Il paradosso dell’innovazione

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C’è un “paradosso dell’innovazione”che smentisce il mito dell’età dell’oro e del futuro ormai prossimo Ci sono più scienziati e ingegneri in America che mai prima d’ora. Il budget per ricerca e sviluppo è ai massimi, e ogni mese sono annunciate nuove scoperte.

Ma niente di tutto questo si è tradotto in miglioramenti dello standard di vita degli americani. Una provocazione tratto dal Wall Street Journal (7/12)
Articolo pubblicato paradosso-innovazione da il Foglio 11.12.16

I FRUTTI BASSI DELL’ALBERO DELLA SCIENZA,DELLA MEDICINA E DELLA TECNOLOGIASONO GIÀ STATI COLTI,E LE NUOVE INNOVAZIONI SONO PIÙ COSTOSE,COMPLESSE E PIÙ PRONE AL FALLIMENTO.MA QUEL CHE SI STA PERDENDO,SOPRATTUTTO,È LA PROPENSIONE AD ACCETTARE CHE LE COSE VADANO MALE
A giudicare dalle apparenze, viviamo in un’età dell’oro dell’innovazione. Ogni mese ci sono nuovi avanzamenti nell’intelligenza artificiale, nella terapia genetica, nella robotica, nel software delle app. La quota di pil dedicata a ricerca e sviluppo è al suo massimo di tutti i tempi. Ci sono più scienziati e ingegneri in America che mai prima d’ora. Ma niente di tutto questo si è tradotto in miglioramenti significativi dello standard di vita degli americani”. Così Greg Ip introduce sul Wall Street Journal il “paradosso dell’innovazione”, un gigantesco speciale composto da più parti. Riportiamo ampi stralci del pezzo introduttivo, che si concentra sugli Stati Uniti ma presenta ampie ricadute anche nel resto dell’occidente. “Le economie crescono affidando a una forza lavoro in espansione più capitale sotto forma di equipaggiamento, software e costruzioni, e poi combinando il capitale e la produzione in maniera creativa. Quest’ultimo elemento, chiamato ‘produttività totale dei fattori’, mostra il contributo dell’innovazione. La sua crescita ha raggiunto il picco negli anni Cinquanta con un 3,4 per cento all’anno, nel momento in cui scoperte precedenti come l’elettricità, l’aviazione e gli antibiotici fornivano il loro massimo impatto. Poi è scesa lentamente fino alla media patetica dello 0,5 per cento negli ultimi dieci anni. Eccezion fatta per la tecnologia personale, i miglioramenti nella vita di tutti i giorni sono stati incrementali, non rivoluzionari. Le case e le automobili sono ancora simili a com’erano una generazione fa. Gli aeroplani non volano più veloci che negli anni Sessanta. Nessuna delle 20 medicine più prescritte in America è stata immessa nel mercato nell’ultimo decennio. Il calo dell’innovazione è una delle ragioni principali per cui gli standard di vita degli americani sono stagnanti dal 2000. E senza una reazione, questa stagnazione probabilmente continuerà, peggiorando il malessere che ha lasciato la classe media così insoddisfatta”. Gli economisti dibattono da tempo sulle ragioni di questa stagnazione, scrive il Wall Street Journal, e due sembrano le motivazioni principali: “I frutti bassi dell’albero della scienza, della medicina e della tecnologia sono già stati colti, e le nuove innovazioni sono più costose, complesse e più prone al fallimento. L’innovazione, inoltre, si verifica solo grazie a tentativi ed errori, ma la società è diventata meno disposta al rischio”. La carestia dell’innovazione non è irrisolvibile, tuttavia. Il mercato americano è ricco di capitali, e l’attesa intorno ad alcune grandi scommesse come le auto che si guidano da sole, il viaggio nello spazio e i droni è giustificata. Gli economisti più ottimisti, per esempio, sostengono che le rivoluzioni hanno bisogno di tempo per trasformare l’economia: “Ci sono voluti 40 anni dall’introduzione della lampadina elettrica nel 1879 perché l’elettricità avesse un impatto misurabile nella crescita nazionale. Ci sono voluti 20 anni dall’introduzione del personal computer negli anni Settanta perché l’information technology avesse effetti sulla produttività”. Uno dei campi più promettenti è senz’altro quello dell’intelligenza artificiale, che quando giungerà a maturità avrà effetti sensazionali. Ma eccezion fatta per l’information technology, gli ostacoli all’innovazione stanno diventando più alti, non meno, soprattutto nel campo della medicina. “Nel secolo scorso, i vaccini, gli antibiotici e l’acqua pulita hanno annichilito i grandi sterminatori dell’umanità. I primi ricercatori erano sostenuti da teorie efficienti su come attaccare le malattie comuni, e questo rendeva facile capire quale componente avrebbe potuto dare una cura. La maggior parte di quelle malattie comuni oggi ha una terapia. ‘Non c’è più una ragione commerciale o scientifica per continuare la ricerca sulle medicine contro le ulcere allo stomaco’, dice Jack Scannell del Centro per l’avanzamento dell’innovazione medica sostenibile dell’Università di Oxford. Quel che resta, dice, sono malattie co
