Pechino cerca un contraltare agli Stati Uniti

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Giuliano Noci – Il Sole 24 Ore 4 Maggio 2017
L’ulteriore investimento di Hna – divenuto ora primo socio con una quota del 10% in Deutsche Bank – ci riporta ad un tema chiave: quali le strategie della Cina nei confronti dell’Europa.
La risposta al quesito ci impone di ricorrere ad alcuni numeri e indicatori in grado di aiutarci a contestualizzare lo stato dei rapporti bilaterali. L’Europa nel suo complesso rappresenta il più importante mercato di destinazione delle merci cinesi (per un controvalore di quasi 500 miliardi di Euro); il vecchio Continente ha nel contempo attratto negli ultimi anni un’enorme massa di investimenti in operazioni di M&A dall’ex Impero di Mezzo: basti pensare che solo nel 2016 abbiamo assistito a investimenti per 35 miliardi di euro (+77% rispetto al 2015). L’ammontare degli investimenti in titoli quotati nelle Borse europee è cresciuto in misura molto significativa (basti solo pensare a quanto successo in Italia negli ultimi anni con l’acquisizione di quote di minoranza, ma miliardarie, nei titoli più importanti quotati a Milano). Sono lievitati infine gli investimenti in infrastrutture (tra gli altri il porto del Pireo e un aeroporto in est Europa). E siamo probabilmente solo all’antipasto.
Assistiamo insomma ad un radicale cambiamento di rotta rispetto ad un percorso che aveva portato il governo di Pechino a guardare – negli anni ’90 e nei primi anni del nuovo millennio – prevalentemente agli Usa e a trascurare i Paesi europei. Quali le ragioni di un interesse così elevato?
Molteplici e di natura sia economica sia politica, conseguenti a processi di trasformazione industriale interna e a ragioni di natura prettamente finanziaria. Ma cerchiamo ora di fare un po’ d’ordine. Se ci poniamo da una prospettiva di business, dobbiamo allora ricondurre questo grande interesse per l’Europa – e per l’Italia – al varo del piano Made in China 2025: un imponente progetto di pianificazione industriale che intende orientare la produzione cinese verso logiche di forte automazione produttiva, una scelta sempre più spiccatamente indirizzata verso l’innovazione di prodotto in un orizzonte di sostenibilità industriale. In questo senso, la Cina ha bisogno come il pane del know how di molte imprese europee per favorire/accelerare un processo di cambiamento tutt’altro che semplice. Non meno rilevanti sono le ragioni di natura geo-politica: la Cina ha bisogno di creare un contraltare agli Usa nella prospettiva della realizzazione di un dialogo strategico nei confronti di un continente che unisce alla forte interconnessione dal punto di vista dell’economia anche una posizione geografica prospiciente ad un’Africa, che per la sua disponibilità di risorse naturali già rappresenta un target rilevantissimo per l’ex Impero di mezzo. Né dobbiamo inoltre dimenticare il bisogno di diversificazione degli investimenti finanziari fino a poco tempo fa quasi esclusivamente orientati sui titoli del debito pubblico americano. Il varo del progetto One Belt One Road – ovvero lo stanziamento di centinaia di miliardi di dollari per due moderne Vie della Seta (una terrestre e l’altra marittima) – rappresenta del resto il completamento di un disegno in cui economia e politica si intrecciano fino a diventare un tutt’uno; se da un lato Obor è un grande progetto infrastrutturale per garantire vie commerciali moderne e affidabili ai prodotti di esportazione, esso rappresenta dall’altro una piattaforma di influenza politica di una Cina che intende proiettarsi sempre più ad ovest, sfruttando la parziale latitanza del timoniere nord americano. Giova a questo proposito ricordare che ad oggi hanno aderito al progetto ben 65 Paesi, tra cui l’Italia. Da questo nuovo scenario, l’Europa può trarre qualche vantaggio? Sì se riesce a far leva sull’enorme interesse cinese per il vecchio continente chiedendo in cambio contropartite concrete. Ad esempio, tra le altre, la rimozione di vincoli (tariffari e/o doganali) sui propri prodotti; così come la possibilità di accedere all’enorme mercato sanitario e farmaceutico che si va delineando in Cina per via del progressivo innalzamento dell’età media della popolazione. E ancora: una competizione più fair con riferimento a tecnologie e servizi acquistati dagli enti pubblici cinesi. Perché questo scambio si realizzi è ovviamente indispensabile che l’Europa si muova in modo univoco e parli con una voce sola per poter così mettere in gioco quella massa critica in grado di conferire maggior peso e credibilità alle richieste formulate. Le rotte che portano l’Europa in Cina si moltiplicano e sono sempre più frequentate. Particolarmente – una felice sorpresa – dall’Italia.

“Cento volte sulla vetta il Cervino è mio fratello”

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Così Hervé Barmasse è diventato uno dei più grandi alpinisti. “È un mistero la confidenza che ho con quella montagna. Ci sono momenti che devo starle vicino”
Testo di Paolo Cognetti – la Repubblica 26 marzo 2017
I fiumi del Monte Rosa sono come figli dello stesso padre. Le valli sono le strade che i figli prendono: in Val d’Ayas e in Valtournenche corrono due fiumi paralleli, nati dagli stessi ghiacciai, separati da una cresta di cime sui tremila metri. Una volta per andare di là si partiva di buon passo, si raggiungeva uno dei valichi tra una cima e l’altra e si scendeva dall’altra parte. Oggi invece, con l’automobile, devo scendere fin quasi in pianura, passare tra le fabbriche e gli svincoli autostradali, imboccare l’altra valle e risalirla, facendo cinquanta o sessanta chilometri in macchina invece che una decina a piedi. Che assurdità, penso. Quando sarà andata via la neve ci torno con lo zaino in spalla. Poi ad Antey-Saint-André nel parabrezza spunta il Cervino, il più nobile scoglio d’Europa, la sua parete sud contro il cielo in una giornata di sole. In giro non c’è nessuno. Cervinia è quassù ma sembra lontanissima.
«D’inverno il Cervino è più bello. La montagna è più montagna, più selvaggia e isolata. È stato d’inverno che ho preso la malattia che ho adesso». Anche la mia vita e quella di Hervé Barmasse sembrano due valli parallele. Siamo nati a un mese di distanza uno dall’altro, verso la fine degli anni Settanta. Lui montanaro e io cittadino, ma nelle estati in cui io imparavo la roccia e il ghiaccio da una guida alpina lui, che di guide è figlio e nipote, veniva mandato in pianura, nella cascina dei nonni. Io d’inverno tornavo a Milano e lui diventava uno sciatore. Sarebbe stato un campione, se un incidente a sedici anni non gli avesse distrutto le ginocchia. Fu costretto a rinunciare alle gare e per un po’ fece il maestro di sci nella Cervinia dei ricchi, un ambiente che nei suoi racconti descrive di sfuggita: i soldi, i bar, le donne, le notti bianche. Poi nel ’97 suo padre Marco, forse vedendo che qualcosa non andava, lo prese e lo portò in cima al Cervino, una mattina d’inverno. Lo stesso anno in cui ho smesso di andare in montagna io. «Mi ricordo uno spazio infinito d’azzurro. I colori sono diversi d’inverno, mi sentivo un esploratore polare. Ho pensato che salire poteva essere altrettanto bello che scendere. Con mio padre non sono andato tante altre volte in montagna: sai, da una parte una guida alpina preferirebbe che il figlio facesse un altro mestiere. Però non può evitare di trasmettere una passione».
Nei successivi vent’anni Hervé è diventato uno dei più forti alpinisti italiani. Ci sono tanti modi di andare in montagna, lui ci va come i pionieri, come gli esploratori: su vie nuove, dure, portandosi il materiale in spalla, su cime famose o sconosciute, qualche volta da solo. A incontrarlo, esprime una qualità evidente che è l’equilibrio. Mi ricorda la guida alpina con cui andavo in montagna da piccolo: gli alpinisti stanno in piedi e camminano con una consapevolezza diversa dalla nostra, che sembra derivare da una profonda fiducia interiore. Non esitano, non scivolano, non inciampano. Abita con la sua compagna Grazia in una frazione appartata e in una piccola casa che riconosco subito come la casa di un coetaneo, metà uomo e metà ragazzo: poco arredamento, una cucina moderna, un soppalco con un materasso, una scala ricavata da una tavola di larice tagliata con la motosega, le corde colorate da alpinismo. La casa di uno che non accumula e non colleziona, preferisce avere spazio più che oggetti intorno. Grazia ci guarda e dice che dei due io sembro il montanaro, lui il cittadino. Per me che mi porto dietro il peccato originale di Milano è il più gran complimento.
E allora Hervé, quante volte sarai salito in questi vent’anni sul Cervino? «Non le ho contate. Le guide svizzere tengono il conto, per me sono più importanti altre cose. Forse un centinaio».
E che senso ha salire sulla stessa montagna per cento volte? Salire e scendere e poi di nuovo salire, all’infinito? « Il Cervino non è solo roccia e ghiaccio, è un fratello maggiore per me. Mi sembra ogni volta di andare a trovarlo. Ne ho bisogno, ci sono momenti in cui sento il bisogno di stargli vicino. È un mistero la confidenza che riesco ad avere con lui».
Hervé sul Cervino è riuscito anche ad aprire delle vie nuove, per dimostrare che non sono vecchie le montagne ma solo gli occhi di chi le guarda. Una la aprì da solo in giorni di gran vento, tanto che il padre si spaventò e andò su per la via normale ad aspettarlo.
Così lui, dopo un bivacco in parete e una prima solitaria da leggenda ( dai tempi di Bonatti nessuno faceva niente di simile), arrivò in vetta per trovarci suo padre, a sessant’anni suonati, preoccupato e pronto a sgridarlo e riportarlo a casa. Non smettiamo mai di essere figli, vero Hervé?
Intanto facciamo una cosa da uomini, che è andare a comprare il pane. Prendiamo una mulattiera che raggiunge il paese attraverso il bosco. Il sentiero è in ombra, coperto da una crosta ghiacciata di neve primaverile, e io rischio di volare a ogni passo e mi aggrappo a ogni pianta per tenermi mentre Hervé cammina leggero, con quella sua agilità da funambolo, come se qualsiasi superficie gli fosse amica. Parliamo delle montagne che ha scalato in giro per il mondo. La Patagonia, il Pakistan, il Nepal. Però a lui non viene da raccontarmi di pareti e cime, ma di uomini. Lo incuriosisce veder nascere in Nepal un alpinismo locale, guide e portatori che cominciano ad andare in montagna per conto loro, «la stessa storia del mio Cervino, del mio paese». In Pakistan, in un villaggio a tremilacinquecento metri, ha trovato ragazzi che giocavano a bocce con dei dischi di ferro, come in Val d’Aosta ( le bocce sferiche hanno il problema di rotolare giù). Lui lo chiama il “popolo di montagna”: cambia solo l’aspetto, dice, i tratti del volto, ma quel popolo lo trovi in ogni montagna del mondo. Anche per questo vorrebbe fare qualcosa per l’Appennino straziato dal terremoto. Un grande incontro intorno al Gran Sasso, la prossima estate, in cui chiamare a raccolta gli amici della montagna, e dare sostegno ai montanari di laggiù. Ne parliamo passando per la piazzetta delle guide di Valtournenche, costellata di targhe e lapidi in memoria di alpinisti del passato. Qui si sente il peso della storia, e forse anche la responsabilità di prendersi la storia sulle spalle. «La mia parabola da alpinista a un certo punto scenderà, si invecchia, io ho avuto tanti infortuni. Continuerò lo stesso ad andare in montagna, ma quello che rimane è come insegnarla, raccontarla, condividerla».
Eh già: abbiamo quarant’anni tra poco, Hervé, che ne dici, tu sei pronto? «A me invecchiando sembra di ringiovanire. Ho molta più cultura adesso che da ragazzo. Ho avuto tante possibilità di confrontarmi con gente diversa, questa è stata una gran fortuna. Mi sembra che la vita debba essere ancora tutta scoperta, che tutto debba ancora succedere » . Sarà così. Lui entra in un negozietto e io resto solo nel paese deserto. Alzo gli occhi verso il crinale che dà sulla mia valle. Lo spartiacque si chiama così perché è la linea che divide le piogge: una goccia d’acqua cade un po’ più in qua, e va a finire in un fiume, un’altra un po’ più in là e va nell’altro. Guardo Hervé che esce dal negozio con il sacchetto del pane in mano. Chissà chi dei due, mi chiedo, diventerà padre per primo. ?

