I missionari della modernità

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missionari-modernitaAGENDA DIGITALE PALAZZO CHIGI MUTAZIONE ANTROPOLOGICA
Luca De Biase NOVA24 Il Sole 24 Ore 09 Ottobre 2016
Il commissario Piacentini spiega a Nòva il suo piano Che inizia dalla qualità delle persone che faranno parte della sua squadra
Ci vuole un po’ di immaginazione. Venti esperti, venuti dalle frontiere della tecnologia, fanno squadra a Palazzo Chigi per dedicarsi alla modernizzazione del paese: una mutazione antropologica annunciata per gli uffici della presidenza del Consiglio che saranno abitati anche da specialisti di big data, machine learning, open source, cybersicurezza, design di prodotto e user experience, sviluppo di applicazioni mobili, architettura del software. Accetteranno uno stipendio tra gli 80mila e i 200mila euro, spesso meno del loro reddito attuale. Ma avranno uno scopo. E vorranno raggiungerlo.
Tanto per parlar chiaro, saranno «veri e propri missionari», scrive Diego Piacentini, il commissario straordinario del governo per l’attuazione dell’agenda digitale, nel post su “Medium” col quale ha lanciato la ricerca dei supertecnici da assumere. Missionari perché saranno professionisti eccezionali, orientati al risultato, coscienti della difficoltà del compito, destinati a operare in un contesto paradigmaticamente diverso dal loro. Missione impossibile? Forse no. Ma di certo una missione attraente: quattro giorni dopo la pubblicazione del post, Piacentini aveva già ricevuto 2.300 candidature. Come ha spiegato a Nòva, non è un concorso pubblico ma una normale selezione del personale. Il suo obiettivo è arrivare a sentire personalmente cinque o dieci candidati per ognuna delle venti posizioni. E vuole scegliere presto. Perché di tempo, l’agenda digitale italiana ne ha già perso parecchio.
Il piano principale resta l’“Italia Login” studiato da Paolo Barberis, consigliere del premier. Se sarà ultimato i cittadini avranno la vita più facile. Sul loro profilo potranno trovare tutte le informazioni necessarie a interagire con la pubblica amministrazione, i cui vari uffici si coordineranno tra loro per minimizzare le operazioni richieste agli italiani. Per raggiungere questo obiettivo finora sfuggito ci vuole più concentrazione, bravura e comprensione di come stanno le cose di quanta ne abbiano dimostrato i precedenti responsabili. Il cui lavoro però non sarà buttato. «Partiamo da quello che c’è. Che non si distrugge. Si reindirizza» dice Piacentini. «Faremo una mappatura dell’esistente. Ci sono grandi eccellenze nelle aziende informatiche pubbliche. Valuteremo. Sceglieremo che cosa va rifatto. Punteremo su alcune linee guida fondamentali: rendere accessibili e interoperabili i dati, programmare i servizi in modo che siano prima di tutto utilizzabili con lo smartphone, garantire sicurezza e privacy…».
I dati. Forse un tempo il potere dell’amministrazione era controllare i dati generati dal proprio servizio. Domani il valore dell’amministrazione sarà dare potere ai cittadini mettendo a loro disposizione servizi resi efficienti dalla condivisione dei dati e dal machine learning. Il cambio è paradigmatico: il vecchio regime era concepito come digitalizzazione delle procedure burocratiche tradizionali; il nuovo sistema è proiettato verso la semplificazione del servizio ai cittadini e, per quanto possibile, l’automazione delle procedure.
Secondo Piacentini, i missionari potranno contare sul lavoro delle migliori aziende dell’informatica pubblica, una volta che il loro lavoro sarà reindirizzato e che il progetto si sarà dimostrato attraente e fattibile. Forse il commissario dovrà prima o poi pensare anche a incentivare chi collabora e disincentivare chi si mette di traverso. Ma per ora non si occupa di questo. «Forse sono un ingenuo, ma il codice dell’amministrazione digitale può diventare uno strumento operativo efficiente. E in ogni caso, se ci sono cose che non funzionano si possono cambiare». E aggiunge: «Non solo aggirare».
Le conseguenze di questa impostazione sono chiare. Primo, cambia la cultura di chi progetta e realizza i servizi pubblici, mettendo al centro la soddisfazione dei cittadini. Secondo, si sottolinea il valore della competenza e del “tecnical project management” per guidare a ragion veduta la programmazione entrando nel merito. Terzo, con l’interoperabilità dei dati si avvia un processo inarrestabile che supera il maggior difetto del sistema attuale, quello che impone ai cittadini operazioni ripetitive, complicazioni inutili, lentezze esasperanti.
Non è certo la prima volta che si annuncia un cambio di passo nell’agenda digitale italiana. Ma questa volta c’è meno grancassa e più esperienza di “cambi di paradigma”. Il che potrebbe ridurre il potere dei muri di gomma tradizionali: «Con grandi tecnici si possono superare molte barriere che di solito si frappongono sulla strada dell’innovazione nella pubblica amministrazione. Chi capisce a fondo la tecnologia non si ferma di fronte a chi obietta nei confronti di un progetto adducendo argomenti che riguardano, per esempio, la privacy o la sicurezza. Un grande tecnico riesce a dare soluzioni valide, senza compromessi sul piano della privacy e della sicurezza e tali da fare avanzare la realizzazione del progetto». Se i dati diventano interoperabili, le soluzioni possibili diventano davvero affascinanti. «A quel punto il limite è il cielo» dice Piacentini.
Ci vuole immaginazione. E fiducia. Anche perché, a qualcuno può venire in mente che il referendum del 4 dicembre potrebbe costituire una scadenza dirimente per questa missione. «Il referendum è dopodomani. La squadra sarà in via di completamento». Già: e poi? «E poi il nostro lavoro è scisso da qualunque risultato del referendum: andremo avanti fino a che qualcuno non ce lo impedisce». Ma forse a un certo punto la mutazione antropologica apparirà a tutti irreversibile.

