Una democrazia fragile da curare e difendere (1)

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IL Paese sta vivendo un’intensa e travagliata stagione di passaggio politico-istituzionale in cui il mutamento della rappresentanza e della stessa forma-partito si accompagna e si intreccia con il processo riformatore ccon cui si mira ad incidere sia sullo strumento elettorale che sulla struttura istituzionale. Si tratta quindi di un tempo in cui il confronto, la riflessione culturale e la ricerca storica trovano un terrreno fertile per approfondimenti e focalizzazione di temi e questioni cruciali che hanno connotato la “qualità della nostra democrazia” e della sua possibile evoluzione. Ci proponiamo quindi di passare in rassegna e mettere in evidenza testi e pubblicazioni che affrontano la vicenda storica italiana recente e che aiutano a contestualizzare e comprendere meglio lo svolgimento, gli interrogativi ed i dilemmi della cronaca politica.

Il primo volume preso in esame è “Difendere la democrazia” di Alessandro Naccarato – Carocci Editore -, in cui il Deputato padovano del PD si propone di recuperare la memoria ed il significato dell’impegno del “PCI contro la lotta armata”: un contributo prezioso per una molteplicità di ragioni, ma in particolare perché l’analisi storica si snoda con un’esplorazione documentale inedita e l’osservazione – di un periodo intriso di sangue, asprezze ideologiche e tensioni – è “embedded”: l’autore cioè indaga e conosce bene quella Padova che ha costituito l’epicentro per la predicazione di “maestri” davvero malvagi e l’azione di gruppi sociali antagonisti e bande armate protagonisti di violenze inaudite, la cui memoria è fondamentale per saper riconoscere i fattori di vunerabilità della giovane democrazia italiana.

PRESENTAZIONE

Difendere la democrazia. Il Pci contro la lotta armata.

copertinaFino ad oggi la ricerca storica sull’eversione rossa si è concentrata soprattutto sui terroristi dimenticando le vittime e l’attività delle istituzioni, delle forze politiche e dei sindacati. Fino alla strage di via Fani, i ritardi e l’incapacità di comprendere la pericolosità delle teorie e delle pratiche eversive consentirono alle formazioni armate di agire nella sostanziale impunità e di svilupparsi sul piano logistico e militare.

Il Pci quando comprese i pericoli del terrorismo rosso? Come reagì? Questi sono gli interrogativi alla base del presente studio. Il volume, attraverso l’analisi dei documenti dell’epoca, ricostruisce l’azione decisiva svolta dal Pci nella sconfitta del terrorismo. Lo scenario nazionale viene affiancato dall’approfondimento della situazione di Padova, una delle città più colpite dalla violenza. Nel libro si incontrano alcuni protagonisti del gruppo dirigente comunista nazionale: Berlinguer, Pecchioli, Amendola, Napolitano, Chiaromonte, Lama, Bufalini, Violante, D’Alema; e padovano: Busetto, Papalia, Longo, Zanonato.

 

Sottovalutazioni e primi allarmi

Alla fine degli anni Sessanta il Pci fu sorpreso dalle posizioni rivoluzionarie dei movimenti studenteschi e si confrontò con i gruppi senza affrontare le profonde differenze ideologiche esistenti. L’organizzazione giovanile del partito comunista, la Fgci, fu travolta dall’irruzione delle nuove istanze ed entrò in crisi.

Nel 1972 la morte di Giangiacomo Feltrinelli e l’assassinio del commissario Luigi Calabresi determinarono una cambiamento di linea. Il gruppo dirigente comunista intuì l’esistenza di formazioni armate di sinistra con finalità eversive e decise di rompere il rapporto con l’estremismo anteponendo alla potenziale espansione del proprio consenso la difesa della democrazia e della Costituzione. Enrico Berlinguer, diventato segretario nazionale del Pci a marzo del 1972, nel Comitato centrale del febbraio 1973 spiegò che non era più sufficiente la polemica ideologica contro la diffusione della violenza, e promosse una mobilitazione per isolare gli estremisti. Il Pci riaffermò la propria strategia: dalla svolta di Salerno aveva scelto la strada della democrazia parlamentare ed era diventato un partito di massa che si batteva per realizzare la Costituzione e introdurre elementi di socialismo attraverso le riforme.

Nello stesso periodo il Pci si convinse di avere sottovalutato e alimentato per ragioni elettorali i contenuti negativi introdotti dal Sessantotto. Infatti l’estensione dei diritti individuali non era stata accompagnata da un corrispondente aumento dei doveri verso la sfera pubblica e si era diffusa una generalizzata richiesta di tutele particolari senza alcuna valutazione degli effetti devastanti sui futuri bilanci dello Stato. Si diffusero semplicistiche teorie sulla continuità tra fascismo e democrazia repubblicana, che descrivevano come simili i regimi autoritari e i paesi democratici a economia capitalista; si creò così uno spazio di consenso e di agibilità per la spinta eversiva per abbattere lo Stato democratico, per colpirne e ucciderne i rappresentanti a tutti i livelli: magistrati, politici, poliziotti, indistintamente accomunati nella categoria di “servi dello Stato”.