Il passaggio di testimone
« Tempo fa ho detto che l’alpinismo era fallito, ma oggi dico no, non è vero, perché ci sono giovani che non pensano solo all’arrampicata o alla salita ma capiscono che l’alpinismo è più che altro cultura. Giovani come Hervé Barmasse. Hervé è capace di trovare l’avventura sulle Alpi e non solo in Himalaya o in Patagonia. Giovani come lui, difendono i valori veri dell’alpinismo tradizionale ».
Reinhold Messner Trento Film Festival, 2015 L’autore

Perché leggere le recensioni dei critici professionisti nell’era dei social?

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INTERVISTA A PAMELA PAUL DEL “NEW YORK TIMES”

di Noemi Milani | 15.03.2017 – www.illibraio.it

Pamela Paul, responsabile della prestigiosa “The New York Times Book Review” e della sezione libri del “New York Times”, spiega in un’intervista a ilLibraio.it perché vale ancora la pena leggere le recensioni dei critici professionisti nell’era del passaparola sui social e parla, tra le altre cose, del maschilismo nel mondo della cultura, del successo di Elena Ferrante oltreoceano e dell’interesse negli Usa per gli autori italiani contemporanei (citando il nuovo libro di Domenico Starnone)
Nell’era dei social e del passaparola online, ha senso che ci sia ancora chi per lavoro recensisce libri, nonostante in rete si trovino centinaia di siti e portali dove critici non professionisti, blogger e lettori danno il loro parere sulle opere pubblicate? Pamela Paul, caporedattrice della prestigiosa The New York Times Book Review, oltre che responsabile di tutti gli articoli sui libri del New York Times, ne ha parlato in un’intervista a ilLibraio.it. Pamela Paul, che è anche una scrittrice e che dal 2011 lavora per uno dei quotidiani più importanti al mondo, ha consigliato un autore in grado di condensare il nostro complesso periodo storico in un romanzo, e si è espressa sul maschilismo nel mondo letterario.

Al giorno d’oggi, con sempre più recensioni scritte da lettori online, perché è ancora importante leggere le opinioni dei critici professionisti sulla carta stampata?

“Parliamo di cose diverse. Le recensioni dei professionisti, almeno per come operiamo al New York Times, sono attendibili: facciamo fact checking affinché il testo rispecchi accuratamente il libro, tanto che ogni scena e ogni citazione sono verificate. I lettori sono liberi di dissentire dal giudizio del critico, ma non devono mai dubitare dell’attendibilità. Anche l’obiettività è un fattore che non sottovalutiamo, tanto che scegliamo accuratamente il recensore per ogni libro, affinché non ci siano conflitti di interessi. Non deve essere né amico dell’autore, né suo nemico. Una grande differenza rispetto alle recensioni online, dove nessuno controlla l’imparzialità. Infine, il critico professionista non è solo in grado di mettere in relazione il libro ad altre opere, ma anche di raccontare il contesto in cui si colloca”.
Tuttavia le recensioni dei lettori online hanno un peso crescente…
“Certo, perché hanno una loro funzione. Tutti sappiamo quanto ci influenza ascoltare le opinioni degli altri e sperimentiamo l’importanza del passaparola. Allo stesso tempo esse non offrono la stesa integrità e sostanza delle recensioni scritte da professionisti”.

A proposito di internet, oggi anche le testate più prestigiose subiscono la concorrenza delle realtà online: in che modo internet sta condizionando il suo lavoro?
“Rispetto solo a dieci anni fa, ora lavoriamo soprattutto per i lettori digitali: tantissimi ormai si approcciano alle notizie e ai contenuti in un modo differente rispetto al passato. Internet offre la possibilità di parlare di libri in modi diversi rispetto alla pagina del giornale”.
In particolare?
“Si possono mostrare con più facilità le immagini e quindi si può dare risalto a opere dal forte impatto grafico; è possibile inserire clip audio e video negli articoli… La rete, in generale, ha ampliato le modalità in cui si parla di libri”.
Recentemente il NYT cercava un corrispondente culturale dall’Europa. Quanto è importante per gli Usa l’influenza della cultura europea anche in riferimento alla letteratura?
“Siamo un quotidiano globale e speriamo di interessare anche i lettori europei. Siccome viviamo in un mondo globalizzato è inevitabile che anche la cultura lo sia; per questo motivo per noi è importante coprire temi europei. Nel caso dei libri, ci interessa quello che si legge in Europa e puntiamo a raccontare anche le voci che provengono da quei luoghi. Non è un caso che un’autrice italiana sia una delle più lette e discusse negli ultimi anni qui in America”.
Si riferisce naturalmente a Elena Ferrante. Come spiega l’interesse dei lettori americani per i suoi libri?
“Trovo interessante vedere che cosa supera i confini statali, a livello culturale. Ci sono autori americani molto influenti all’estero, che però qui non sono per niente conosciuti; lo stesso succede con serie TV e film. Per quanto riguarda Elena Ferrante, credo ci siano stati un insieme di fattori, dalle recensioni favorevoli al passaparola. Inoltre siamo nell’età dell’oro delle serie TV e un’opera in più volumi ha in parte ricreato quello che il pubblico cerca: personaggi che restino per un po’”.

Grazie al successo dei romanzi della Ferrante, è aumentato l’interesse per gli autori italiani contemporanei?
“I libri sono capaci di aprire nuovi mondi: dalla mia esperienza personale so che quando si legge un’opera che ci interessa di un certo autore o su un certo luogo, poi se ne cercano altri simili. Vuoi restare in quel mondo. Ora sta uscendo un nuovo libro di Domenico Starnone, probabilmente avrà successo”.

Un tema molto discusso è quello del “maschilismo” nel mondo culturale. Pensa che negli ultimi anni sia aumentato il numero di firme femminili tra i critici letterari, in particolari nelle grandi testate?
“In America, e non solo, le donne sono lettori più forti degli uomini e anche in editoria, da anni, lavorano tantissime donne. Quello che sta accadendo ora è che stanno iniziando a dare più importanza ai loro gusti e alle loro aspettative, piuttosto che a quelli di un mercato improntato sulle richieste dell’uomo bianco medio. E questo ha un’influenza anche sulle recensioni”.
Secondo lei – che ha scritto un saggio sul matrimonio, uno sull’esposizione mediatica dei bambini e uno sulla pornografia – chi sono gli autori che al momento sanno raccontare meglio i temi decisivi e i cambiamenti di questi anni?
“Non voglio fare favoritismi, ma cito Mohsin Hamid, un autore di Lahore che è vissuto a Londra e negli Stati Uniti e i cui libri sono stati tradotti in 25 lingue. Il suo nuovo romanzo, Exit West, tratta temi come l’ISIS, i migranti e la globalizzazione. Soprattutto, riflette sull’impossibilità di chiudere i confini, in un mondo come il nostro, siano essi territoriali, spirituali o fisici. Il tutto, poi, è trattato tramite una storia d’amore, un aspetto della vita narrato solitamente da autrici donne”.
E per quanto riguarda i libri per bambini, di cui si è occupata durante i suoi primi anni al NYT, secondo lei come si stanno evolvendo le storie?
“Per prima cosa le illustrazioni stanno ricevendo l’attenzione che meritano, sono riconosciute come forme d’arte e sono realizzate da disegnatori talentuosi. I libri per ragazzi stanno diventando sempre più di qualità: d’altronde, per convincere i ragazzini a mettere da parte i videogiochi, devono essere prodotti validi e ben fatti. Infine, i romanzi Young Adult, che fino a qualche anno fa non esistevano nemmeno, sono ormai opere interessanti per come uniscono i generi e riflettono sulla diversità. Tema che, in generale, è sempre più trattato nei libri per i più giovani: l’editoria ha capito il bisogno dei ragazzi di vedersi rappresentati in quello che leggono”.
Il suo ultimo libro, My life with Bob, nasce dalla sua abitudine di tenere traccia su un diario delle sue letture. Come definirebbe il rapporto che si crea tra il libro e il lettore?


“Ho iniziato a compilare un diario delle mie letture mentre ero al liceo e il primo titolo inserito è stato Il processo di Kafka. La mia opera si focalizza sulla relazione con i libri, perché mi sono resa conto, anche grazie al mio lavoro, che ogni lettore ha una sua idea di quello che ha letto. E lo stesso accade quando si rilegge un libro in diversi periodi della propria vita: sei la stessa persona ma reagisci in modi diversi. Infine, un’altra magia dei libri, secondo me, è che chiunque legge un certo titolo è connesso con gli altri lettori. Questo discorso vale per tante altre arti, ma credo che per la letteratura sia più forte, perché permette di creare mondi nella propria mente

Jonathan Franzen racconta Donald Trump

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di Francesco Pacifico
Idee e Lifestyle del Sole 24 ORE – 9 marzo 2017

Il più grande scrittore contemporaneo parla senza pregiudizi dei primi mesi del nuovo presidente americano. Li giudica terribili, certo, ma leggete che cosa ci ha detto sulla «grande menzogna della Silicon Valley», sulle fake news e sull’intolleranza radicale della sinistra