Il sogno infranto: la casa comune è diventata un paradiso perduto

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L’ANALISI. Il rigore punitivo, la sfiducia reciproca e la paura degli stranieri alimentano le scorciatoie populiste

di Adriana Cerretelli 22 Maggio 2016   Il Sole 24 Ore

EuroscetticiSembra una maledizione senza scampo né fine: ad ogni sondaggio, referendum o appuntamento elettorale, l’euroscetticismo sale, l’eurofilia scende e sempre più assomiglia al sentimento di una specie in via di estinzione.

L’Unione delle poli-crisi ormai diverge su quasi tutto, Grecia, euro, Bce, patto di stabilità, rifugiati, politiche di sicurezza poco importa. E questa sembra l’unica rara e inquietante convergenza che riesce a mettere insieme e tristemente accomuna Nord e Sud, Est e Ovest.

Dovunque si giochino, le partite elettorali si ostinano a dare lo stesso risultato: scacco matto alla democrazia tradizionale, all’Europa e ai suoi valori fondanti, in poche parole agli assetti politico-istituzionali del dopoguerra.

Oggi in Austria quasi certamente sarà l’estrema destra del Fpo, nazionalista, xenofoba e anti-europea, a conquistare nell’euro-abulia generale la presidenza della Repubblica: nel 2000, quando l’Fpo di Jorg Haider vinse per la prima volta le elezioni a Vienna, creò scandalo e indignazione tanto da indurre l’Europa a imporre sanzioni politiche contro il paese.

Il 26 giugno in Spagna il partido Popular del premier Mariano Rajoi potrebbe essere rovesciato da una coalizione formata da estrema sinistra e Podemos: analogo mix di pulsioni anti-establishment e anti-Ue ma anche anti-rigore economico.

Tre giorni prima la partita di Brexit in Gran Bretagna potrebbe concludersi con il divorzio dall’Europa. O forse no. Comunque finisca si porterà dietro un carico di incertezze e destabilizzazione politica nel resto di questa Europa scossa da nazionalismi, protezionismi e ribellismi diffusi, dalla tentazione popolare quasi irresistibile del ripudio tout court.

Secondo un sondaggio condotto alcune settimane fa in 8 paesi tra 6mila persone, il 33% degli intervistati auspica la propria Brexit. Con il 57% la percentuale degli italiani è insuperata, proprio come lo era la loro cieca eurofilia 15 anni fa. I francesi seguono con il 55%. Prevedere che l’Europa dei no dopo il 23 giugno dilagherà a macchia d’olio non è un’ esercizio acrobatico ma una piana certezza.

Perché l’Unione è diventata un paradiso perduto, i cittadini in rivolta contro chi ancora ne difende ragioni e innegabili benefici che, malgrado tutto, ancora distribuisce? Perché una casa aperta di libertà e democrazia continua a perdere consensi, si rinnega inseguendo l’autodistruzione, i pifferai di scorciatoie estremiste e nazional-protezionistiche, incompatibili con un mondo interdipendente e complesso?

L’europeizzazione sempre più spinta e invasiva, combinata con la parallela globalizzazione di politica, finanza, economia e sicurezza, ha prodotto un enorme cortocircuito che nessuno ha saputo o voluto governare in Europa. Dove da anni i redditi reali scendono insieme a ogni tipo di sicurezza: nelle strade, nel welfare, nel futuro. Dove i disoccupati crescono e i risparmi sono meno tutelati. È così che l’Unione si è avvitata, diventando a poco a poco una sorta di porto delle nebbie con garanzie decrescenti e frustrazioni costanti.

Caduta del Muro di Berlino, fine dell’ordine di Yalta, riunificazione tedesca, creazione del mercato e poi della moneta unica. Maxi-allargamento a Est, riunificazione europea con il salto spericolato da 15 a 25 membri. Globalizzazione dell’economia, ingresso della Cina nel Wto, inizio della sua scalata ai vertici mondiali mentre falliva il Doha Round, il negoziato multilaterale per rafforzare la liberalizzazione del commercio internazionale. Seguito dalla graduale conversione a protezionismo e unilateralismo.

Su questa tela di vecchi equilibri strappati e mai ricomposti in un nuovo modello di governance europea e mondiale, è piombata la grande crisi finanziaria partita nel 2008 dagli Stati Uniti e migrata in Europa per trasformarsi in debitoria, complice il caso Grecia. Presto l’eccesso di rigore alla tedesca ha raggelato lo sviluppo oscurando l’orizzonte delle buone aspettative. L’Europa ha finito per assumere una grinta arcigna, punitiva, indifferente a problemi e paure crescenti della gente, più povera, della società più diseguale. I Governi, tutti, hanno fatto gli struzzi e dell’Ue il capro espiatorio della loro inadeguatezza. Peggio, non si è mai tentata una narrativa comune della crisi. Al contrario, a Nord impazza la storia del Sud fannullone, parassitario, pieno di debiti a rischio insolvenza. A Sud quella degli spietati vampiri che speculano sulle disgrazie dei più deboli massacrandoli di rigore eccessivo e spietato.

Come se non fosse bastato l’abisso di sfiducia reciproca che si è così creato, a completare l’opera della grande incomunicabilità intra-europea a livello di Governi e di cittadini è arrivata la marea incontrollata dei rifugiati: la stagione dei muri, dell’arroccamento dentro le frontiere, della minaccia all’ordine di Schengen. A fare il resto ha poi pensato il matrimonio tra democrazia e comunicazione istantanea di massa, tra sondaggi quotidiani, social media d’assalto, leaks a ripetizione: la spallata finale alle strutture di Governo nazionali ed europee, che ha paralizzato le visioni comuni e, soprattutto, la capacità di attuarle.

Delusi ed esasperati dall’inazione dei grandi decisori davanti alle difficoltà crescenti del loro viver quotidiano, gli elettori insorgono, tentano le scorciatoie populiste, nella falsa illusione di ottenere le ricette finora mancate. E così trasformano le loro paure in quelle dei Governi in carica. O cambia strada, e presto, politica oppure l’Europa non potrà reggere a lungo l’urto della sue furenti democrazie.