me l’Alzheimer, contro le quali gli scienziati non hanno una teoria efficiente di trattamento, cosa che finora ha portato a innumerevoli vicoli ciechi. I risultati declinanti della ricerca medica sono illustrati in maniera evidente da un nuovo studio di Charles Jones dell’Università di Stanford, che ha collaborato con tre coautori. Ha scoperto che nel decennio prima del 1985 gli anni di vita salvati grazie al trattamento per il cancro al seno sono aumentati decisamente ogni anno, insieme al volume della ricerca. Ma a partire dal 1985, i miglioramenti nella mortalità hanno rallentato. Gli studiosi hanno calcolato che ogni nuovo esperimento pubblicato aggiungeva 16 anni di vita per 100 mila persone nel 1985, e che questo dato si è ridotto a un anno per 100 mila persone nel 2006. Hanno scoperto lo stesso pattern nei campi dell’agricoltura e dei semiconduttori: la produttività per ricercatore è calata drasticamente”. “La necessità di risolvere i danni che le innovazioni passate – bruciare carburanti fossili, per esempio – hanno fatto all’ambiente e alla salute umana sta inoltre affossando gli sforzi innovativi. Questo incide direttamente sul portafoglio del consumatore. La porzione del prezzo di un’auto che deve essere pagata per venire incontro ai regolamenti sulla sicurezza e sull’efficienza energetica è passata da zero al 22 per cento, vale a dire dai 5.000 ai 25.000 dollari per macchina, secondo Sean McAlinden, un economista del Center for automotive research, un think tank sostenuto dall’industria automobilistica. Queste regolamentazioni hanno portato dei benefici: gli incidenti mortali in autostrada sono diminuiti dalla fine degli anni Sessanta a oggi, e l’aria è più pulita. McAlinden nota che i consumatori forse non avrebbero comprato queste caratteristiche se gliene fosse stata data la possibilità”. Il Wsj fa l’esempio delle auto elettriche, che costano di più e hanno performance migliori delle auto a benzina, con batterie che rubano spazio, aggiungono peso e hanno una portata limitata, specie a temperature estreme. Per questo le vendite stanno diminuendo: i veicoli elettrici e ibridi insieme formano l’1,9 per cento delle vendite in America secondo Edmunds.com, e questo è il dato più basso dal 2006. “Le auto elettriche non offrono ancora ‘un’immagine di valore che attira il consumatore mainstream’, dice John Viera, il capo del settore sostenibilità della Ford Motor. Lui mette a confronto l’elettrico con EcoBoost, una tecnologia sviluppata da Ford sui motori a benzina che ottiene lo stesso potere con meno cilindri. ‘La cosa buona è che ottieni i miglioramenti economici della benzina senza perdite nella performance’, dice. ‘Costa di più, ma il consumatore preferisce pagare per una tecnologia così piuttosto che per un veicolo elettrico’”. “L’innovazione procede per tentativi ed errori, e a volte gli errori uccidono le persone. I disastri aerei, le perdite di materiale tossico e le crisi finanziarie portano sempre a nuove regolamentazioni che rendono il mondo più sicuro, ma alzano l’asticella per le innovazioni future. L’imperativo del dopo crisi di evitare un altro crollo finanziario ha portato a regolamenti dei mercati più duri che hanno ridotto i prestiti per le case, per le carte di credito e per l’imprenditoria, che sono spesso il modo con cui i nuovi business si finanziano”. Secondo il Wall Street Journal, l’America sta diventando sempre più avversa al rischio. L’innovazione è un processo confuso che spesso ha delle conseguenze negative prima di raggiungere il successo, e gli americani (e non solo, aggiungiamo noi) sono meno pronti ad affrontare il peso di queste conseguenze negative, e ad accettare il fatto che le cose possono andare male. Un esempio perfetto di questo atteggiamento sono i droni. “Gli hobbisti e i militari hanno fatto volare droni per anni, ma i droni non offrivano molti vantaggi commerciali rispetto all’aviazione a guida umana. Poi, nell’ultimo decennio si è abbassato drasticamente il costo di un componente im