Siccome per parlare di Donald Trump e dell’America di oggi bisogna entrare nel campo terribile della post verità e delle fake news, iniziamo dalla cosa più strana che mi ha raccontato Jonathan Franzen per telefono: c’è un gruppo – Yes California – che sta raccogliendo firme per un referendum per la secessione della California dagli Stati Uniti d’America. Franzen è forse l’unico scrittore americano che crede ancora nel romanzo sociale alla Dickens, quello più interessato a raccontare la società che a innovare la forma romanzo. Per questo abbiamo deciso di farci spiegare da lui in che stato è l’America dopo la vittoria di Trump e il debutto della sua Amministrazione.
È mezzogiorno di un sabato di fine febbraio, Franzen alza il telefono dalla sua casa di Santa Cruz, sulla baia di Monterey, California del Nord, «la parte bella della California», dove abita e ha un ufficio al campus universitario senza compiti d’insegnamento. È reduce dalla consegna alla rete televisiva Showtime delle prime venti ore sceneggiate della serie tv tratta da Purity, il suo ultimo romanzo. Per riposare, ora che il più è fatto e bisogna aspettare la risposta del committente, ieri si è preso il pomeriggio libero e ha guidato mezz’ora nella pioggia fino a Half Moon Bay per andare ad ammirare le nove specie diverse di gabbiano della baia.
«Prima era il Sud conservatore che parlava sempre di secessione» e invece ora l’America si è rovesciata: «La California vuole fare la secessione dall’Unione: “Who needs these idiots?, noi abbiamo l’economia…”». E intanto il governo federale conservatore vuole, contro la propria tradizione, diventare più forte e limitare i diritti degli Stati membri. «È un’epoca interessante. I soldi e il potere, tranne quello federale, sono in mano ai liberal, negli Stati ricchi».
Al di là dell’oggettiva forza economica e culturale del Golden State, la storia del tentativo di secessione sembra fatta apposta per l’epoca delle fake news: io stesso posso metterla all’inizio di un pezzo per farla diventare più rilevante, emblematica di quanto non sia, distorcendo la realtà.
E di questo parliamo innanzitutto. Da uomo del Midwest, Franzen non è un militante, ma un coltivatore del buon senso. Quindi non racconta l’America di oggi riducendola a Trump: l’America che vede è in primo luogo un paesaggio frammentato, di bolle separate, dove ciascuno può selezionare i fatti a cui credere per costruire una realtà parallela.
«La questione interessante, che vi state ponendo anche in Europa, è se stiamo scoprendo che la democrazia liberale è qualcosa che è stato praticato solo da una piccola percentuale della popolazione: una volta aperta la strada alla democrazia radicale nella forma dei social media, e di Twitter in particolare, ci stiamo accorgendo che la maggior parte della gente è antidemocratica, che è crudele e cattiva e arrabbiata e piena d’odio».
Ci sono due approcci possibili, secondo Franzen: uno è che «i social media ci hanno fatto capire quanto sia davvero terribile la maggioranza delle persone». L’altro è che forse i social media favoriscono certi cattivi comportamenti. Ecco l’anima da midwesterner di Franzen, quello spirito per cui, al di là di ogni ragionamento sull’ingegneria sociale, nel fondo l’uomo è fatto per la decenza. Forse, sostiene, le persone che normalmente sarebbero più inclini ai compromessi e alla collaborazione, per colpa dei social media ragionano solo da consumatori, aspettandosi che le cose siano esattamente come le desiderano. «E se così non è, si spazientiscono».
Così, per Franzen, la proposta del muro al confine con il Messico è una buona metafora ben oltre il piano strettamente politico: è «l’incarnazione letterale dei muri che, nell’epoca del tecno-consumismo, la gente erige tra sé e i fatti che trova sgradevoli. Ma è anche un prodotto stesso dei fake facts: il “fatto” che gli immigrati senza permesso di soggiorno commettano violenze in gran numero, il “fatto” che danneggino l’economia americana, il “fatto” che la scomparsa dei posti di lavoro nel manifatturiero sia colpa loro. La realtà è sgradevole: i lavori del manifatturiero stanno scomparendo a causa dell’automazione e perché gli americani amano acquistare prodotti stranieri a basso costo. E cosi pensano che “forse questa realtà scomparirà se le costruiamo davanti un muro…”».
Silicon valley vs élite
In questo senso, Franzen non riesce a vedere una specificità americana: social media, comunicazione online, cittadini ridotti a consumatori, il quadro è molto ampio e l’elezione di Trump ne è il prodotto. La prima causa, nei ragionamenti dell’autore di Purity, è la Silicon Valley che ha creato i social media, l’idea wiki di un mondo costruito con la somma di tutte le nostre ignoranze, delegittimando qualunque ruolo delle élite.
«Questa rivolta contro le élite la vedi ovunque. In Occidente. In Europa. In Gran Bretagna. E adesso qui in America. Di colpo si è raggiunta questa massa critica. Ed è certamente possibile che tutti, ognuno per conto suo, siano diventati improvvisamente sospettosi dell’élite; ma sembra anche che la tecnologia ne sia l’artefice. Un elemento della religione della Silicon Valley è “non fidatevi degli esperti: la gente ne sa di più”. Cioè la gente comune, se collabora, ne sa di più di quegli stupidi esperti…».
L’appartenenza inevitabile a una filter bubble, a un sistema di social media che ci restituiscono solo la realtà che vogliamo vedere noi e i nostri simili, produce dissonanze cognitive: Trump governa l’America dal basso della sua percentuale di voto popolare, la più bassa di sempre per un vincitore, e l’opinione pubblica insorge, ma «nelle città la gente non ha perso la testa; e in Stati interi dell’Unione, soprattutto in California, se non ci fossero le manifestazioni non ti renderesti nemmeno conto che sia successo qualcosa di brutto a Washington».
Per i californiani in odore di secessione (ecco che di mia iniziativa trasformo una notizia in fake news, brivido!) la dissonanza cognitiva è particolarmente forte: Franzen ricorda che la California è la sesta economia del mondo, con due senatrici progressiste, e un governatore della stessa parte, Jerry Brown. Il giorno prima della nostra telefonata è stata introdotta la legge per l’assistenza sanitaria statale a tutti i californiani. È in controtendenza rispetto a quanto succede a Washington, ma siccome è finanziata dallo Stato il governo federale non si può opporre.
«Io vivo in una cittadina estremamente liberal, di universitari e di surfisti, piena di negozi vegetariani e di transessuali. La città ha messo limiti severissimi alla crescita immobiliare e la natura è preservata in modo splendido. Abbiamo una forte tolleranza per gli immigrati di ogni genere, inclusi quelli senza permesso. È la mia vita di tutti i giorni e c’è una dissonanza cognitiva tra ciò che vedo ogni giorno e le cose scandalose che leggo nei tweet del nostro presidente. Apro il New York Times la mattina, ed è tutto veramente postmoderno, surreale».
Il quadro è complicato. Se da una parte la vittoria di Trump ha ridato vigore al giornalismo e il New York Times pubblica una campagna autopubblicitaria che dice: «Verità – Oggi è più importante che mai», la vera tentazione è chiudersi nella propria bolla. «Vedi le mappe degli Stati rossi e degli Stati blu, cioè repubblicani e democratici. Sono fuorvianti. Perché se vai in uno Stato rosso come il Texas, le città sono blu. Un mare rosso con dei grossi punti blu ovunque ci sia una città. Ognuno vive nel proprio mondo, consuma le proprie notizie e sceglie quali fatti siano fatti reali».

Birdwatching ed exit poll
Il giorno delle elezioni, Franzen non era in California, ma in Ghana, nell’Africa occidentale, dove aveva organizzato tre settimane di bird-watching con uno dei suoi fratelli e due amici. «È la stagione migliore per il birdwatching in Ghana, e poi pensavo che gli ultimi nove giorni prima delle elezioni non sarei riuscito a combinare niente, solo a pensare ossessivamente alle elezioni: tanto valeva pensare ossessivamente agli uccelli in un posto remoto». La sera del voto, parecchie ore prima dei suoi connazionali, è andato a dormire forte dei primi sondaggi a favore di Hillary Clinton.
La mattina dopo si è svegliato alle quattro e mezza, come d’abitudine per chi pensa ossessivamente agli uccelli, ha controllato il telefono e le cose sembravano essersi messe male. Si è inoltrato nella foresta, dove non c’era campo, e quando ne è riemerso la guida gli ha detto di aver ricevuto un messaggio dalla moglie, in Sud Africa: Trump aveva vinto.
«Eravamo disgustati, ma ci sembrava anche una cosa irreale. Quelli che come me hanno vissuto a New York per decenni conoscono da sempre Trump come il giovane stronzo: la sua vittoria era inconcepibile».
Franzen ha cominciato a ricevere sms dalla California, in particolare da Kathy Chetkovich, scrittrice e sua compagna da tanti anni che gli mandava foto di sé e degli amici che guardavano la tv e bevevano forte. Tra le foto, una in cui Kathy è sdraiata in posizione fetale e cerca di proteggersi la testa dalle notizie della tv.
Nei giorni seguenti, Franzen si è reso conto che doveva concludere in anticipo il viaggio di piacere. «Di solito a Kathy vanno bene i miei lunghi viaggi per vedere gli uccelli, ma stavolta mi rendevo conto che aveva bisogno di me per capire insieme che cosa stava succedendo». Voleva qualcuno con cui parlare, che la rassicurasse: «Io so essere una persona rassicurante. Guardo le cose molto dall’alto e ho una visione molto tragica del mondo…».
In un primo momento, Franzen ha pensato che l’elezione fosse stata rubata. «Un broglio enorme… macchine elettorali hackerate dai russi, magari». Poi c’è stata una seconda fase: Hillary era un candidato con molti limiti e che ha fatto una brutta campagna elettorale. A poco a poco l’elezione cominciava a sembrargli legittima. Stava attraversando i vari stadi del dolore: il diniego puro, poi la rabbia, poi la negoziazione… Intanto la sinistra era frenetica, cercava di capire come fare per impedire al collegio elettorale di eleggere formalmente Trump a dicembre e la sua compagna era tra i tanti che ogni giorno spedivano a Trump quelle cartoline che gli americani impegnati usano in massa per far sentire le proprie opinioni.

Libertà di parola: di che stiamo parlando?
«A un certo punto ho cominciato a sentirmi scontento della sinistra», in particolare per quelle associazioni che avevano organizzato un giorno di eventi per denunciare la soppressione della libertà di parola da parte di Trump. «Io non mi raccapezzavo: ma di che stavano parlando? Era il 13 gennaio e Trump non era ancora diventato presidente. Il problema poi non era la soppressione della libertà di parola, semmai l’eccesso di parole. Parole dette male. Parole sui social media. Bugie. I tweet di Trump. Nella sinistra c’era questa certezza di stare automaticamente dalla parte del giusto. Kathy ha detto che tra gli amici c’è stato un tentativo di autoesame, di capirsi come sinistra, ma quando sono tornato dal Ghana, il 24 novembre, quel processo era già terminato».
Per Franzen, il problema della sua parte politica, la sinistra, alle cui passioni, slanci e contraddizioni ha dedicato gran parte dei temi degli ultimi due romanzi, Libertà e Purity, è l’alto senso di sé contrapposto a una credulità pericolosa rispetto al mondo creato dai social media e dalla Silicon Valley. Un esempio: una cosa che non gli è andata giù del movimento Occupy, che è uno dei mondi raccontati in Purity, sono «tutti questi anarchici che comunicavano usando Twitter: anarchici completamente cooptati da questo sistema di comunicazione, da questo gigante incubo corporate che è la Silicon Valley: pensavano che fosse una forza del bene. Alcuni di noi non la pensavano così. Ora, Trump si è rivelato un maestro di Twitter e ne ha rivelato la vera natura: è un medium eccellente per creare odio, stupidità, intolleranza e isolamento».

