – da “piccola patria”, è rappresentata dalla visione quotidiana delle immagini che scorrono sugli schermi televisivi: l’ondata immigratoria dal mediterraneo che sta travolgendo le fragili infrastrutture di accoglienza siciliane e gli eventi di guerra civile che riemergono nel versante orientale dell’Europa, ovvero in territori in cui potremmo affermare che “la storia non è ancora terminata” , resi ancor più drammatici con quello che non si può definire un “incidente” bensì dell’effetto collaterale dello scontro in atto tra i ribelli filorussi ed il Governo di Kiev: l’abbattimento dell’aereo civile olandese nei cieli dell’Ucraina. Si tratta quindi di aprire una pagina nuova nel processo di integrazione europea, mettendo al centro l’adozione di una strategia comunitaria che faccia della politica estera e della difesa uno scudo unitario per fronteggiare emergenze epocali che sollecitano una presa di coscienza dei popoli e delle classi dirigenti nazionali sulla trasformazione in atto nei rapporti tra i continenti. Vanno in questa direzione il rafforzamento della funzione dell’Alto Rappresentante per la Politica Estera e di Sicurezza Comune che dovrà diventare un vero Ministro degli esteri per il quale – giustamente – si rivendica l’attribuzione ad un rappresentante italiano. Sono sul tavolo decisioni di fondamentale importanza che riguardano:

a)            l’allargamento verso Est, con un’azione geo-politica mirante a sostenere la cosiddetta Eastern Partnership che deve puntare a stabilizzare e far prosperare molti Paesi del blocco ex sovietico;

b)           la capacità di stabilire rapporti più stringenti con la Russia di Putin sia per frenarne la risorgente aggressività espansionistica e trovare una soluzione realistica al conflitto in Ucraina, sia per definire le condizioni di una partnership che è decisiva per il consolidamento dello scambio commerciale e per la questione delle forniture energetiche;

c)            ma – per quanto ci riguarda più direttamente – è sul lato meridionale del continente che l’Europa deve mettere in campo un programma di interventi che vadano oltre sia l’indolenza e l’opportunismo dei Paesi del Nord (che si ritengono immunizzati dal problema) sia le improvvide pulsioni nazionali (come quelle della Francia che hanno portato al disastroso intervento nella crisi libica) . Come sottolinea l’europarlamentare Gianni Pittella nel suo Manifesto: “l’asse centrale della politica estera dell’Unione Europea dovrà essere a Sud ed è per questo necessario ripensare la politica euro-mediterranea. Sia il processo di Barcellona lanciato nel 1995 che l’Unione per il Mediterraneo promossa nel 2007 si sono rivelate esperienze non positive. Uno dei principali difetti di questi progetti era nel loro carattere troppo generale, nell’ incapacità nell’individuare un tema operativo che potesse dare un senso reale alla cooperazione euro-mediterranea. Io ritengo che in futuro tale cooperazione debba essere costruita attorno ad un progetto concreto: il sostegno al capitale umano nel Mediterraneo. Per questo, credo che il Parlamento Europeo nel prossimo mandato debba lanciare il progetto MARE (Mediterranean Area for Research and Education), ossia un grande piano a sostegno della mobilità e cooperazione a livello universitario nel Mediterraneo” .

Ciò deve significare una mobilitazione straordinaria immediata di risorse finanziarie, umane, progettuali, infrastrutturali sia per fronteggiare l’emergenza degli sbarchi che il necessario riorientamento verso l’autosviluppo delle aree più fragili del continente africano ed inoltre per sostenere una robusta azione di Peacekeeping nelle zone infestate dal terrorismo dei gruppi islamisti e dagli assassinii sistematici rivolti in particolare contro le popolazioni cristiane e le donne.

 

  1. Agenda digitale europea

L’Agenda digitale presentata dalla Commissione europea è una delle sette iniziative faro della strategia Europa 2020, che fissa obiettivi per la crescita nell’Unione europea (UE) da raggiungere entro il 2020. Questa agenda digitale propone di sfruttare al meglio il potenziale delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (TIC) per favorire l’innovazione, la crescita economica e il progresso. Si tratta di un documento che deve ispirare ed orientare costantemente l’iniziativa politica – sia nel Parlamento europeo che a livello nazionale e territoriale – finalizzata alla crescita economica sempre più correlata agli interventi che sostengono ed accompagnano la rivoluzione digitale, sia attraverso la rigenerazione delle attività imprenditoriali che con la riorganizzazione dell’intero apparato pubblico e dei servizi resi sempre più accessibili ai cittadini.

L’economia della conoscenza basata sulle reti nella quale siamo oramai immersi, si basa sulle infrastrutture che consento il flusso delle informazioni più efficiente: la strategia definita con Europa 2020 ha sottolineato l’importanza della diffusione della banda larga per promuovere l’inclusione sociale e la competitività nell’UE, ribadendo l’obiettivo (temerario) di portare la banda larga di base a tutti i cittadini europei entro il 2013. Come ben sappiamo in Italia e nel Nordest, tale obiettivo è ben lungi dall’essere stato raggiunto ed è pertanto necessario realizzare una “connessione” sempre più stretta e coerente tra le indicazioni programmatiche dell’UE e gli impegni attuativi delle Autorità regionali e del Governo, avendo presente che la strategia UE è intesa a fare in modo che, entro il 2020, tutti gli europei abbiano accesso a connessioni molto più rapide, superiori a 30 Mbps, e che almeno il 50% delle famiglie europee si abboni a internet con connessioni al di sopra di 100 Mbps.