Il declino cognitivo

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Le sinapsi riscrivono il «De Senectute»

di Fiorenzo Conti – 15 Maggio 2016 – Il Sole 24 Ore

Pochi temi stanno attirando l’interesse dei ricercatori e delle agenzie internazionali di finanziamento della ricerca come l’invecchiamento cerebrale, una ovvia conseguenza dello straordinario allungamento della vita media di chi abita in questa parte del mondo.

L’invecchiamento cerebrale riguarda tutte le funzioni del cervello (sensoriali, motorie, cognitive, affettive, emozionali etc..), ma l’interesse è incentrato in gran parte sul declino cognitivo, la riduzione delle funzioni superiori (in altri tempi si sarebbe detto delle capacità mentali) che riguardano la conoscenza. È quindi la diminuzione della capacità di apprendere, di ricordare luoghi o eventi successi da poco, di prestare attenzione, di concentrarsi, di valutare criticamente, di prendere decisioni… Già Marco Tullio Cicerone, nel De Senectute (uno splendido saggio di gerontologia che tutti dovrebbero leggere almeno una volta) aveva sottolineato con vigore che non tutte le funzioni declinano allo stesso modo in tutti gli individui. Oggi sappiamo anche che in un dato individuo, non tutte le funzioni superiori diminuiscono insieme e che ci sono funzioni che non declinano. Queste osservazioni, dapprima aneddotiche e poi confermate da rigorosi e recenti studi scientifici, devono essere spiegate da qualunque ipotesi sui meccanismi che sono alla base del declino cognitivo nell’invecchiamento cerebrale.

Da quando è nata la medicina “scientifica”, i ricercatori hanno cercato di svelare le alterazioni del cervello che determinano o favoriscono il declino delle nostre capacità cognitive. La prima strada intrapresa è stata, come spesso succede in biomedicina, lo studio dell’anatomia. Tra gli aspetti anatomici più studiati, spicca il numero dei neuroni. E in più di un secolo, si è assistito a un significativo cambiamento delle conoscenze: da una fase (abbastanza lunga e della quale sono rimasti molti modi di dire comuni) nella quale si riteneva che l’invecchiamento cerebrale, e con esso il declino cognitivo, fosse sostanzialmente determinato dalla morte di un numero elevatissimo di neuroni, le principali cellule che costituiscono il nostro cervello, si è passati ad una in cui questa nozione è stata messa in dubbio, fino ad arrivare alla nozione recente che il cervello anziano ha sì meno neuroni di quello del giovane adulto, ma non tanto quanto si riteneva in passato.

Questo radicale cambiamento ha spinto i ricercatori a cercare alterazioni più sottili ed ha, per il momento, permesso di scoprire che uno dei più importanti cambiamenti anatomici osservabili nel cervello anziano è rappresentato dalla drastica riduzione delle “spine”, piccolissime protrusioni presenti in gran numero su alcuni processi (chiamati dendriti) di moltissimi neuroni.

Aver trasferito l’attenzione dai neuroni alle spine ha comportato, a sua volta, un altro radicale cambiamento. Le spine sono infatti sede di numerosissime sinapsi, le strutture che permettono il passaggio del segnale nervoso (cioè dell’informazione) da un neurone all’altro. In altre parole, questa scoperta ha trasferito il problema dal numero di neuroni al numero di sinapsi e quindi alla funzione sinaptica. E negli ultimi decenni numerosi studi hanno infatti dimostrato che la funzione delle sinapsi nel cervello anziano è molto diversa da quello del cervello giovane o adulto.

E a questo punto, per i fisiologi, è stato abbastanza semplice cercare di legare queste nuove conoscenze con quelle che derivavano dallo studio di una caratteristica fondamentale e affascinante della sinapsi: la sua plasticità, ovvero quella straordinaria capacità che ha la sinapsi di modificare la propria funzione in relazione agli stimoli che riceve. È alla plasticità che dobbiamo, tra le altre, la nostra capacità di apprendere e di adattarci all’ambiente.

Esperimenti eseguiti in diversi laboratori, incluso quello di Lamberto Maffei a Pisa, utilizzando protocolli diversi hanno dapprima dimostrato che nel cervello anziano la plasticità sinaptica è ridotta e successivamente che è possibile riattivarla con procedure di arricchimento ambientale (sostanzialmente aumentando il numero e la qualità degli stimoli). Un altro aspetto straordinariamente interessante emerso più recentemente dagli studi sulla plasticità sinaptica nel cervello anziano riguarda la possibilità che essa rappresenti una specie di via finale comune sulla quale convergono diversi processi; è stato per esempio dimostrato che ormoni associati all’ingestione di cibo o molecole prodotte in risposta all’esercizio fisico modificano la plasticità.

Se si pensa che un’alimentazione non adeguata e la scarsa attività fisica rappresentano dei pessimi compagni di viaggio per chi voglia invecchiare “bene” dal punto di vista cerebrale (anche questo l’aveva detto Cicerone!), risulta evidente la portata di queste scoperte. Infine, se si pensa che è alla plasticità che dobbiamo la nostra “individualità” e “unicità”, è chiaro anche che questi dati neurobiologici potrebbero spiegare le variazioni individuali descritte sopra.

La buona notizia è che conosciamo molto bene i meccanismi molecolari dei fenomeni neurofisiologici che determinano la plasticità ed è quindi possibile iniziare a studiare, per ora necessariamente negli animali, se specifiche proteine o gruppi di proteine sono alterati nel cervello anziano. Studi di questo tipo si stanno svolgendo in numerosi laboratori, incluso il nostro presso l’IRCCS INRCA di Ancona, con la speranza di svelare i meccanismi che deteminano la riduzione di plasticità. La strada non sembra per il momento sgombra di insidie, ma questa è una strategia che potrebbe contribuire a capire cosa determina il declino cognitivo. Perché se non conosciamo bene da cosa dipende il declino cognitivo, qualunque tentativo d’intervento sarà destinato all’insuccesso o sarà comunque velleitario, se non pericoloso. Questo è il modo in cui funziona la “scienza medica”: conoscere i meccanismi normali per capire come questi possano alterarsi e funzionare male o meno bene è la condizione imprescindibile per un corretto approccio terapeutico.