portantissimo, il giroscopio che tiene il drone a livello, visto che questo componente ha iniziato a essere prodotto in massa per gli smartphone. Ma nonostante questo il volo dei droni a scopo commerciale era illegale, perché c’era bisogno dell’approvazione della Federal aviation administration (Faa), che è pensata per regolare i voli umani e ha come criterio fondamentale che ogni volo sia guidato da un pilota autorizzato ufficialmente”. “Su richiesta del Congresso, la Faa ha introdotto l’anno scorso nuove regole che continuano a restringere il campo operativo dei droni. Devono stare nel campo visivo di chi li guida a distanza e al di sotto di una certa altitudine, per evitare il rischio di collisione con altri velivoli. Eli Dourado, studioso al Mercatus Institute, think tank pro libero mercato, pensa che questo sia eccessivo. Il numero degli uccelli è di gran lunga maggiore di quello dei droni. Ma in 25 anni ci sono state solo 12 collisioni fatali tra un veicolo aereo e uccelli, e l’unico incidente che ha coinvolto un aereo di linea non ha riguardato uccelli: il velivolo ha colpito un paio di cervi mentre atterrava. Le restrizioni continue sui droni commerciali non limitano soltanto il loro uso per le consegne commerciali come vorrebbe Amazon, ma anche attività che potrebbero salvare la vita delle persone”. Per esempio, gli ispettori delle ferrovie americane devono controllare le linee in luoghi spesso impervi e pericolosi, e l’uso di droni con telecamera faciliterebbe il loro lavoro. I droni avrebbero utilità fondamentali anche nei disastri come i deragliamenti. Nonostante queste difficoltà, però, il Wall Street Journal ricorda che l’innovazione continua a marciare, in alcuni settori a passo “eccezionale”: sono soprattuto le compagnie che si occupano di internet e degli smartphone. Amazon, per esempio, sta “tirando su quasi da sola” la produttività nel settore del commercio al dettaglio. “J.P. Morgan ha notato che in media un negozio su internet genera 1,3 milioni di dollari a impiegato, contro la media di 279 mila dollari per impiegato dei negozi di mattoni. Con la crescita delle quote di mercato di Amazon, è cresciuta anche la produttività dell’intera industria. L’output del settore commerciale è aumentato del 3 per cento l’anno scorso, contro lo 0,8 per cento del business nel suo totale”. “C’è un lato meno incoraggiante di questo boom. Uno studio della Organization for Economic Cooperation and Development ha mostrato che questo aumento della produttività è accelerato nelle compagnie “di frontiera”, che usano i processi e le tecnologie più efficienti, ma rallentato nelle altre società. In altre parole, la produttività è trattenuta dall’incapacità dei competitor di raggiungere Amazon, Facebook e Google. Gli autori ritengono che questo succede perché le nuove tecnologie sono l’amalgama di tecnologie e processi di business che sono difficili da replicare e che sono spesso protetti da brevetto”. Finché le compagnie di frontiera continuano a innovare, la produttività continuerà a crescere, spiega il Wall Street Journal. Il rischio, però, è che una volta che queste compagnie diventeranno dominanti saranno irraggiungibili per tutti i competitor, e questo ridurrà la necessità di innovazione. Come risolvere il paradosso dell’innovazione? “Un modo è approfittare meglio della conoscenza negli altri paesi. Storicamente, i paesi poveri raggiungono quelli ricchi copiando le loro idee, come la Cina ha fatto alla perfezione. Ora però il flusso di idee può circolare dalla parte opposta, visto che il volume della ricerca scientifica sta esplodendo in Cina e India. Inoltre, gli enti regolatori potrebbero diventare più tolleranti nei confronti del rischio. Le auto che si guidano da sole sono un buon esempio che lo stanno diventando”. Il Wall Street Journal cita come esempio il fatto che, nonostante un incidente mortale che ha coinvolto un guidatore nell’Ohio al volante di una Tesla con innestata la modalità “autopilota”, l’ente regolatore che si occupa del settore ha deciso di non indurire le regole che avrebbero rallentato il processo dell’innovazione. “‘E’ un modello molto diverso da quello a cui siamo abituati’, dice Anthony Foxx, il segretario dei Trasporti. Gli standard della sicurezza automobilistica di solito sono molto prescrittivi, aggiunge. Ma questa volta “stiamo lasciando spazio affinché l’industria stabilisca approcci alla sicurezza a cui potremmo non avere ancora pensato”.