Pip e gli hacker
I tre mondi raccontati da Purity sono quello di Occupy, visto da una cellula californiana; il giornalismo investigativo vecchio stile raccontato attraverso le vicende di due giornalisti del Denver Post; e un’organizzazione, The Sunshine Project, ispirata a Wikileaks. Trump non c’era ancora, ma la sinistra radicale, le inchieste giornalistiche contrapposte alle fake news e l’influenza politica degli hacker sono stati tre elementi del suo successo. Creando la figura di Andreas Wolf, seduttore egomaniaco e fondatore del Sunshine Project, Franzen ha cercato di problematizzare la questione della democrazia radicale. Leggendolo lo trovai interessante, ma in quel momento non mi resi conto della potenza del confronto tra giornalismo investigativo e hacker. Oggi quel confronto si è rivelato molto attuale, considerando anche il modo in cui Trump ha sfruttato le email di Clinton pubblicate da Wikileaks e i sospetti di un intervento degli hacker russi sui server di Hillary e sui social media americani.
«Durante la mia crisi di romanziere negli anni Novanta ho riflettuto molto sul problema dei romanzi che rappresentano una realtà sociale», dice Franzen. Lo interrompo per dirgli che nel mio articolo su Purity scritto per IL avanzavo l’idea che lui avesse scritto Le correzioni solo per chiedere l’attenzione del lettore letterario, che aveva accolto con entusiasmo la sua saga familiare dopo aver invece snobbato le sue storie sociali, i primi due romanzi. Ottenuta l’attenzione, gli ho detto, sei tornato a scrivere dei romanzi sociali.
«Be’, è una teoria interessante», risponde seriamente, «la rispetto e non mi metterò a fare obiezioni». Fa una pausa. «Ma è vero, e confermo che con Purity sono tornato indietro deliberatamente, provando a rifare i miei due primi romanzi, che ambivano a essere romanzi sociali. Ho pensato che ormai ero in grado, forse, di farli meglio, perché conoscevo l’importanza di costruire il personaggio, il suo mondo interiore».
Prima di scrivere Libertà e Purity, Franzen aveva quasi rinunciato all’idea di raccontare la società: «Il lavoro è lento e stai sempre a dare la caccia a cose già successe. Così per un po’ ho lasciato perdere. Poi invece ho cominciato a pensare che il lavoro del romanziere fosse proprio dedicarsi alle cose a cui la gente non stava facendo attenzione. Se sei fortunato, come mi è accaduto con Purity, salta fuori che hai fatto attenzione a cose che solo poi sono diventate centrali. Una cosa che dà una tetra soddisfazione».
Quanto ad Andreas Wolf, e a chi considera internet una soluzione, Franzen dice: «Io vengo da una famiglia di svedesi americani scorbutici, e sospetto del potere, sempre. E nel caso della Silicon Valley io sospettavo del loro potere. I visionari stavano dicendo cose tanto stupide: abbiamo creato Facebook per un mucchio di riccastri al college ed è diventato una ficata, allora non sarebbe bello se tutto il mondo fosse su Facebook? Sarebbe fichissimo e renderebbe il mondo un posto migliore e tutti ci capiremmo e potremmo vedere che cosa pensiamo e l’intolleranza finirebbe e avremmo la pace nel mondo. Lo pensavano letteralmente. Io sono molto sensibile a questo tipo di stronzate. Sono arrabbiato da vent’anni, da quando i visionari hanno cominciato a parlarne. E ho trovato il modo di infilare queste cose nel mio romanzo. Ed è una soddisfazione, ora che la gente comincia a pensare che forse quella tecnologia non sta rendendo il mondo un posto migliore».
Politics
Gli domando, per essere chiari, se con internet possono vincere solo i Trump e se una vittoria ottenuta con le stesse armi dai suoi avversari sarà comunque una vittoria malvagia. Mi risponde che sarebbe intrinsecamente malvagia, perché quel tipo di vittoria va contro ciò che deve fare la politica in una democrazia rappresentativa: si deve credere nel potere della politica. Se si hanno degli obiettivi politici, dice, si deve poter fare di più che boicottare Uber. Non ci si può muovere solo come consumatori piccati: la politica è una cosa diversa.
«Il modo in cui funziona la politica è che i rappresentanti si incontrano, hanno visioni opposte di una stessa cosa e nessuno ottiene esattamente quel che vuole. Si fanno compromessi, e ognuno ottiene qualcosa: perché comprendiamo di essere tutti sulla stessa barca. La nazione è una specie di comunità, e la comunità deve avere dei meccanismi ragionevoli per affrontare i disaccordi». Gli dico che secondo me il problema del giovane progressista liberal medio è che, come Trump, non pensa che esistano interessi in conflitto ma solo il bene da una parte e il male dall’altra. «Esatto – risponde – ed è per questo che trovo la sinistra quasi altrettanto pericolosa, in questa fase. C’è questa intolleranza radicale, il diniego esistenziale della stessa possibilità che la parte avversa abbia alcunché di valido. Non so se possiamo tornare indietro. Ma l’idea di usare gli strumenti di Trump per battere Trump mi fa inorridire».
Così abbiamo un mondo diviso in tanti mondi dove ciascuno può vedere il mondo secondo il proprio gusto e basta, che sia Trump o il liberal, e così la politica non esiste e il paesaggio ideologico si polarizza.
«Il sogno della Silicon Valley è democratico radicale: creati il mondo in cui vuoi vivere e se i fatti non ti piacciono createne di nuovi». Questo riguarda anche chi si oppone alla polarizzazione: a Franzen, per esempio, guardare i playoff di football quest’anno ha presentato un problema: «Sono stato costretto a pensare a quante persone in quegli stadi hanno votato per Trump. Ho sempre saputo che giocatori e allenatori sono spesso conservatori. Ma il football era comunque un modo per non pensare alla politica per tre ore, il pomeriggio, e godersi la partita. Non è più possibile. Riesco solo a pensare alla politica, mentre mi guardo una stupida partita di football». Perché, dice, la polarizzazione del dibattito causata o quantomeno accelerata dai social media, fa sì che anche un uomo lontano dai social media cominci a vedere il mondo come un luogo diviso in due fazioni, dove la dialettica è impossibile.
Trump, «un uomo terribile», è il prodotto perfetto di quest’era senza dialettica, come si capisce confrontandolo con il precedente presidente repubblicano: «Ok, George W. Bush non era il massimo, ma almeno era stato governatore del Texas prima di diventare presidente! E sai che c’è? Bush è una persona carina. Non è un intollerante estremista! I messicani gli stanno simpatici! Ora invece quasi metà del Paese ha votato un uomo completamente inadatto al compito, uno che è un po’ un mostro, e che mente ogni volta che apre bocca. Ed è ovvio per tutti coloro che hanno mezzo cervello funzionante. Senza Twitter non credo che sarebbe presidente. Mi sembra un’accelerazione molto forte del processo di polarizzazione, e credo sia stato favorito dalla tecnologia».

Voglio l’ignoranza
È il momento di prendere la tangente e parlare di Sean Spicer, il portavoce di Trump, l’uomo che ha detto che alla cerimonia d’insediamento di Trump c’era una folla record. Le sue conferenze stampa sono già un mito americano, anche nella caricatura di Melissa McCarthy al Saturday Night Live. Domando a Franzen se segue quei saggi di post truth con cui il disarmante e vulnerabile Spicer dialoga con i reporter sbigottiti dalle sue bugie.
«Le leggo ma non le guardo: non riesco a tollerare la vista di questa gente che parla in real time. È un mondo nero. E i fatti sono molto spiacevoli su molti fronti». L’automazione crescente fa perdere lavoro alla gente; la ricchezza è concentrata in poche mani; c’è l’incubo del cambiamento climatico. E il vero problema è che le persone non si vedono come cittadini, ma come consumatori: i primi partecipano alla società costruttivamente, i secondi si limitano a pretendere: «Il consumatore ti dirà: non mi piacciono i fatti, voglio l’ignoranza. E così Spicer è un sollievo per i consumatori. Perché nega la realtà».

Automazione


Chiudiamo su una visione apocalittica di badanti robot nelle case di riposo: «Si dice che i badanti robot delle case di riposo lavorano meglio degli umani, gli anziani clienti li preferiscono agli esseri umani». Non mi aspettavo che la Silicon Valley fosse così presente nella nostra conversazione. D’altra parte la logica sembra stringente: l’automazione diminuisce i posti di lavoro, il popolo si sente insicuro, l’algoritmo che filtra le informazioni sulla base delle preferenze dell’utente spinge le fake news e Trump cavalca la frustrazione. Ma che farà la Silicon Valley, arriverà da lì la soluzione anti-populista?
«Non so che cosa faranno – risponde Franzen – Secondo il New Yorker, molti di loro stanno comprando dei ranch nell’Isola del Sud della Nuova Zelanda, per andarci in elicottero quando il mondo andrà in pezzi. È la grande menzogna della Silicon Valley: dicono che stanno rendendo il mondo un posto migliore, che danno potere alla gente normale», quando invece stanno togliendo il lavoro e prendendosi tutti i soldi.
Franzen vive a Sud di Palo Alto e ha per vicini di casa gente che lavora nella valle: persone non molto in alto che amano guardare Silicon Valley, la serie tv satirica, «la mia preferita». I vicini sono felici di avere un lavoro, «ma nell’Isola del Sud della Nuova Zelanda non c’è spazio per tutti quelli che si arricchiscono con l’automazione. Prima o poi sarà inevitabile che la loro ricchezza andrà condivisa e che la gente prenderà trentamila dollari l’anno per far niente». Sarebbe bello se lo facessero. Succederà?, gli chiedo. «Forse no, perché dovrebbero prima ammettere di essere loro quelli che tolgono il lavoro alla gente». Gli dico che trovo strano che nessuno stia educando la gente a una vita senza lavoro, e lui: «È difficile essere ottimisti sul futuro. Ecco».

Il vuoto della politica

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CHI HA TRASFORMATO L’APPELLO AL POPOLO IN UNA MOZIONE DI SFIDUCIA ALLA DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA
Intervista al prof. Sabino Cassese – il foglio 21 marzo 2017
Professor Cassese, parliamo del sistema politico italiano. A che punto siamo, secondo lei?
E’ troppo dire all’anno zero? Ci dobbiamo chiedere dove sia finita la politica, quella fatta di idealità, ideologie, programmi, indirizzi. Il dibattito tra le parti si è elementarizzato, si fa per slogan. Ma questi non riguardano tanto le cose da fare, le politiche, quanto le condotte e lo stile delle persone. L’agenda e le “piattaforme” – come dicono gli inglesi – finiscono per essere dettate dalle procure invece che dalla classe dirigente del paese. Lei ha capito perché si è verificata una “itio in partes” nel Pd? Solo perché non piace lo stile decisionista di Renzi? O perché quest’ultimo non ha fatto qualche telefonata?
Dove ha origine questo vuoto?
Andiamo per ordine. Cominciamo dall’elettorato. Questo è divenuto “disponibile”, fa contratti di breve durata con i partiti, preferisce non dare appoggi pluriennali. A questo orientamento corrispondono i “cambiamenti di casacca” in Parlamento. I partiti erano i canali di trasmissione della domanda politica dalla società civile allo Stato. Erano le scuole dove si formava la classe politica e si selezionavano i governanti. Ora sono diventati movimenti, reti che cavalcano o formano gli umori della società civile, senza guidarla verso obiettivi di medio o lungo termine. Una volta la base dei partiti era amplissima: i tre maggiori partiti nell’immediato secondo Dopoguerra avevano circa 10 milioni di iscritti. Molti di questi si riunivano nelle sedi locali per discutere. Ora gli iscritti, la base dei partiti esistenti, si è rarefatta (sembra che il Pd non abbia più di 400 mila iscritti). Non c’è lavoro collettivo. Le persone sono “volti nella folla”, per ripetere il titolo di un famoso libro americano di sociologia. La rete permette di comunicare, ma è la rivincita dell’individuo. Quello che una volta era un discorso da bar, ora può avere una diffusione generale. La radio e i giornali aprono “sportelli di dialogo” con ascoltatori e lettori, dando spazio alla voce dell’individuo, non al dibattito collettivo. Tutti si fanno sentire, nessuno discute, mette a confronto le proprie idee, cerca di convincere ed è pronto a farsi convincere.
Da dove ha origine questo “sfarinamento”?
Dai partiti, che si sono sfaldati.
Dopo il1992, quel che restava dei partiti ha visto un numero impressionante di cambiamenti di denominazione. Oggi le maggiori forze politiche rifiutano anche di usare il termine partito nella loro denominazione. All’interno, manca democrazia, spesso l’opposizione è nella stessa maggioranza. I partiti debbono essere strumento della democrazia della Repubblica, ma non sono essi stessi democratici al loro interno. Pensi alla incertezza sulle regole interne di partito: Grillo che cambia le carte in tavola sulla candidatura genovese o il dibattito su quando tenere il congresso e le primarie nel Pd. Come può esserci democrazia interna se le poche regole interne sono “malleabili”?
Sì, ma i partiti hanno la loro rappresentanza in Parlamento.
Mette il dito su un’altra piaga. Perché oggi è questa rappresentanza che viene posta in dubbio. La rappresentanza dovrebbe essere la rappresentazione del paese, che però rifiuta di farsi rappresentare, o ha dubbi su chi lo rappresenta. E non è fenomeno soltanto italiano, anzi è scoppiato nel Regno Unito, come ha osservato acutamente Gina Miller, la capofila del ricorso alla Corte suprema britannica sulla Brexit: “Il Regno Unito non è una democrazia diretta. Quando alzi le aspettative delle persone, chiamandole al voto in questo modo [il referendum sull’uscita dall’Unione europea], alimenti la sfiducia nel sistema politico” (Corriere della Sera del 14 marzo scorso). Insomma, l’appello al popolo funziona come mozione di sfiducia nella democrazia rappresentativa, rompe l’equilibrio governanti-governati. Nel desiderio di avere un plebiscito sul suo nome, Renzi, concentrando tanta attenzione sul referendum costituzionale, non si è reso conto di aver messo una trave sulla strada della democrazia rappresentativa. Questo ha conseguenze sul lavoro parlamentare.
Quali?
Distacco Parlamento-governo. Decine di proposte parlamentari giacciono nelle commissioni, mentre i disegni di legge del governo sono votati con maxi-emendamenti e mozioni di fiducia. Non ci sono inchieste, “white papers”, “green papers”, che analizzano problemi, enunciano linee politiche, preparano l’opinione pubblica. Il Parlamento ha rinunciato a uno dei suoi compiti fondamentali, quello di controllo del governo e della Pubblica amministrazione. Se ci sono dibattiti, riguardano l’immunità del parlamentare, il vitalizio (o quello che di esso rimane), comportamenti, stili, umori di bottega, non problemi, politiche, strumenti di azione. Un piccolo esempio di questa crisi della politica. Il Pd ha tenuto una assemblea a Torino. Pare che vi abbiano lavorato una decina di commissioni tematiche. Quanto di questo lavoro è divenuto parte del discorso dei leaders, penetrando nell’opinione pubblica? L’agenda delle ultime settimane è stata dettata non dalla politica, ma dal desiderio di rivincita di un sindacato, la Cgil, che si è sentito escluso da tre anni di governo, dopo essere stato abituato a decenni di cogestione, e ha tentato l’appello al popolo. Così la politica si svolge su due piani.