Ladri di futuro, non ci farete prigionieri del vostro omertoso passato

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Ladri di fututo bambinoC’è un filo nero che lega ed accomuna i rancorosi propugnatori del NO: fattispecie di vittime e carnefici, entrambe progioniere di un ventennio con-vissuto nella coltivazione di aggressioni reciproche ed ora orientate paranoicamente a boicottare il cambio d’aria ad un ambiente costituzionale che la loro stolidità ed il loro opportunismo ha reso irrespirabile.

Primeggiano nel vociare confusamente ed evitare meticolosamente l’analisi attenta e meditata dei testi: magistrati a vocazione manettara abbracciati ai loro “clienti” preferiti, storiche figure sinistre, giornalisti guardoni e violatori della dignità, disinformatori patologici e cicisbei incontinenti, professionisti del gargarismo ideologico rosso-nero, intellettuali leziosi cognitivamente sterili, giuristi torcicollisti di un passato agitato per ostacolare il rinnovamento del tempo presente, avversari del pragmatismo operoso e sabotatori del riformismo possibile, urlatori disabituati all’uso del ragionamento riflessivo e del confronto.

Tutto li dividerebbe, se non dovessero – sotto le bandierine del NO – condividere e difendere l’eterno presente di piccoli e grandi privilegi, alimentati da quella “meravigliosa macchina” del consociativismo paraistituzionale con cui hanno concorso a stuprare i Bilanci pubblici, a dilapidare le risorse – destinate a salvaguardare il futuro del Paese – attraverso l’uso perverso del “bicameralismo perfetto”, la moltiplicazione dei centri di spesa clientelare finalizzata “nobilmente” per la difesa del welfare, del federalismo locale-municipale-provinciale-regionale e del paraculismo; l’ossessiva limitazione della competizione e della meritocrazia.

Vorrebbero farci credere che sono animati dal nobile sentimento di difendere la verginità della Carta mentre il loro intento sordido è continuare a coltivare il parassitismo intellettuale con il quale mascherare la drammatica realtà di un sistema politico, amministrativo, istituzionale che richiede l’avvio di un processo di efficientamento democratico, proprio a partire da un primo passo che paradigmaticamente rappresenti un messaggio di discontinuità, il segnale che il Paese si attrezza per affrontare le sfide che incombono, che rimuove almeno in parte quella ragnatela di rapporti omertosi tra finti avversari, costantemente impegnati ad allontanare le scelte della responsabilità e dell’innovazione.

 

 

 

C’è qualche idiota che ha il coraggio di affermare che (gli austriaci) fanno bene?

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Vienna simbolo dello scontro che spacca l’Europa

Vittorio Da Rold – 27 Aprile 2016   Il Sole 24 Ore

BrenneroIl “Fett und Zucker”, questo il nome di un caffé a Vienna famoso per i suoi biscotti, ieri ha esposto una lavagna di fronte all’ingresso dove il proprietario, Eva Trimmel, annuncia che se siete uno dei quel 36% che ha votato per il candidato dell’estrema destra, Norbert Hofer, siete invitati a non entrare e a tirare dritti. La notizia, riportata dal quotidiano Osterreich con evidenza, dà il segno della polarizzazione del Paese alpino, di come l’Austria sia spaccata a metà dopo il voto di domenica per il primo turno delle presidenziali e in vista del ballottaggio del 22 maggio.

Un voto clamoroso dove il socialdemocratico Rudolf Hundstorfer (Spo) e il popolare Andreas Khol (Ovp) sono stati eliminati con l’11,2% dei voti ciascuno. È la prima volta che i partiti tradizionali, che governano grazie a una coalizione, uscendo dalla corsa al primo turno. A determinare questo risultato che non si era mai visto dal 1945, tra rigurgiti populisti e paure xenofobe, sono stati due temi: l’immigrazione (in Austria sono transitati un milione di migranti nel 2015 e ci sono state 90mila domande d’asilo) e il difficile rapporto tra il Nord e il Sud dell’Europa. Vienna è in mezzo a questa crisi e rischia di rimanerne stritolata.

I sondaggi danno Hofer, il candidato erede di Joerg Haider, in vantaggio sul candidato ecologista con il fronte conservatore spaccato a metà: i liberali di “Neos” pronti a sostenere il candidato Verde Alexander van der Bellen in nome dei principi della democrazia liberale e dell’universalismo dei diritti e i popolari dell’Ovp che andranno a sostenere Hofer e la voglia di costruire nuovi muri nell’Europa di Schengen.

A Vienna, come è avvenuto in Grecia per trovare una soluzione alla crisi dei debiti sovrani, si sta combattendo una guerra per procura, tra due Europe che si stanno dilaniando per trovare una soluzione comune sulla crisi dei migranti. Un confronto che non parla più di aiuti in cambio di austerità, ma di muri e chiusure contro politiche di accoglienza e aiuti ai Paesi extra europei in difficoltà.

I due poli non sono omogenei al loro interno: sul fronte conservatore ci sono i “pontieri” come Angela Merkel e i “falchi” come il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schaeuble, così come sul fronte riformista ci sono i moderati come il segretario dell’Spd, Sigmar Gabriel, e i radicali come Alexis Tispras e Pablo Iglesias.

I sondaggi austriaci confermano l’estrema polarizzazione della società austriaca alle prese, suo malgrado, con un tema così globale che non può che essere gestito in chiave europea per pensare di risolverlo. Ecco perché gli equilibri austriaci interessano tutti gli europei: perché rimettere i controlli al Brennero, dove passa un interscambio di 140 miliardi di euro tra Europa del Sud e Europa del Nord, non può essere una scelta autonoma di una nazione di transito.

Hofer nei suoi slogan dice: «Immigrazione zero», ma non ricorda il fallimento della Hypo Alpe Adria, la banca della Carinzia, la regione governata proprio da Joerg Haider, che è fallita e ha lasciato un buco di bilancio di 25 miliardi di euro con strascichi giudiziari ancora aperti tra i creditori e il fondo Heta che ne ha ereditato i debiti.