I successi nelle elezioni amministrative del 1975 e in quelle politiche del 1976 aprirono ai comunisti la prospettiva del governo con la strategia del compromesso storico, elaborata da Berlinguer nell’autunno del 1973 dopo il colpo di stato in Cile. I rapporti con la Dc si intensificarono e maturò un accordo per sostenere un governo composto solo da ministri democristiani. Dopo le elezioni del 1976, a fine luglio, Giulio Andreotti diventò presidente del consiglio di un monocolore Dc con l’astensione decisiva del Pci.

 

Il Pci tra fermezza e garantismo

Dal 1976 il Pci intraprese una lotta decisa contro il terrorismo rosso. Il Comitato centrale del 18 ottobre costituì una struttura specifica della Direzione, la sezione problemi dello Stato, che venne affidata a Ugo Pecchioli, un dirigente autorevole: ex comandante partigiano e poi membro della Segreteria e responsabile dell’organizzazione del partito. La scelta segnò un punto di svolta perché promosse e organizzò un’attività intensa contro il terrorismo a livello centrale e nelle principali federazioni provinciali.

Nel febbraio 1977, dopo l’aggressione degli autonomi al comizio del segretario generale della Cgil, Luciano Lama, all’università di Roma, il Pci per primo colse i rapporti tra Autonomia operaia, Brigate rosse e Prima linea e individuò nelle loro relazioni dialettiche il partito della lotta armata. In pochi mesi il Pci diventò la forza più attiva contro il terrorismo impegnando tutta la propria organizzazione. Vennero promossi convegni di studio e iniziative pubbliche, diffusi volantini e opuscoli per orientare gli iscritti e la popolazione. Inoltre il partito si attivò per rompere il muro di omertà che aveva protetto i terroristi e per superare alcuni luoghi comuni che descrivevano la polizia e i giudici come strumenti per la repressione antipopolare.

Nel 1978, dopo la strage di via Fani, il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro, ci fu una reazione anche degli apparati di sicurezza. Nei mesi successivi iniziò a dare i primi risultati la collaborazione promossa dal Pci tra cittadini, forze dell’ordine e magistratura: ci furono importanti arresti di terroristi e numerosi covi vennero individuati. La vicenda Moro cambiò il quadro politico e senza il leader democristiano i rapporti tra Dc e Pci si logorarono segnando la fine dei governi di solidarietà nazionale e della strategia del compromesso storico.

Dopo l’avvio a Padova e nelle principali città italiane delle indagini su Autonomia e sul partito armato, a sinistra si pose la questione del garantismo. I giudici furono accusati di avere costruito una montatura per perseguire reati d’opinione: la tesi venne esposta in un documento sottoscritto da 55 intellettuali, tra cui alcuni dirigenti e militanti del Pci, che venne pubblicato nel settembre 1979 da “Paese sera” e “la Repubblica”. I firmatari sostenevano che le imputazioni verso i capi di Autonomia non fossero suffragate da prove. I comunisti accusarono il documento di essere ambiguo perché si poneva l’obiettivo di salvare i livelli di libertà dagli arbitri del potere piuttosto che quello di salvare la democrazia dalla violenza eversiva.

Nel 1983, dopo che il terrorismo aveva subito colpi durissimi ed era entrato in una crisi irreversibile, nel Pci si riaprì il dibattito sull’eversione. In occasione della richiesta di procedere in giudizio e di arrestare Antonio Negri, scarcerato perché eletto deputato del Partito radicale, il Pci sostenne l’autorizzazione al processo ma propose di sospendere la decisione sull’arresto, provocando una profonda divisione interna.

A fine luglio nella Direzione si confrontarono due punti di vista opposti e il gruppo dirigente si spaccò a metà: 11 favorevoli all’arresto e 11 contrari. Berlinguer, prendendo atto della divisione, rimise la decisione ai deputati del Pci. Il gruppo parlamentare dopo lunghe riunioni propose di sospendere il voto sulla cattura fino alla sentenza di primo grado. La federazione di Padova, in aperta polemica con questa proposta, si schierò per l’arresto, sostenuta da numerosi docenti universitari che manifestarono amarezza e delusione per il cambiamento della linea comunista.

Perché una parte della sinistra e anche del Pci si schierò contro le indagini sull’eversione? I documenti della sezione problemi dello Stato offrono una risposta evidenziando due aspetti: la consapevolezza della presenza di simpatie verso i terroristi; la preoccupazione che alcune parole d’ordine eversive potessero trovare consensi nella propria base.