 

E questo non è tutto: c’è ancora il governo.
Non solo il governo, ma anche la magistratura. Cominciamo dal primo. Ci avviamo su una strada chiarissima, riassunta dal titolo di un articolo di D’Alimonte: “Ingovernabilità assicurata” (Il Sole 24 Ore, 24 febbraio 2017). Sul più breve periodo, da qui alle elezioni, non ci si può aspettare molto, anche se siamo di fronte a un obbligo comunitario, quello di una manovra di qualche miliardo. Finora il governo ha fatto marce indietro, limato, attenuato. La composizione del governo attuale – si disse – è fotocopia di quello precedente. Non lo sono gli indirizzi. Pensi soltanto alla scuola, ai “precari storici”, ai “voucher”. O alle nomine nel “parastato”, dove, invece di assicurare continuità, si cambiano gli amministratori senza che venga spiegata la ragione che ha guidato nelle scelte dei vertici. Resta da parlare della magistratura. Una volta il solo parlarne come parte del sistema politico avrebbe stupito. Ora la magistratura è divenuta protagonista del sistema politico. Essa è troppo e troppo poco presente. Troppo, per la corsa delle procure a far la parte di Robin Hood, a mettere in piazza immoralità, reati, disfunzioni. Troppo poco perché spesso si ferma all’accusa, sottraendo la giustizia al giudice naturale, che è il tribunale, e portandola nelle mani dell’opinione pubblica, in quel meccanismo che si chiama “naming and shaming”. Si potrebbe dire: i magistrati (l’accusa) contro i magistrati (le corti). Senza contare che non esiste un obbligo di decidere entro termini brevi e certi.
Nessuna speranza?


Potrei risponderle con Hegel: ho fiducia nell’“immane potenza del negativo”. Ma bisogna credere anche nella dialetti

Un commento critico sul Libro Bianco dell’UE

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LA VISIONE CONFUSA DEL FUTURO DELL’EUROPA

Sergio Fabbrini – 5 Marzo 2017 – Il Sole 24 Ore domenica
Il Libro Bianco sul futuro dell’Europa, presentato dal presidente della Commissione Jean-Claude Juncker al Parlamento europeo mercoledì scorso, fornisce un contributo modesto e confuso alla discussione che dovrebbe condurre alla Dichiarazione di Roma del prossimo 25 marzo. Modesto, perché non vi è alcuna seria riflessione sulle cause della crisi europea, crisi che ha addirittura condotto alla secessione di un grande Paese (il Regno Unito) dall’Unione europea (Ue). Confuso, perché si delineano (addirittura) cinque scenari per il futuro dell’Ue che sembrano emersi da un seminario universitario, più che da un riflessione politica. Quel Libro Bianco dice più cose sulla crisi in cui versa la Commissione che sulla crisi in cui si trova l’Ue. Nonostante la Commissione Juncker continui ad essere interpretata come il governo parlamentare dell’Ue, essa é divenuta in realtà un ibrido istituzionale. Cioè un organismo qualche volta parlamentare, spesso intergovernativo e sempre tecnocratico. Una natura ibrida che è causa della sua confusione. Tant’è che oggi, contrariamente al passato, le proposte più chiare sul futuro dell’Ue provengono dal governatore della Banca centrale europea, Mario Draghi, da alcuni leader del Parlamento europeo (come Mercedes Bresso, Elmar Brok, Guy Verhofstadt), da alcuni capi di governo nazionali e addirittura dallo stesso presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk. Per questo motivo, è bene che l’Italia esca dal suo incantesimo per la Commissione, facendo sentire la propria voce (già a partire dalla riunione parigina di domani tra i leader dei quattro grandi Paesi dell’Eurozona) per orientare la discussione in una direzione meno confusa.
Il Libro Bianco della Commissione è confuso perché è senza un’anima politica. Discute del futuro dell’Ue come se quest’ultima fosse un’organizzazione internazionale. Il suo approccio è ispirato dal funzionalismo utilizzato da David Mitrany (uno studioso romeno che ha vissuto tra il 1888 e il 1975) per concettualizzare lo sviluppo di cooperazioni tra organizzazioni sul piano internazionale.
Nel Libro Bianco si sostiene, infatti, che «la forma seguirà la funzione». Un’affermazione incomprensibile nel caso dell’Ue. Se quest’ultima è e vuole essere un’organizzazione democratica, allora la forma delle sue istituzioni non potrà essere la conseguenza delle funzioni che assolve. Le sue istituzioni, infatti, debbono garantire la partecipazione dei cittadini alle decisioni sulle politiche (o ‘funzioni’) che li riguardano. A meno che non si considerino i cittadini solamente nella loro veste di consumatori. Come può la Commissione, che dovrebbe promuovere la politica europea, trascurare il problema della legittimazione delle politiche europee? Priva di un senso della democrazia, è inevitabile che gli scenari da essa delineati risultino poi incomprensibili.
Consideriamoli, cominciando dai due scenari estremi, quello di “andare avanti giorno per giorno” e quello di “fare molto di più insieme”. Come si fa ad ipotizzare la politica del “business as usual” quando l’Ue, di fronte ai cambiamenti interni ed esterni, dovrà prendere decisioni che incideranno addirittura sul suo assetto istituzionale? Basti pensare che si stanno aprendo le negoziazioni con il Regno Unito, negoziazioni che obbligheranno a rivedere la distribuzione dei seggi al Parlamento europeo tra i vari stati membri oppure a ridefinire i contributi nazionali al finanziamento del bilancio comunitario. Nello stesso tempo, di fronte alla rinascita dei nazionalismi, è sorprendente che venga riproposta l’idea che si debba fare tutto insieme ovvero (testuale) che «la cooperazione tra gli stati membri debba andare molto più avanti in tutti gli ambiti». Si noti, si parla di «tutti gli ambiti», come se l’integrazione fosse finalizzata a costruire uno stato europeo in sostituzione degli stati nazionali. Un’ideologia che fornisce alibi ai suoi avversari. Tra questi due scenari estremi, la Commissione individua altri tre scenari, anch’essi poco giustificabili. Uno è quello di “ritornare al mercato unico”, cancellando di colpo ciò che è avvenuto dopo Maastricht (come la formazione di un’Eurozona, di una Banca centrale europea, di una politica comune nella sicurezza e negli affari esteri). Sarà mai possibile? Non pare proprio. L’altro è quello di concedere “a chi vuole di più di fare di più” (dando vita a coalizioni tra paesi volenterosi per perseguire specifici programmi). Ma quali sono le conseguenze di tali molteplici collaborazioni differenziate sul piano della legittimazione democratica? Non se ne parla. L’altro infine è quello “di fare di meno ma con più efficienza”, come se quest’ultima fosse inversamente proporzionale al numero di cose che si fanno. Che strana idea. Insomma, gli scenari proposti dalla Commissione sembrano essere un’insalata russa. Non c’é un quadro di riferimento né un’idea delle priorità da seguire. Se la Commissione fosse davvero un governo parlamentare, allora staremo freschi.
La confusione della Commissione è dovuta alla doppia gabbia mentale che la tiene prigioniera (ma non solo lei). La prima gabbia è costituita dall’intoccabilità del principio dell’Unione a 27. Siccome questo principio è irrealistico, la sua difesa irrigidisce il funzionamento dell’Ue. Tale irrigidimento finisce per giustificare le pressioni a differenziare le politiche, dando vita all’Europa per progetti. Più l’Ue si differenzia nei progetti, più si sgretola il quadro comune, rendendo impossibile, ai cittadini, di capire chi fa che cosa.
Poiché, però, le politiche differenziate incidono sulla vita dei cittadini, è inevitabile che l’insoddisfazione di questi ultimi verso gli esiti di quelle politiche si scarichi a livello nazionale, non avendo una possibilità di entrata nel processo decisionale europeo. Così, la gabbia dell’Unione a 27 finisce per lavorare a favore del sovranismo nazionalista, con i sui effetti disintegrativi. Complimenti. Per neutralizzare quegli effetti, invece, occorrerebbe creare contesti istituzionali distinti. Una distinzione basata sui fatti e non sulle teorie. Nei fatti, la distinzione principale è tra chi vuole partecipare solamente al mercato unico e chi partecipa invece anche ai programmi integrativi più avanzati (come quello dell’area dell’euro con i relativi trattati intergovernativi e quello dell’area di Schengen). Se si considerano i Paesi che partecipano a questi due programmi (19 nel primo, 22 nel secondo), si vedrà che vi è però un gruppo di 18 Paesi che sono presenti in entrambi. Questo gruppo è già il nucleo di un’unione politica, dotata di un embrione di istituzioni distinte (come l’Euro Summit e l’Eurogruppo). Invece di delineare scenari confusi, occorrerebbe costruire su ciò che c’è già, dando a quel nucleo un assetto istituzionale compiuto, così da consentire ai cittadini di influenzare le decisioni che vengono prese. Perché, in democrazia, le politiche si legittimano non solo per i loro esiti, ma anche per come sono decise (una preoccupazione estranea invece alla tecnocrazia). La seconda gabbia mentale che tiene prigioniera la Commissione è costituita dalla voluta vaghezza del progetto d’integrazione. Invece di stabilire ciò che l’Ue deve fare, la Commissione discute di scenari futuri come se non ci fossero limiti o restrizioni alle competenze che un’unione può assumere. La Commissione ritiene che il processo di integrazione abbia un esito sempre aperto, sempre in evoluzione, sempre indefinito. Ma non deve essere così, perché ciò crea una tensione strutturale tra l’Unione e gli Stati nazionali. Occorre invece rovesciare la prospettiva, stabilendo le basilari politiche che deve fare l’Unione, lasciando tutte le altre agli Stati membri. Il futuro dell’Europa risiede nel creare un’unione sovrana (in alcune politiche) diStati sovrani (in altre politiche). È qui che la voce dell’Italia dovrebbe farsi sentire, proponendo una nuova prospettiva e nuovi contenuti per il progetto unionista.