Wolfgang Schüssel, l’ex cancelliere austriaco che nel 2000 sdoganò Haider e il suo partito xenofobo, pensava che così l’avrebbe usurato coinvolgendolo nell’azione di governo. Una tattica che, vista a posteriori, non ha funzionato perché non ha riformato il Paese ma ha cercato solo di guadagnare tempo. Ora è giunto il tempo di affrontare i problemi a viso aperto senza cercare scorciatoie.

Astrologia e Referendum

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IncertezzaReferendum e letture «forzate»

Roberto D’Alimonte – OSSERVATORIO La politica in numeri

Il Sole 24 Ore 20 aprile 2016

È un segno della precarietà dei tempi l’importanza che è stata data al referendum sulle trivelle. Lo stesso presidente del Consiglio, di solito così sicuro di sé, è apparso incerto prima del voto.

E dopo il voto, il tono dei suoi commenti ha lasciato chiaramente trapelare il timore che nutriva per l’esito. Forse aveva in mano dei sondaggi preoccupanti – e sbagliati – che gli hanno fatto credere che il 50% degli italiani potesse mobilitarsi per andare a votare su un quesito così lontano dai loro interessi concreti. Meglio avrebbe fatto a prendere le distanze pur affermando la sua posizione. Ma il distacco non è nelle sue corde. A lui piace la mischia. In ogni caso questo referendum è stato a suo modo un test. Alla luce di quello che sappiamo sul comportamento degli elettori in questa fase della storia del nostro paese, quali conclusioni avremmo dovuto trarre se effettivamente il 50% fosse andato a votare? Il punto è che i dati ci dicono che a partire dal 1995 la partecipazione ai referendum è andata declinando progressivamente e inesorabilmente. Il trend è chiarissimo. Il referendum del 2011 in cui ha votato il 55% degli elettori è l’eccezione che conferma la regola. C’è voluto uno shock – quello del disastro nucleare di Fukushima – per portare a votare la gente. Dopo si è tornati alla “normalità”, cioè ha ripreso il sopravvento la tendenza di fondo. In tempi “normali” il comportamento di voto è quello che abbiamo visto domenica scorsa.

Ciò premesso, torniamo alla domanda da cui siamo partiti: quali ipotesi avremmo dovuto avanzare per cercare di spiegare perché il 50% degli elettori si sarebbe mobilitato su una questione come quella delle trivelle? È difficile immaginare che le trivelle rappresentino uno shock capace di mobilitare più di 25 milioni di persone. Lo sarebbe un referendum sull’aborto, ma non le trivelle. Né prima del voto ci sono state notizie di una marea di petrolio sulle coste adriatiche. Se domenica il 50% degli elettori fosse andato a votare e avesse votato sì la sola spiegazione possibile sarebbe stata una voglia straordinaria di manifestare la propria rabbia e di dar voce alle proprie frustrazioni. Renzi e il governo ne sarebbero stati i bersagli. È quello che successe nel 1993 al referendum sulla legge elettorale che ha cambiato il corso della politica italiana. Per la stragrande maggioranza degli italiani legge elettorale e trivelle hanno la stessa importanza. Anzi, le trivelle sono una questione più comprensibile. Nel 1993 gli elettori sono andati a votare in massa non a favore di una nuova legge elettorale, di cui non sapevano nulla, ma perché volevano esprimere rabbia e voglia di cambiamento. Avrebbe potuto essere così anche questa volta (ed è per questo che Renzi era preoccupato), ma non è stato così. La rabbia c’è, la voglia di cambiamento anche, ma non è ancora così forte da portare gli italiani a votare sulle trivelle per travolgere l’attuale governo.

Renzi ha potuto tirare un sospiro di sollievo. Gli resta ancora credito e quindi tempo. Adesso c’è chi vuol far credere che i milioni di italiani che sono andati a votare e hanno votato sì siano tutti anti-renziani. Può darsi, ma è una ipotesi senza prove. In ogni caso non ha alcuna importanza. Anche se così fosse non è di questo che Renzi deve preoccuparsi. Anche alle ultime europee quando ha preso oltre il 40% dei voti, l’altro 60% non era renziano. Che vuol dire che il 26% di quelli che sono andati a votare domenica e hanno votato sì sono anti-renziani? Non vuol dire nulla. Alle europee erano molti di più. Adottando questa logica si dovrebbe allora supporre che buona parte di coloro che sono rimasti a casa sono renziani? Ma neanche per sogno. E sbagliano Renzi e i renziani a usare argomenti simili.

Questo per dire di quali forzature si alimentano le polemiche di questi giorni. Anche alle prossime politiche del 2018 è certo che gli anti-renziani saranno di più dei renziani. Ma il risultato del voto non dipenderà da questo. Dipenderà dalla capacità del premier di arrivare al 40% al primo turno – cosa cui fermamente crede – o di battere il candidato del M5s al ballottaggio, sempreché il centro-destra non faccia il miracolo di ritrovare una unità di cui al momento non si vede la minima traccia. Nell’attesa vedremo cosa succederà alle prossime comunali.

 

Autostrade digitali superveloci

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Tlc. La copertura del territorio con la banda ultralarga a 100 Megabit al secondo è al 10,17% e dovrà arrivare all’85% entro il 2020

  • Fibra superveloce in una casa su 10
  • Dalla Ue in arrivo l’ok per i bandi nelle aree C e D – La Calabria svetta sui 30 Mbps

di  Banda largaAndrea Biondi  20 Aprile 2016     Il Sole 24 Ore

Attorno al 42% delle unità immobiliari coperte in banda ultralarga, di cui il 10,17% abilitate a un servizio sopra i 100 Mbps. E se si guarda al podio dei territori più cablati, al primo posto c’è la Calabria (77,87% delle unità immobiliari coperte, tutte oltre i 30 Mbps) e al secondo c’è la Campania (66,16% in 30 Mbps e 5,95% a 100 Mbps). La Lombardia e il Lazio hanno invece il primato per la copertura a 100 Megabit per secondo. Questa la mappa della cablatura in Italia, così come è disegnata dai dati Infratel (società in house del Mise) aggiornati a fine 2015. Una mappa da cui emerge che il 39,6% delle unità immobiliari è raggiunta dalla banda ultralarga a 30 Mbps ma solo il 10,17% a 100 Mbps, livello considerato il benchmarck sul quale fare discussioni e ragionamenti. Al netto delle sovrapposizioni (non è corretto fare la somma fra i due dati) la media nazionale delle unità immobiliari raggiunte dalla fibra è attorno al 42 per cento.