Per molti militanti della sinistra i terroristi non furono percepiti come avversari, furono a lungo considerati “compagni” che sbagliavano. Solo in Italia la violenza eversiva rossa fu accompagnata da una vasta area di complicità, indulgenza, e tolleranza e ci fu un forte rapporto tra gruppi eversivi, come Autonomia, e alcuni ambienti intellettuali e universitari. La suggestione rivoluzionaria e insurrezionalista era ancora presente in persone che avevano militato nei gruppi estremisti fino ai primi anni Settanta e poi si erano allontanate ed erano approdate ad altre organizzazioni della sinistra storica, come il Pci, il Psi e i sindacati. A sinistra nel tempo si era sedimentato, attorno alle teorie e alla propaganda di diverse formazioni estremiste contro le istituzioni, un terreno ideologico ostile alla magistratura e alle forze dell’ordine. Queste idee si sommavano a un antistatalismo diffuso in ampi settori della popolazione per diverse ragioni storiche e sociali: il rancore di parte del mondo cattolico contro uno Stato che si stava laicizzando, il ribellismo endemico, soprattutto nel Sud, dei soggetti emarginati come i disoccupati, l’evasione fiscale di numerosi imprenditori e liberi professionisti che usavano i servizi dello Stato senza pagarli, le suggestioni rivoluzionarie e anarcoidi dei reduci dei movimenti della fine degli anni Sessanta, le pulsioni massimaliste ed estremiste presenti in alcuni settori dei sindacati.

 

Padova

Padova costituisce un caso di particolare interesse per la presenza di numerosi dirigenti e militanti di Autonomia operaia organizzata e delle collegate bande armate: i Collettivi politici veneti e il Fronte comunista combattente. La città fu un laboratorio delle strategie e delle pratiche eversive, come ad esempio le notti dei fuochi e l’illegalità di massa: nel territorio padovano si concentrò un elevato numero di attentati e violenze che causò per lungo tempo un clima di terrore e di intimidazione.

A Padova si manifestò con straordinaria forza anche la reazione contro l’eversione da parte di alcuni partiti e del Pci in particolare. Il partito aveva affrontato nel 1962 uno scontro interno durissimo con il gruppo “Viva il leninismo”, che aveva contestato la via italiana al socialismo con posizioni estremiste. I dissidenti furono espulsi tra il 1962 e il 1965. I vertici della federazione furono stravolti dalla vicenda e si aprì una fase di profondo rinnovamento. Si affermò un gruppo dirigente con un orientamento politico in linea con la strategia nazionale che, isolando e contrastando ogni forma di estremismo, formò una generazione di giovani quadri capaci e preparati, tra cui Franco Longo, che diresse la federazione durante il periodo più violento dell’offensiva eversiva dal 1975 al 1983. L’attività del Pci di Padova contro l’eversione venne indicata come esempio da seguire durante il XV congresso nazionale del partito e dal segretario Berlinguer. I comunisti diventarono il punto di riferimento per molti docenti e cittadini che volevano contrastare la violenza e il terrorismo, conquistando credibilità e autorevolezza tra magistrati, forze dell’ordine, sindacati e associazioni democratiche.

La lotta al terrorismo trovò un notevole impulso dall’azione investigativa avviata a Padova dal sostituto procuratore Pietro Calogero, che individuò per la prima volta la struttura del partito armato e i rapporti tra Br, Prima linea, Autonomia e le formazioni minori. Dalle prove e dagli elementi raccolti in quell’indagine si svilupparono analoghe azioni giudiziarie nelle principali città italiane che determinarono lo smantellamento della rete eversiva di Autonomia e delle formazioni terroriste. Nei mesi successivi agli arresti, prima dell’inizio dei processi, si affermò un dato empirico a sostegno dell’intuizione e del metodo investigativi avviati dalla procura di Padova: il numero delle violenze diminuì drasticamente. Gli attentati commessi dalle organizzazioni armate di sinistra in provincia di Padova furono 1.036 nel 1977, raggiunsero il tetto massimo di 1.647 nel 1978, iniziarono a diminuire nel 1979 diventando 1.234, per poi scendere a 350 nel 1980, a 185 nel 1981 e a 102 nel 1982. I successivi processi confermarono il lavoro di Calogero: accertarono che Potere operaio e Autonomia si erano strutturate con un “doppio livello”, uno legale e palese per garantire l’impunità agli associati, e uno illegale e occulto per realizzare la lotta armata; dimostrarono l’esistenza di un’alleanza tra le diverse formazioni armate, costituita da rapporti politici, logistici e operativi, per raggiungere il progetto comune dell’insurrezione armata contro lo Stato.

 

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