Il libro bianco UE

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LA VISIONE CONFUSA DEL FUTURO DELL’EUROPA

Sergio Fabbrini – 5 Marzo 2017 – Il Sole 24 Ore domenicaLIBRO BIANCO UE
Il Libro Bianco sul futuro dell’Europa, presentato dal presidente della Commissione Jean-Claude Juncker al Parlamento europeo mercoledì scorso, fornisce un contributo modesto e confuso alla discussione che dovrebbe condurre alla Dichiarazione di Roma del prossimo 25 marzo. Modesto, perché non vi è alcuna seria riflessione sulle cause della crisi europea, crisi che ha addirittura condotto alla secessione di un grande Paese (il Regno Unito) dall’Unione europea (Ue). Confuso, perché si delineano (addirittura) cinque scenari per il futuro dell’Ue che sembrano emersi da un seminario universitario, più che da un riflessione politica. Quel Libro Bianco dice più cose sulla crisi in cui versa la Commissione che sulla crisi in cui si trova l’Ue. Nonostante la Commissione Juncker continui ad essere interpretata come il governo parlamentare dell’Ue, essa é divenuta in realtà un ibrido istituzionale. Cioè un organismo qualche volta parlamentare, spesso intergovernativo e sempre tecnocratico. Una natura ibrida che è causa della sua confusione. Tant’è che oggi, contrariamente al passato, le proposte più chiare sul futuro dell’Ue provengono dal governatore della Banca centrale europea, Mario Draghi, da alcuni leader del Parlamento europeo (come Mercedes Bresso, Elmar Brok, Guy Verhofstadt), da alcuni capi di governo nazionali e addirittura dallo stesso presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk. Per questo motivo, è bene che l’Italia esca dal suo incantesimo per la Commissione, facendo sentire la propria voce (già a partire dalla riunione parigina di domani tra i leader dei quattro grandi Paesi dell’Eurozona) per orientare la discussione in una direzione meno confusa.
Il Libro Bianco della Commissione è confuso perché è senza un’anima politica. Discute del futuro dell’Ue come se quest’ultima fosse un’organizzazione internazionale. Il suo approccio è ispirato dal funzionalismo utilizzato da David Mitrany (uno studioso romeno che ha vissuto tra il 1888 e il 1975) per concettualizzare lo sviluppo di cooperazioni tra organizzazioni sul piano internazionale.
Nel Libro Bianco si sostiene, infatti, che «la forma seguirà la funzione». Un’affermazione incomprensibile nel caso dell’Ue. Se quest’ultima è e vuole essere un’organizzazione democratica, allora la forma delle sue istituzioni non potrà essere la conseguenze delle funzioni che assolve. Le sue istituzioni, infatti, debbono garantire la partecipazione dei cittadini alle decisioni sulle politiche (o ‘funzioni’) che li riguardano. A meno che non si considerino i cittadini solamente nella loro veste di consumatori. Come può la Commissione, che dovrebbe promuovere la politica europea, trascurare il problema della legittimazione delle politiche europee? Priva di un senso della democrazia, è inevitabile che gli scenari da essa delineati risultino poi incomprensibili.
Consideriamoli, cominciando dai due scenari estremi, quello di “andare avanti giorno per giorno” e quello di “fare molto di più insieme”. Come si fa ad ipotizzare la politica del “business as usual” quando l’Ue, di fronte ai cambiamenti interni ed esterni, dovrà prendere decisioni che incideranno addirittura sul suo assetto istituzionale? Basti pensare che si stanno aprendo le negoziazioni con il Regno Unito, negoziazioni che obbligheranno a rivedere la distribuzione dei seggi al Parlamento europeo tra i vari stati membri oppure a ridefinire i contributi nazionali al finanziamento del bilancio comunitario. Nello stesso tempo, di fronte alla rinascita dei nazionalismi, è sorprendente che venga riproposta l’idea che si debba fare tutto insieme ovvero (testuale) che «la cooperazione tra gli stati membri debba andare molto più avanti in tutti gli ambiti». Si noti, si parla di «tutti gli ambiti», come se l’integrazione fosse finalizzata a costruire uno stato europeo in sostituzione degli stati nazionali. Un’ideologia che fornisce alibi ai suoi avversari. Tra questi due scenari estremi, la Commissione individua altri tre scenari, anch’essi poco giustificabili. Uno è quello di “ritornare al mercato unico”, cancellando di colpo ciò che è avvenuto dopo Maastricht (come la formazione di un’Eurozona, di una Banca centrale europea, di una politica comune nella sicurezza e negli affari esteri). Sarà mai possibile? Non pare proprio. L’altro è quello di concedere “a chi vuole di più di fare di più” (dando vita a coalizioni tra paesi volenterosi per perseguire specifici programmi). Ma quali sono le conseguenze di tali molteplici collaborazioni differenziate sul piano della legittimazione democratica? Non se ne parla. L’altro infine è quello “di fare di meno ma con più efficienza”, come se quest’ultima fosse inversamente proporzionale al numero di cose che si fanno. Che strana idea. Insomma, gli scenari proposti dalla Commissione sembrano essere un’insalata russa. Non c’é un quadro di riferimento né un’idea delle priorità da seguire. Se la Commissione fosse davvero un governo parlamentare, allora staremo freschi.
La confusione della Commissione è dovuta alla doppia gabbia mentale che la tiene prigioniera (ma non solo lei). La prima gabbia è costituita dall’intoccabilità del principio dell’Unione a 27. Siccome questo principio è irrealistico, la sua difesa irrigidisce il funzionamento dell’Ue. Tale irrigidimento finisce per giustificare le pressioni a differenziare le politiche, dando vita all’Europa per progetti. Più l’Ue si differenzia nei progetti, più si sgretola il quadro comune, rendendo impossibile, ai cittadini, di capire chi fa che cosa.
Poiché, però, le politiche differenziate incidono sulla vita dei cittadini, è inevitabile che l’insoddisfazione di questi ultimi verso gli esiti di quelle politiche si scarichi a livello nazionale, non avendo una possibilità di entrata nel processo decisionale europeo. Così, la gabbia dell’Unione a 27 finisce per lavorare a favore del sovranismo nazionalista, con i sui effetti disintegrativi. Complimenti. Per neutralizzare quegli effetti, invece, occorrerebbe creare contesti istituzionali distinti. Una distinzione basata sui fatti e non sulle teorie. Nei fatti, la distinzione principale è tra chi vuole partecipare solamente al mercato unico e chi partecipa invece anche ai programmi integrativi più avanzati (come quello dell’area dell’euro con i relativi trattati intergovernativi e quello dell’area di Schengen). Se si considerano i Paesi che partecipano a questi due programmi (19 nel primo, 22 nel secondo), si vedrà che vi è però un gruppo di 18 Paesi che sono presenti in entrambi. Questo gruppo è già il nucleo di un’unione politica, dotata di un embrione di istituzioni distinte (come l’Euro Summit e l’Eurogruppo). Invece di delineare scenari confusi, occorrerebbe costruire su ciò che c’è già, dando a quel nucleo un assetto istituzionale compiuto, così da consentire ai cittadini di influenzare le decisioni che vengono prese. Perché, in democrazia, le politiche si legittimano non solo per i loro esiti, ma anche per come sono decise (una preoccupazione estranea invece alla tecnocrazia). La seconda gabbia mentale che tiene prigioniera la Commissione è costituita dalla voluta vaghezza del progetto d’integrazione. Invece di stabilire ciò che l’Ue deve fare, la Commissione discute di scenari futuri come se non ci fossero limiti o restrizioni alle competenze che un’unione può assumere. La Commissione ritiene che il processo di integrazione abbia un esito sempre aperto, sempre in evoluzione, sempre indefinito. Ma non deve essere così, perché ciò crea una tensione strutturale tra l’Unione e gli Stati nazionali. Occorre invece rovesciare la prospettiva, stabilendo le basilari politiche che deve fare l’Unione, lasciando tutte le altre agli Stati membri. Il futuro dell’Europa risiede nel creare un’unione sovrana (in alcune politiche) diStati sovrani (in altre politiche). È qui che la voce dell’Italia dovrebbe farsi sentire, proponendo una nuova prospettiva e nuovi contenuti per il progetto unionista.

Post-verità. Un pericolo per le democrazie

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Francis Fukuyama5 Marzo 2017 –  Il Sole 24 Ore domenica