È su questa mappa che interverranno i bandi per le aree bianche C e D, quelle a fallimento di mercato, in dirittura d’arrivo (il premier Matteo Renzi ha indicato come data il 29 aprile, giorno dell’Internet Day). Su questo versante ieri è arrivata una buona notizia da Bruxelles: tutto starebbe andando per il verso giusto e non dovrebbero esserci ostacoli al placet ai bandi la cui ricaduta sarà la realizzazione di una rete in fibra, di proprietà statale, da dare in concessione ai realizzatori.

Dare uno sguardo all’Italia per come è cablata, restituisce un’immagine di un’Italia “sottosopra”. Attenzione però. La copertura a 100 Mbps vede penalizzate proprio regioni come la Calabria, in testa invece per copertura a 30 Mbps. E in definitiva le regioni che a 100 Mbps hanno copertura prossima allo zero sono 6. Dall’altra parte, anche a voler vedere il bicchiere mezzo pieno delle coperture a 30 Mbps, qui si parla pur sempre di coperture. L’adozione è ben altra cosa, con poco più di 1,4 milioni di clienti in banda ultralarga in Italia. Questo significa che i territori saranno pure cablati (e quelli del Sud lo sono perché hanno beneficiato di interventi pubblici a incentivo), ma da qui a portare il servizio ai cittadini ce ne passa.

Legge della domanda e dell’offerta e teoria della domanda che genera l’offerta. Tutto questo si interseca nelle discussioni che si stanno facendo in questo periodo, fra programmi di copertura dei privati, nuovi soggetti che si affacciano all’orizzonte (Enel Open Fiber), alleanze a geometria variabile (sul treno Enel sono saliti già Vodafone e Wind assicurando la propria clientela) e soggetti come Telecom e Fastweb che vogliono far pesare le proprie leadership: la prima nelle coperture (oltre 1.000 comuni coperti) e la seconda nella quota di mercato per clientela sulla banda ultralarga (46% contro il 38% di Telecom Italia, il 15% di Vodafone e l’1% di Wind, secondo elaborazioni su dati degli operatori a fine 2015).

«I tre passaggi concreti del Piano banda ultralagra sono stati l’approvazione voluta dal premier Renzi della delibera Cipe in agosto per 4,9 miliardi del Fsc (Fondo sviluppo e coesione) di cui 2,2 già sbloccati per le aree bianche, la decisione dell’intervento diretto nelle aree bianche (cluster C e D) e la firma dell’accordo Stato-Regioni l’11 febbraio scorso, una cornice che conferma che si tratta del primo piano davvero nazionale e non più di una somma di piani regionali: tutte le regioni hanno accettato il principio del fabbisogno reale», spiega il sottosegretario al Mise Antonello Giacomelli.

Toscana, Abruzzo, Lombardia, Veneto, Molise, Emilia-Romagna hanno sottoscritto l’intesa con il Mise per gli interventi sui territorio (che si svilupperanno grazie a fondi destinati alle regioni ma messi a disposizione del piano banda ultralarga) in arrivo con i bandi per le aree C e D. Intanto però la mappa che emerge dai dati Infratel evidenzia un territorio in cui c’è ancora tanto da lavorare. Occorre in tal senso tenere presente che l’ultima consultazione pubblica (conclusa il 7 dicembre 2015) fissa il livello di copertura in Banda ultralarga previsto al 2018 al 74% delle unità immobiliari di cui il 23% con connessioni oltre i 100Mbps (85% del territorio con connessioni oltre i 100Mbps e 100% con connessioni ad almeno 30Mbps è l’obiettivo al 2020).

Una pacca sulla spalla, tutto sommato inattesa, è intanto arrivata dalla Ue: l’Italia risulta essere al momento l’unico Paese che ha recepito la direttiva 61/2014 sulle norme per l’accelerazione dei tempi di posa della fibra e delle nuove tecniche di scavo.

Cuperlo dissolvi?

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L’insistenza cuperliana nel tentare di indebolire la leadership renziana suscita un sentimento che oscilla tra la tenerezza e l’irritazione.

L’artificiosità dell’argomentazione fa torto all’intelligenza; si confonde il “campo politico” che dovrebbe essere aggregata con la palude frequentata da rane gracchianti e zanzare che mal sopportano la necessaria azione politica intrapresa dal Premier per bonificarla, introducendovi elementi di riformismo operoso ed orientando l’attenzione del Paese sulle dirimenti questioni e drammatiche dell’apertura e della competizione nel mare aperto dell’agone internazionale.

Invece di trastullarsi nel salottino dei pensosi e sognanti il ritorno del leader maximo, Cuperlo si documenti e si cimenti sulle battaglie democratiche del tempo presente: sui contenuti e sui conflitti che l’azione di Governo deve affrontare tempestivamente in un quadro politico deteriorato dai beceri populismi e dai leziosi sinistrismi, sulle resistenze corporative al processo di indispensabile efficientamento dell’intero sistema amministrativo ed istituzionale.

Cuperlo

Etichettatura, la Commissione Ue latita

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Servono regole armonizzate, concordate e validate a livello europeo

di Etichettatura Luigi Scordamaglia*   17 Aprile 2016 Il Sole 24 Ore

«Dovrebbe essere l’organo esecutivo che rappresenta gli interessi dell’Europa nel suo complesso e vigila sulla corretta applicazione del diritto comunitario da parte dei Paesi membri, invece la Commissione europea sceglie di non scegliere.