Per raggiungere questi obiettivi ambiziosi occorre elaborare una politica globale basata su una combinazione di tecnologie e con due obiettivi paralleli: da un lato, garantire la copertura universale della banda larga (combinando reti fisse e senza fili) con velocità di connessione crescenti fino a 30 Mbps e oltre e, nel tempo, favorire la diffusione e l’adozione su una vasta porzione del territorio dell’UE di reti di accesso di nuova generazione (NGA) che consentono connessioni superveloci superiori a 100 Mbps.

Ne risulta la necessità, per i Parlamentari europei, di garantire un costante collegamento ed interfacciamento tra i Provvedimenti e finanziamenti decisi a livello comunitario e le iniziative intraprese a livello territoriale e nazionale per dare concreta attuazione alle Agende digitali affinchè diventino un vettore decisivo per l’innovazione e la crescita.

 

  1. L’Europa che fa bene all’Italia

I temi e le questioni che, come ricordato, legano il futuro dell’Italia alla qualità delle sue relazioni con l’Europa e alla capacità di cogliere le opportunità che l’orizzonte comunitario presenta, in termini di regolamentazioni, standard, risorse finanziarie, efficientamento delle reti, mercato, ecc., sono naturalmente molti altri e su di essi diventa necessario alimentare la riflessività e l’iniziativa politica costante, con resoconti, convegni ed altre attività con le quali non solo testimoniare la necessaria concretezza della rappresentanza parlamentare europea, correla alle molteplici azioni ai livelli nazionale-regionale-locale, ma contestualmente segnalare la complessità e ricchezza del processo di integrazione europea, che meritano attenzione e coinvolgimento sempre più intenso ed esteso dei cittadini e di una Rete Civica Europea che va alimentata con la partecipazione degli Enti locali e delle rappresentanze sociali.

Dai costanti aggiornamenti dei provvedimenti per la PAC, lo sviluppo delle reti infrastrutturali per la mobilità, dalla trattativa per l’espansione del mercato UE-USA (entrato in una fase cruciale) alla tematizzazione della liberalizzazione del mercato dell’energia, dal fondo per l’occupazione giovanile Youth Guarantee alla tutela di Made in Italy, si riempiono le pagine di un’Agenda nella quale leggiamo gli interessi fondamentali che l’Italia si gioca nel cantiere europeo.

Tutto ciò quindi motiva la necessità l’impegno permanente il rafforzamento del processo di integrazione comunitaria senza indulgere alla retorica bensì rendendo ancora più espliciti e sinceri la scelta di una testimonianza e l’invito a mobilitarsi con coraggio ed entusiasmo nell’ambito in cui ognuno di noi esercita una responsabilità, professionale o politica che sia.

Conclusione

Il semestre a guida italiana, anche in ragione del forte riconoscimento elettorale ricevuto dalla leadership del Presidente del consiglio Renzi, può rappresentare la scommessa vincente dell’Italia per far cambiare rotta all’Europa, ovvero l’alternativa al tafazzismo dei salvini e dei grillini ed il superamento dell’approccio patetico ed inconcludente “antimerkellista” .

Quella presente è una stagione politica europea nella quale bisogna dare voce alla speranza attraverso la determinazione al cambiamento nel segno dell’equità sociale: confermando la nostra sincera adesione al progetto europeo, con la stessa carica visionaria dei padri fondatori e dei leader protagonisti delle scelte coraggiose nei tornanti del processo di integrazione, ma anche sottolineando che abbiamo maturato la conoscenza e la consapevolezza dei limiti e delle contraddizioni che ne hanno accompagnato l’evoluzione.

Ma soprattutto è necessario ci è chiesto di diventare portatori dell’energia e della progettualità necessarie per aggredire le persistenti gerarchie feudali ed i corporativismi settoriali e territoriali che intendono sopravvivere all’interno dei vecchi confini nazionali, puntando sull’immobilismo sociale e sulle rendite di posizione, usando il linguaggio populista e rissoso che ha caratterizzato i conflitti e le tragedie del secolo scorso.

E’ tempo di un “combattimento democratico” finalizzato a risanare le paludi morali nelle quali si annidano le slealtà di chi, nel nostro Paese, bara per mascherare la propria inettitudine ed il proprio conservatorismo.

Allo stesso tempo, senza “battere i pugni sul tavolo”, bisogna dimostrarsi intransigenti difensori delle ragioni, degli interessi e delle richieste del nostro Paese: determinati cioè a convincere e far riconoscere ai nostri Partner la necessità di rilanciare il processo di integrazione europea coniugando il necessario rigore dei conti pubblici con la liberazione delle risorse finanziarie necessarie per rilanciare la crescita e combattere la disoccupazione in particolare con interventi di sostegno allo sviluppo delle aree territoriali più deboli.

L’Europa deve riprendere il cammino dell’integrazione attraverso il rafforzamento delle istituzioni comunitarie e dei processi democratici di coinvolgimento e partecipazione dei cittadini per orientarne le scelte strategiche.

Il semestre a guida italiana è quindi a una straordinaria occasione per introdurre nell’Agenda europea un programma innovativo sia per la governance dell’Unione che per le politiche di sviluppo e di giustizia sociale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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