FAKENEWS
Uno degli sviluppi più sorprendenti degli eventi politici così fuori dal comune che si sono verificati appena l’anno scorso è stata l’emersione di un mondo «post-fattuale», in cui quasi tutte le fonti di informazione autorevoli vengono messe in discussione e contestate con notizie contrarie di dubbia qualità e provenienza.
Negli anni 90, la comparsa di internet e del web venne salutata come un momento di liberazione e una manna dal cielo per la democrazia mondiale.
L’informazione costituisce una forma di potere e il fatto che stava diventando sempre più economica e accessibile avrebbe consentito all’opinione pubblica democratica di partecipare in contesti da cui fino a quel momento era stata esclusa. Nei primi anni 2000, sembrava che lo sviluppo dei social media avesse accelerato questa tendenza, rendendo possibili le mobilitazioni di massa che hanno alimentato varie «rivoluzioni colorate» nel mondo, dall’Ucraina alla Birmania e all’Egitto. In un mondo di comunicazione peer-to-peer, i vecchi guardiani dell’informazione, in gran parte identificati con Stati autoritari e repressivi, ora potevano essere bypassati.
C’era un fondo di verità in questo ottimismo, ma un’altra faccia della medaglia, più oscura, stava prendendo forma. Quelle vecchie forze autoritarie stavano reagendo in maniera dialettica, imparando a controllare Internet, come nel caso della Cina con le sue decine di migliaia di censori, o reclutando legioni di troll e sguinzagliando bot in grado di inondare i social media con notizie false, come nel caso della Russia. Queste tendenze sono confluite in maniera lampante nel corso del 2016, confondendo i confini fra la politica estera e quella interna.
Il principale manipolatore dei social media è la Russia. Il governo di Mosca ha diramato falsità eclatanti, come la «notizia» che i nazionalisti ucraini crocifiggevano i bambini piccoli, o che le forze governative ucraine avevano abbattuto il volo 17 della Malaysia Airlines nel 2014. Queste stesse fonti hanno contribuito al dibattito sul referendum per l’indipendenza scozzese, quello sulla Brexit e quello sul referendum olandese per l’accordo di associazione fra Ue e Ucraina, amplificando ogni notizia dubbia che poteva indebolire le forze pro-Ue.
Il fatto che le potenze autoritarie usassero notizie false come arma era già di per sé abbastanza grave, ma questa pratica ha messo radici profondissime durante la campagna elettorale degli Stati Uniti. Tutti i politici mentono, o a voler essere più indulgenti rigirano la verità a proprio vantaggio; ma Donald Trump ha portato questa prassi a vertici inauditi. Ha cominciato qualche anno fa promuovendo il birtherism, la teoria che sosteneva che il presidente Barack Obama non era nato negli Stati Uniti; tesi che Trump ha continuato a propagare anche dopo che Obama aveva mostrato il suo certificato di nascita.
Negli ultimi dibattiti presidenziali dello scorso anno, Trump si ostinava a dire di non aver mai appoggiato la guerra in Iraq e di non aver mai detto che i cambiamenti climatici erano una bufala. Dopo l’elezione, invece, ha affermato di aver vinto anche il voto popolare (quando è noto ha preso oltre due milioni di voti in meno rispetto alla Clinton) perché in tanti avevano votato illegalmente. Qui non stiamo parlando di semplici adombramenti dei fatti, ma di bugie vere e proprie, la cui falsità è facilmente dimostrabile. Che affermasse queste cose era già abbastanza grave di per sé; ma la cosa peggiore è che gli elettori repubblicani gli hanno perdonato senza problemi le sue colossali e reiterate menzogne.
I paladini della libertà di informazione sostengono che per combattere le notizie false basta semplicemente diffondere quelle vere, che in un mercato delle idee si affermeranno spontaneamente. Questa soluzione, purtroppo, funziona molto meno bene nel contesto dei social media, dove imperversano troll e bot. (Secondo alcune stime, tra un quarto e un terzo degli utenti di Twitter rientra in questa categoria.) Internet ci doveva liberare dai guardiani dell’informazione, e in effetti oggi le notizie arrivano da tutte le fonti possibili, tutte con uguale credibilità. Non c’è motivo di credere che la buona informazione scaccerà quella cattiva.
C’è un problema più serio di queste falsità specifiche e del loro effetto sui risultati delle elezioni. Perché prendiamo per buona una notizia, considerando che nella maggior parte dei casi soltanto pochissimi fra noi sono nella posizione per verificarne l’attendibilità? Il motivo è che esistono delle istituzioni imparziali che hanno il compito di produrre elementi di fatto di cui ci fidiamo. In America le statistiche sulla criminalità sono elaborate dal dipartimento di Giustizia e quelle sulla disoccupazione dall’Ufficio statistiche del lavoro. È vero che i principali organi di stampa come il «New York Times» erano prevenuti nei confronti di Trump, ma dispongono di sistemi che gli impediscono di pubblicare errori fattuali madornali. Dubito seriamente che Matt Drudge o la Breitbart News abbiano schiere di fact-checkers incaricati di verificare l’attendibilità del materiale pubblicato sui loro siti web.
Nel mondo di Trump, per converso, ogni cosa è politicizzata. Durante la corsa alla Casa Bianca ha insinuato che Janet Yellen, la presidente della Federal Reserve, stesse lavorando per favorire Hillary Clinton, che le elezioni sarebbero state truccate, che le fonti ufficiali stavano deliberatamente sottovalutando il numero di reati e che il rifiuto dell’Fbi di incriminare l’ex segretaria di Stato era dovuto al fatto che i suoi collaboratori avevano corrotto il direttore dell’Fbi James Comey. Ha rifiutato anche di accettare l’autorità delle agenzie di intelligence che accusavano la Russia di aver hackerato il Comitato nazionale democratico. E, naturalmente, Trump e i suoi sostenitori hanno alacremente denigrato tutte le notizie riportate dai «media mainstream» definendole irrimediabilmente parziali.
L’incapacità di concordare sui fatti più elementari è la diretta conseguenza di un assalto a tutto campo contro le istituzioni democratiche (negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in tutto il mondo). Ed è qui che le democrazie rischiano grosso. Negli Stati Uniti c’è stato un degrado delle istituzioni, con potenti gruppi di interesse in grado di proteggersi attraverso un sistema di finanziamento illimitato delle campagne elettorali. Il teatro principale di questo degrado è il Congresso e i comportamenti scorretti di regola sono tanto legali quanto diffusi. La gente comune ha ragione a essere turbata. Eppure la campagna elettorale ha spostato i termini del problema verso una convinzione generalizzata che ogni cosa sia truccata o politicizzata e che ovunque dilaghi la corruzione. Se la commissione elettorale certifica che il vostro candidato preferito non è il vincitore, o se l’altro candidato apparentemente se l’è cavata meglio durante il dibattito, dev’essere il frutto di un’elaborata cospirazione ordita dalla fazione opposta per alterare i risultati. Credere nella corruttibilità di tutte le istituzioni porta in un vicolo cieco di sfiducia universale. La democrazia americana, la democrazia in generale, non sopravviverà alla mancanza di fiducia nella possibilità che esistano istituzioni imparziali; la lotta politica faziosa arriverà a pervadere ogni aspetto dell’esistenza.
Francis Fukuyama, autore di un celebre libro come La fine della storia (1992) è ricercatore anziano e direttore
del Centro su democrazia, sviluppo e Stato di diritto
dell’Università di Stanford

Congresso PD: aria e idee nuove, dai Circoli al Nazareno

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C’è un indizio sicuro che le cose si stanno mettendo bene per il Partito Democratico: il cielo plumbeo ed i commenti grigi che connotano la sua vita organizzativa nel Veneto… senza aggiungere anche la mitigazione delle sofferenze interne determinata dalla fuoriuscita di qualche anziano esponente della nomenclatura locale solito (soprattutto nell’ultimo anno) ad esternalizzare le sue “angosce” attraverso la diffusione – a livello regionale – di messaggi ed informazioni che sono stati letti ed interpretati come vero e proprio boicotaggio (eufemismo per non dire sputtanamento) dei provvedimenti del Governo, anche quando questi corrispondevano alle attese del sistema socio-economico territoriale che – alle elezioni europee – aveva manifestato corposamente il suo endorsement nei confronti del riformismo a trazione renziana.
Con questa affermazione un po’ provocatoria voglio rimarcare il fatto che nei prossimi 60 giorni dedicati alla competizione congressuale, il Partito degli iscritti e degli elettori potrà bucare lo schermo di un’organizzazione opaca e portare in superficie il protagonismo di donne ed uomini che hanno finora visto strozzate le loro istanze, la loro soggettività, il loro contributo di idee e proposte, da una struttura dis-orientata sia dall’assenza di leadership che di rielaborazione politico-culturale, in chiave veneta, della strategia di cambiamento promossa a livello nazionale.
La salutare sconfitta alle elezioni regionali era l’occasione per un reset del Partito regionale ed invece ha provocato un’onda lunga di brontolii, incomprensioni, polemiche a bassa intensità che ne hanno messo a nudo la povertà e la diffusa mediocrità, contrastate – per nostra fortuna – dalle ottime performance di singoli Amministratori locali e Parlamentari che hanno continuato ad alimentare speranze, visioni, buone pratiche, tali da salvaguardarne non solo l’identità ma anche le chance di rilancio e rilegittimazione.
All’interno di questo contesto “problematico”, la vicenda delle polemiche della cosiddetta minoranza, ha semplicemente rattrapito ulteriormente il dibattito nel Veneto, all’interno di un Partito impegnato a metabolizzare e comprendere le ragioni della sconfitta referendaria del 4 dicembre.
Non poteva essere diversamente perché, nonostante la scarsa rappresentatività che essa (la minoranza) ha avuto ed ha nella nostra Regione, per una naturale ritrosia di gran parte dei cittadini veneti, – se si esclude la tribù formata dai leghisti venetisti adusi alla retorica autonomistica – nei confronti della politica viziata dagli ideologismi, la polemica politicista suscita imbarazzo e finanche disprezzo.

Storiografia, psicologia e psicanalisi

Sono convinto che, per interpretare i comportamenti, i sentimenti e gli slogan della sofferente umanità di sinistra ex-comunista (composta di nostalgici, antagonisti, antiglobalisti, postcomunisti, neocomunisti, neosinistri, anticapitalisti, antiliberisti & benecomunisti, ed arricchita – nell’ultimo lustro – dalla singolare inedita componente degli antirenziani), non sia più sufficiente soffermarci a riflettere sui suoi drammatici dissidi ideologici con gli strumenti storiografici.
Mi riferisco alla vicenda del ripetersi di conflitti fratricidi che l’ha segnata nel corso dell’ultimo secolo a partire dalla fuoriuscita di Mussolini – rimproverata da Lenin (che ne riconosceva la comune aspirazione totalitaria) ai socialisti – proseguendo per la scissione dei comunisti negli anni’20 ed arrivando alle rotture ed alla dissolvenza del PCI, ed il manifestarsi negli ultimi quindici anni dell’accapigliarsi da parte delle piccole tribù di sinistrati incalliti (dai tetragoni Cossutta e Garavini ai fricchettoni Bertinotti e Vendola, per concludere con il mesto corteo degli ultimi “scissionisti”: Fassina, D’Attorre, Bersani, D’Alema…).
Il quotidiano la Stampa ha pubblicato un video raffazzonato che racconta alcune delle fratture più significative:
http://www.lastampa.it/2017/02/18/multimedia/italia/politica/le-scissioni-della-sinistra-un-secolo-di-divisioni-dal-pci-a-sel-PsYLE78XZDSazXUzBWt8lI/pagina.html
ma restano sicuramente più interessanti ed esplicativi (oltre che divertenti), per illustrare la pulsione alla divisione, un paio di video che si riferiscono alle spassose disquisizioni sulla denominazione più appropriata del “Fronte della Giudea”:

ed alla performance insuperabile di Guzzanti-Bertinotti sulla superiorità strategica della moltiplicazione delle sinistre – come i virus – per combattere più efficacemente la destra di Berlusconi:

Personalmente ho cercato di avvalermi delle informazioni della psicologia comportamentale per tentare di comprendere tale fenomenologia: ci troviamo di fronte ad una vasta ed eterogenea platea di protagonisti e personalità caratterizzati dall’uso di una impressionante, maniacale ripetitività di argomentazioni nel motivare le proprie scelte che si intendono finalizzate a “ripristinare la coerenza, la purezza, l’eticità dell’impegno politico” anche quando è testimoniato, pure dal meno prevenuto degli storici, che esse si sono costantemente rivelate fallimentari, nonostante abbiano continuato a conservare il fascino della sfida di cambiare lo “stato delle cose presenti”.
Tale ossessione ideologica ha continuato a persistere nonostante la evidente verità storica delle ignominie inverate dall’ideologia comunista (e suoi succedanei) e dalle beffarde lezioni derivanti da uno sviluppo sospinto dai principi dell’economia sociale di mercato (con una crescita impetuosa anche in Cina, seppur con la sostituzione di sociale con socialista) e da istituzioni espresse e governate secondo i dettami della cultura liberaldemocratica.
La realtà avrebbe dovuto suggerire a tutte le donne ed agli uomini di sinistra contemporanei, di impegnarsi a convergere verso un soggetto politico riformista unitario da potenziare e qualificare attraverso l’ancoraggio a regole interne che garantissero la partecipazione più ampia, la contendibilità di leadership e programmi che si proponessero di partecipare alla vita politica con obiettivi di rinnovamento sociale ed espansione dei diritti, qualificazione dello sviluppo nel segno della sostenibilità ambientale, tutela delle fasce più deboli della popolazione, ispirati dagli ideali di uguaglianza e solidarietà.
La vicenda del Partito Democratico dell’ultimo decennio è stata segnata proprio da codesta progettualità ed è per questo che l’ennesimo episodio di divisione e scissione ha suscitato tanto clamore e finanche l’intervento di un generoso e rigoroso psicanalista come Massimo Recalcati teso a gettare luce su tale innfausta manifestazionne di disagio:

http://www.repubblica.it/politica/2017/02/22/news/scissione_pd_quei_dem_sul_lettino_dello_psicanalista-158890834/