Il mese scorso la Francia ha notificato alla Commissione una proposta di decreto che rende obbligatoria in etichetta l’indicazione d’origine di carni e latte utilizzati come ingredienti, nonché del latte fresco, per i soli prodotti trasformati e venduti sul territorio francese attraverso una procedura abbastanza anomala.

Innanzitutto è quantomeno irrituale il comportamento di un Ministro di uno Stato come la Francia che twitta di aver ricevuto l’approvazione informale dal Commissario europeo competente sul suo provvedimento, mentre l’atto legislativo in questione risulta essere ancora formalmente oggetto di analisi da parte dei servizi competenti della Commissione.

Martedì 12 aprile, a Bruxelles presso la Commissione europea si è svolta la Riunione del Comitato Permanente sulla Salute animale, Cibo e Mangimi che aveva all’ordine del giorno lo scambio di opinioni tra i 28 Paesi UE, oltre alla Norvegia, relativamente alla notifica del decreto francese . La stragrande maggioranza dei paesi si è detta contraria al provvedimento, e non poteva essere che così, perché la maggioranza vuole avere regole armonizzate, concordate e validate a livello europeo. Innescare una definitiva e irreversibile frammentazione del mercato unico europeo, cosa che il moltiplicarsi di norme come il decreto francese provocherebbe, è solo nell’interesse di chi non crede nell’Europa. Ora alla nostra filiera e al nostro Paese serve una prova di maturità. Bisogna resistere alla tentazione di riproporre anche da noi l’iniziativa protezionista francese e avere la forza ed il coraggio di portare la battaglia sull’origine a Bruxelles chiedendo regole valide e uniformi per tutti. E’ quindi necessario che anche da noi si ribadisca a gran voce quanto sia importante – ora più che mai – decidere e stabilire le regole sull’etichettatura degli alimenti nei competenti tavoli a livello europeo. Interventi nazionali di matrice protezionista violano e inficiano il mercato unico europeo e vanno pertanto contrastati e invalidati, percorso che deve essere portato avanti soprattutto dalla Commissione europea.

Come industria alimentare italiana il nostro obiettivo è anche difendere il mercato unico europeo e per questo non saremo mai favorevoli all’adozione di norme create e validate solo per i produttori italiani e non per quelli di altri Paesi che vendono nel nostro mercato.

Anche se informalmente, negli ambienti brussellesi si parla già di un’imminente approvazione formale da parte della Commissione, alla luce dell’impegno che sarebbe stato assunto al massimo livello politico, nonostante le forti perplessità tecniche esistenti.

Al di là della forma molto poco istituzionale e alquanto discutibile adottata dal Ministro francese, su questo provvedimento colpisce la schizofrenia del legislatore europeo che, da un lato pubblica studi che dimostrano come i benefici derivanti da simili iniziative per il consumatore sarebbero decisamente inferiori ai costi aggiuntivi che lo stesso sarebbe chiamato a pagare. Dall’altro chi legifera preferisce deresponsabilizzarsi autorizzando la Francia a procedere in senso opposto a quello ritenuto opportuno e validato a livello comunitario. Con l’aggravante della consapevolezza che questo esempio possa essere imitato da altri Paesi europei e che se così fosse porterebbe a una totale frammentazione del mercato unico europeo.

La domanda da porsi ora è: tutto questo nell’interesse di chi è fatto? Sicuramente non del consumatore, visto che sullo stesso mercato francese (e di quei Paesi che ne dovessero seguire l’esempio) i prodotti importati non offriranno le stesse indicazioni e garanzie di quelli nazionali, creando e incrementando così confusione e disinformazione. E nemmeno si tutela l’interesse dei produttori più seri, considerando che gli stessi dovranno, tra l’altro, utilizzare etichette diverse a seconda che il prodotto sia destinato al mercato nazionale o a quello estero. L’unico e solo interesse che traspare è, in realtà, quello di chi vuole mantenere l’Europa debole, divisa, incapace e timorosa di decidere, preoccupato solo di non disturbare i Paesi che contano.

Vedremo cosa succederà nei prossimi giorni al provvedimento francese ma la Commissione sembra decisa ad avallare il provvedimento. Meglio farebbe, a questo punto, l’esecutivo europeo a dichiarare apertamente la propria “volontà di non scegliere” sulla base d’ interessi superiori, che però risultano poco comprensibili a chi è fuori da certe logiche. Con buona pace dei principi fondanti l’Unione e soprattutto di quei cittadini che si pretenderebbe di tutelare”.

*Luigi Scordamaglia è Presidente

della Federazione italiana

dell’industria alimentare

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Riportare l’etica nella politica

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ResistentiTodorov narra le vite coraggiose contro i totalitarismi e le democrazie addormentate, da Mandela a Tillion

di Goffredo Fofi 17 Aprile 2016   Il Sole 24 Ore

«Dire no è un’affermazione», ha scritto quella gran donna che è stata Germaine Tillion, una delle protagoniste della raccolta di scritti che Tzvetan Todorov ha riunito per esaltare lo spirito di resistenza di individui portati ad esempio di fronte al peso nefasto della storia, o meglio di non-sottomissione e in definitiva di non-violenza o di riduzione della violenza solo alle situazioni davvero estreme. «Dire no all’omicidio, alla crudeltà, alla pena di morte» è un fatto eminentemente positivo, è dire sì alla vita, alla solidarietà tra gli umani, alla comprensione dell’altro anche quando diverso da noi e nostro nemico, nella convinzione che c’è in lui, sempre, qualcosa che appartiene anche a noi e su cui può essere possibile fare leva in un’opera di confronto e di convinzione.

I personaggi storici, della storia del Novecento ma anche del nostro secolo, che Todorov ha scelto di mettere insieme in Resistenti, sono tra loro, in partenza, molto diversi. Anche quando sono partiti da opinioni e sentimenti non conciliabili con quelli dei loro nemici e hanno rivendicato le ragioni di una giusta resistenza al nazismo e allo stalinismo, per esempio, o al razzismo, al pregiudizio, alla negazione dell’altro, il loro punto d’arrivo è quello della compassione (che il papa attuale chiamerebbe misericordia). Questo è accaduto perfino a chi, come Malcolm X, era partito da idee ben diverse che ha cambiato nel corso della lotta grazie – e non è un paradosso – all’influenza della religione musulmana (e ha pagato questa trasformazione con la vita, ucciso non dalla polizia ma, come era successo allo stesso Gandhi, da uno della sua parte deluso dalle sue nuove posizioni, di dialogo, di confronto e di compromesso con la parte avversa, i bianchi).

Ma chi sono i “resistenti” di cui parla Todorov, affrontandoli, curiosamente, a coppie? Sono Etty Hillesum e Germaine Tillion, Boris Pasternak e Aleksandr Solženicyn, Nelson Mandela e Malcolm X e alla fine, nel capitolo più breve, due resistenti contemporanei non altrettanto noti, David Shulman, un israeliano ostinato nell’ascoltare le ragioni dei palestinesi e nella fiducia nel dialogo, e Edward Snowden, un mite statunitense che ha rivelato i segreti del sistema di spionaggio ipermoderno su tutti e su tutto portato avanti dal governo del suo Paese contro ogni sua stessa norma costituzionale. A unirli – e ovviamente Todorov avrebbe potuto portare molti altri esempi così come ha fatto di recente una nostra storica, Anna Bravo, e molti di noi potrebbero ancora fare – è lo sforzo di riportare nella politica la dimensione della morale, dell’etica. Lo sguardo di Todorov è giustamente impietoso nei confronti della degenerazione della politica nel nostro tempo, ma da questo consegue che, a maggior ragione, si tratta oggi di ripartire da quell’esigenza e dunque anche dagli esempi di chi ha provato a discutere e cambiare la politica perfino nelle situazioni più difficili, perfino impossibili. In modi diversi, la Hillesum e la Tillion di fronte al regime concentrazionario e la seconda, più tardi, di fronte al conflitto coloniale tra Francia e Algeria, Pasternak e Solženicyn di fronte al regime stalinista (ed è significativo che il capitolo che riguarda il secondo finisca mettendo a confronto le scelte pubbliche e private dell’autore di Arcipelago Gulag con quelle dell’autore del Dottor Zivago: mettendo il lettore in grado di scegliere tra due posizioni ugualmente significative), Mandela e Malcolm X di fronte a un regime di apartheid – e sì, la figura di Mandela giganteggia in questo libro per la sua lungimiranza politica e perché, in definitiva, è quello che più dal di dentro, e negli anni della sua liberazione dal centro del potere politico, ha cercato di «portare l’etica nella politica» accettando e praticando il compromesso. (A questo proposito torna alla mente quanto ha scritto sulla giusta considerazione del termine compromesso uno scrittore coraggioso come Amos Oz).

Sono tantissimi gli spunti che Resistenti offre al lettore angosciato dalla deriva della politica, dall’irresponsabilità dei potenti di fronte al presente e al futuro del pianeta e del genere umano in un’epoca di mutazioni incessanti, malamente manovrate nell’interesse di pochi, e di prevaricazioni che producono nuovi scontri e nuova barbarie invece che nuove speranze. Ma anche di fronte all’acquiescenza delle masse, frastornate da pubblicità e ideologismi, dagli aspetti più antichi e più nuovi del fanatismo, quello consumista come quello religioso.

Su ciascuno dei percorsi seguiti dai personaggi con i quali Todorov ci propone il confronto si potrebbe discutere a lungo, vedendo i modi in cui le loro convinzioni si sono formate, le loro scelte si sono esplicate. Aggiungendo altri nomi, altri esempi (anche per l’Italia, tanti, ma di ieri piuttosto che di oggi: da Gobetti e Salvemini a Capitini e Olivetti, da don Mazzolari ad Alex Langer…), anche se gli esempi portati da Todorov sono di individui che hanno dovuto incontrare «un male vissuto come estremo» da cui è conseguita la radicalità delle loro scelte, perché è da un dolore estremo che è nata in loro «la piena liberazione» e «dalla paura totale» è nato «il coraggio totale». Non per questo il loro esempio è inimitabile, ed è anche dal male che si vede fare agli altri e non solo da quello che si subisce direttamente che nasce l’impulso della “resistenza”, della non-accettazione.

Ad accomunare i protagonisti di Todorov a tanti altri sono la perseveranza nelle scelte di fondo, prima che politiche ma riportate alla e nella politica, il rifiuto di odiare i nemici e l’aiuto portato alle vittime, il dovere della testimonianza diretta, la distinzione tra il “peccato” e il “peccatore”, l’amore per la giustizia e la verità e, in definitiva, il ripudio del narcisismo consolatorio e ipocrita che miete oggi milioni di vittime nel mondo occidentale e non solo in quello e di una cultura che spinge alla mistificazione e all’addormentamento delle coscienze invece che al loro risveglio. In definitiva, il richiamo che le vite narrate con tanta passione da Todorov ci propongono è a quella virtù che tanti hanno messo e ancora provano a mettere al di sopra di ogni altra scelta: l’amore del prossimo che, diceva don Milani alla fine della sua Lettera, resta in definitiva la cosa più importante e definitiva di tutte. «Io sono gli altri» scrisse un nostro giovane poeta, Rocco Scotellaro.

I modi di «riportare l’etica nella politica» possono essere molti, e per fortuna non tutti estremi, ma dagli esempi estremi (radicali) si ha sempre molto da imparare, ricordando infine, con Todorov, che «l’uomo che fallisce nel tentativo di aiutare il prossimo non è meno virtuoso di chi ci riesce». Se in passato, dice ancora Todorov, si è trattato di resistere a situazioni spaventose, bisogna pur inventare i modi di saper resistere attivamente anche «a un presente vuoto» o in cui lo spaventoso rischia di riemergere o sta riemergendo.

Tzvetan Todorov, Resistenti , traduzione di Emanuele Lana, Garzanti, Milano, pagg. 218, € 17

 

 

 

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