Un modello di leadership “sorprendente”
Essa però, può costituire un’opportunità, ovvero l’occasione di rileggere criticamente le dinamiche storico-culturali dell’intera sinistra italiana e rimettere al centro della discussione politica, soprattutto attraverso il Congresso, i valori ed i programmi, con i quali predisporre un’offerta politica unitaria a quel vasto ed articolato campo di elettori preoccupati dalla temperie caratterizzata dall’offensiva di una destra che si presenta multipolare, ma univoca nell’alzare le bandiere della regressione trumpista in versione italiana.
Sul succedersi degli episodi e colpi di scena interni al PD i media hanno tentato invano di creare un’ambientazione granguignolesca mentre si è trattato (e si tratta) molto prosaicamente di una lotta di potere senza eroi e senza infamia, a cui la spinta decisiva non è stata data da un sussulto idealista, bensì dalla banale prospettiva (per gli uscenti) di giocare con maggiore libertà le proprie carte al tavolo della futura legge proporzionale…
Un solo personaggio realmente sanguigno e pittoresco (Michele Emiliano), si è guadagnato uno spazio scenico importante con la conseguenza immediata di guadagnarsi l’entrata nella galleria delle imitazioni di Crozza; ne va inoltre segnalata la perspicacia di comprendere il cul de sac nel quale cui si stava infilando, intruppandosi nella minoranza, e la tempestiva scelta del remain (e della candidatura).
D’altronde il pallido (mitigato dalla barba incolta) Speranza, che con il lanternino gira per l’Italia alla ricerca dei forgotten piddini (lui non lo sa, ma avrebbe dovuto – ancor prima dell’arrivo di Renzi – andare a bussare alle porte di Lega e M5s), lo stralunato Bersani che mena fendenti nel vuoto del chiacchiericcio inconcludente dei talk show, un hater professionista (“il massimo sentimento di Massimo è l’odio, un’irrisione profonda, un sadismo intessuto di parole pronunciate con lentezza e ferocia” – Edmondo Berselli), non avevano né alibi né tantomeno argomenti validi per mettere in atto una scissione drammatica.
Sono invece diventati protagonisti dell’ennesimo triste episodio che ripete in tono più mesto il canovaccio testato in molte occasioni durante un secolo di dissidi ed uscite.
Siamo ora in presenza di un drappello di compagni che, con la loro iniziativa, hanno confermato di aver preferito coltivare – sin dai tempi dell’Ulivo nascente e della tribolata Unione – una loro specifica ed inossidabile identità ideologica, piuttosto che misurarsi sul piano culturale, politico, relazionale, con l’autentica innovazione organizzativa rappresentata da un Partito, costitutivamente irriducibile non tanto alla conciliazione di diverse culture politiche ed alla pratica dei “caminetti” (che non hanno impedito l’eutanasia dei Governi Prodi e della Segreteria Veltroni), bensì alla obnubilazione della leadership senza la partecipazione ed il consenso della vasta platea di iscritti ed elettori.
Un partito la cui originalità e persistente vitalità non possono certo essere messa in dubbio dal “portasfiga” (secondo la perfida definizione di D’Alema) Cacciari, il quale soffre nei suoi – seppur sinceri – funerei giudizi, di quella subcultura schmittiana sulla funzione carismatica della direzione politica che, sommata alle abituali deformazioni interpretative poco diamantine dell’editorialista di Repubblica sul PDR-Partito di Renzi (arrivato alla spudoratezza di attribuire – secondo l’immancabile sondaggio Demos (!?) – il desidero dell’”uomo forte” a quegli stessi italiani che avevano appena affossato la Riforma Costituzionale perché generatrice del “pericolo autoritario ”, ha determinato un cortocircuito nel sistema informativo e nella percezione del cosiddetto renzismo in una parte dell’opinione pubblica.
La metastasi del linguaggio politico declinato dal giornalismo arruffone e fazioso ha così potuto costruire una bolla mediatica con al centro la presunta frattura tra la base degli elettori democratici ed il ruolo esercitato dall’ex Presidente del Consiglio e Segretario PD, il cui energico giovanilismo – invece di essere apprezzato per la carica innovatrice sul corpaccione dell’incartapecorito sistema politico-istituzionale – è stato progressivamente assimilato all’arroganza ed alla personalizzazione esasperata.
Si è trattato di una bolla che ha esercitato una malsana attrazione anche nello stesso Renzi (paragonato nel recente articolo di Stefano Allievi – www.stefanoallievi.it – alla figura calviniana del Barone rampante ), ma soprattutto nei suoi detrattori interni al PD che – vittime innanzitutto della loro memoria infarcita dell’esperienza del “centralismo democratico” – non hanno compreso che il Partito in cui con-vivevano, è originariamente un ambito politico-organizzativo ed un “format” partitico trasparente, in cui strategia, programmi e leadership sono sempre – per definizione -contendibili.
La vera novità – indigeribile per una parte della vecchia nomenclatura indicata dall’odierno articolo di Angelo Panebianco sul Corriere della Sera (27.2.17) – che abbiamo vissuto negli ultimi tre anni a guida renziana è piuttosto rappresentata da una fisiologica accelerazione organizzativa nei processi decisionali e nello stile di comunicazione, non tanto per il massivo uso dei linguaggi e strumenti social, bensì per la volontà di ampliare il pubblico a cui rivolgere il messaggio riformatore, destrutturando i ritmi e ed i riti tradizionali del sonnacchioso ed opportunistico rapporto tra istituzioni e cittadini, provocando perciò non solo la reazione della componente conservatrice dell’establishement, ma anche di parti rilevanti della popolazione che al referendum hanno espresso l’orientamento negativo nei confronti del progetto di cambiamento: per incredulità, incomprensione, sfiducia, rabbia derivante da una condizione sociale difficile, ma anche per acquiescenza/convenienza (vedi Quo vado?).
Dall’uscita di scena dell’usurpatore abbiamo così potuto riscontrare – al di là dei diffusi atteggiamenti di adolescenziale e rancoroso scaricabarile sulle sue responsabilità personali – il ritorno al linguaggio politicista ed alle tribune politiche in bianco e nero nelle quali anche i Bersani ed i D’Alema si sono sentiti “scongelati” e “ritornati in campo”!

Qualcosa è cambiato

Ora, però, sul piano più strettamente politico-organizzativo, nel Partito Democratico si è determinata una situazione “promettente”: l’Assemblea e la Direzione nazionali hanno aperto uno scenario ricco di opportunità: l’affacciarsi di una nuova generazione di dirigenti quarantenni con un crescente livello di autostima ed esperienza (cresciute proprio perchè hanno potuto giovarsi della funzione di gatekeeping di Renzi), la conferma della presenza di alcuni senior, esponenti autorevoli delle culture fondative come Veltroni, Fassino e Franceschini, una pluralità di candidati in grado di intercettare diverse sensibilità culturali ed alimentare una partecipazione – adesione basate sul confronto programmatico e non solo sull’adesione alla/od il rifiuto della guida carismatica e solitaria.
E poi c’è l’appuntamento del decennale del Lingotto in cui la visione generosa, ma anche la sua traduzione in una gestione debole, che ha generato l’innovazione del PD, potranno anzi dovranno essere aggiornate depurando la struttura organizzativa e la nuova mission delle incertezze proprie della fase fondativa: il vigore intellettuale nell’intervento di Walter Veltroni ascoltato all’Assemblea e gli stessi contenuti del colloquio con Eugenio Scalfari pubblicato ieri su Repubblica

http://www.repubblica.it/politica/2017/02/26/news/veltroni_la_divisione_della_sinistra_apre_la_porta_al_populismo_a_rischio_democrazia_e_ue_-159245458/

costituiscono un vero e proprio suggello positivo della prima stagione renziana perché testimoniano la resilienza di un gruppo dirigente esteso e la persistenza del messaggio di impegno e speranza per il futuro di un Partito che ha bisogno di essere sgravato delle scorie ideologiche passatiste.
Ciò significa avviare la costituzione di un sistema di comunicazione interattiva con i simpatizzanti e gli iscritti al partito finalizzato al recupero di una identità meno aleatoria e condizionata dalle polemiche sulla figura del Segretario nazionale; un piano di coinvolgimento dei cittadini più attivi nei processi di organizzazione della decisione, inverando un modello organizzativo sfidante e competitivo nei confronti di tutte le forze politiche in campo.
Si tratta di un passagggio che comporterà il ringiovanimento (non banalmente anagrafico) di un’Organizzazione nella quale convergono e si confrontano una molteplicità di soggettività ed apporti culturali la cui fusione ed il cui output potranno essere pienamente operativi con il protagonismo di nuove generazioni in grado di saper leggere ed interpretare il “codice genetico” del Partito, ovvero di bypassare i malware dalemiani e l’approccio analogico prodiano, per implementarne la struttura associativa democratica e partecipativa, trasparente-pluralista-contendibile….
In fin dei conti Renzi è stato e rappresenta niente di più e niente di meno di un portatore sano, un testimonial entusiasta della concezione fondante del Partito Democratico, che ora va corredata di un solido apparato valorial-culturale-programmatico (aggiornando la visione “soft” del primo Lingotto) e di un’infrastrutturazione organizzativa con cui dare nuova linfa ai Circoli, intesi come microcosmi comunitari connessi con i Network delle competenze ed in grado di partecipare alla discussione nella blogosfera; e tutto ciò potrà essere realizzato da una leadership non solo sintonizzata con la Rete ed il sentiment degli elettori, ma soprattutto impegnata a promuovere la condivisione della nuova mission all’interno di un’Organizzazione considerata l’asset decisivo per vincere la sfida politico-elettorale nel Paese.

Padova, li 27 febbraio 2017

La soft globalization di Mark Zuckerberg

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Lo stato del social network

Zuckerberg
di Luca De Biase NOVA24 19 Febbraio 2017 Il Sole 24 Ore

Nel febbraio del 1996, John Perry Barlow, poeta e pioniere del digitale, pubblicò la Dichiarazione d’indipendenza del cyberspazio. Era rivolta ai governi dei paesi industrializzati e negava la loro sovranità sulla rete, la sua «nuova casa mentale», il luogo nel quale lui e i suoi simili si radunavano. Una dichiarazione anarchica, basata sulla metafora del cyberspazio e sulla concretezza di una tecnologia straordinariamente aperta, libera, potente. Oggi, lo spazio di internet è diventato più complesso, popoloso, stratificato, ambiguo. I milioni di internettiani di allora sono diventati miliardi. La proprietà comune del protocollo internet è stata sfruttata da aziende private, divenute in pochi anni giganti globali, capaci di attirare sui loro server la maggior parte del tempo che gli umani passano in rete. Ma la tentazione di paragonare questo spazio a un territorio interpretabile politicamente non è scaduta. Il ritornello secondo il quale, per esempio, Facebook è il più popoloso stato del pianeta non cessa di trovare spazio nelle cronache. Sicché quando Mark Zuckerberg esprime la sua visione sulla comunità che si sviluppa sulla sua Facebook, molti lo leggono come un capo di stato che annuncia una politica. Giovedì scorso “Zuck” ha parlato. Ha detto che la missione di Facebook è costruire l’infrastruttura sociale della comunità globale. Vuole essere di supporto alle comunità umane in modo che siano sicure, informate, inclusive, impegnate civilmente. Ha ammesso che la struttura della piattaforma influisce su questi obiettivi. Ha ammesso la tendenza alla polarizzazione delle opinioni e delle aggregazioni che si manifesta nella forma attuale del social network. Ha detto, senza chiarire come, che per il futuro Facebook dovrà correggere questi difetti. Come un capo di stato, “Zuck” ha espresso le dichiarazioni di principio con più forza di quella che ha dedicato a spiegare bene che cosa farà. Vedremo se, non essendo un capo di stato, troverà meno ostacoli per realizzare quanto promesso.