Nasce l’Erasmus del Volontariato

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Bruxelles. La Commissione Ue ha presentato il Corpo europeo di solidarietà che dovrà mobilitare 100mila giovani entro il 2020

Beda Romano  Il Sole 24 Ore   8 dicembre 2016

erasmus
Calamità naturali, ambiente, sanità, istruzione e assistenza migranti i campi d’attività
La Commissione europea ha presentato ieri l’atteso progetto di Corpo europeo di solidarietà, una iniziativa che ha l’obiettivo di creare maggiore vicinanza tra i govani europei, così come di dare alle generazioni più giovani nuove opportunità e nuove esperienze nel mondo del volontariato. Nel contempo, l’esecutivo comunitario ha illustrato il nuovo programma comunitario ErasmusPro che deve servire a facilitare l’ottenimento di periodi di apprendistato in giro per l’Europa.
Il nuovo Corpo europeo di solidarietà offrirà opportunità di volontariato, di stage o di apprendistato di una durata che potrà andare dai due ai dodici mesi. Il nuovo organismo, che nasce sulla falsariga dell’Esercito della Salvezza, sarà attivo nei campi dell’istruzione, della sanità, dei disastri naturali, della protezione ambientale, dell’integrazione e dell’assistenza degli immigrati e dei rifugiati. L’iniziativa riguarda i giovani che hanno tra i 18 e i 30 anni.
L’obiettivo è che vi siano 100mila partecipanti entro il 2020. «Il Corpo europeo di solidarità – ha spiegato il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker –. creerà opportunità per i giovani che hanno voglia di dare un contributo significativo alla società e mostrare solidarietà (…) Ciò è per me l’essenza stessa dell’Unione europea. Ciò che ci lega non sono i Trattati o gli interessi economici o industriali, ma i nostri valori. Coloro che lavorano da volontari vivono i valori europei tutti i giorni».
In buona sostanza, i giovani che aderiranno al nuovo organismo potranno effettuare volontariato oppure approfittare dell’opportunità per ottenere una formazione. Potranno partecipare sia i cittadini europei che gli stranieri che risiedono in uno dei paesi dell’Unione. La registrazione sarà possibile per tutti coloro che hanno almeno 17 anni di età sul portale www.europa.eu/solidarity-corps. La registrazione non comporta l’automatica partecipazione al programma. Una selezione deve avere luogo.
Da un punto di vista economico, l’iniziativa verrà finanziata da poste del bilancio comunitario. I volontari riceveranno un rimborso spese, mentre coloro che faranno un periodo di apprendistato firmeranno un contratto che dovrà prevedere una remunerazione. La partecipazione al programma verrà sancita da un certificato di fine percorso. Organizzazioni non governative potranno diventare partner del nuovo Corpo europeo di solidarietà.
Il nuovo organismo ricorda l’Esercito della Salvezza. Vi sono però differenze. Creato dal pastore metodista William Booth (1829-1912), l’Esercito della Salvezza nacque nel 1865 con una matrice religiosa perché ha l’obiettivo di diffondere il cristianesimo. Per di più, la struttura organizzativa è militare. Ciò detto, anche l’Esercito della Salvezza – come il nuovo Corpo europeo di solidarietà – si basa sul volontariato. Secondo le ultime statistiche, raggruppa circa 1,5 milioni di membri.
Sempre ieri, la Commissione ha anche annunciato di voler facilitare l’ottenimento di stage e di periodi di apprendistato in Europa. Il nuovo programma si chiamerà ErasmusPro, e si affiancherà a Eramus+, che permette agli studenti di trascorrere un periodo di studio in una altra università all’estero.
Bruxelles spera di creare tra il 2017 e il 2020 50mila apprendistati (di un periodo tra i 6 e i 12 mesi). L’obiettivo è di facilitare la mobilità in Europa, oltre che la formazione delle persone.

Dentro le ragioni del si e del no (1):

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voto-giovaniNON SPEGNERE LA DOMANDA DI UN CAMBIAMENTO PROFONDO E CONDIVISO!
Rileggendo a qualche giorno di distanza l’articolo di Luca Ricolfi (uno che si è astenuto dal voto il 4 Dicembre) ed aver metabolizzato i sentimenti contrastanti provati di fronte al risultato referendario, diventa un esercizio virtuoso e gratificante reinterpretare le ragioni del SI e del NO mettere a fuoco i buoni propositi che gli elettori degli schieramenti contrapposti hanno voluto testimoniare con la loro scelta. Ciò significa da un lato avere la lucidità di individuare i LADRI DI FUTURO, ovvero la vasta platea di parassiti che hanno colto l’occasione del Referendum per ostacolare il processo riformista avviato dal Governo Renzi e dall’altro cogliere con atteggiamento aperto le CRITICHE ai punti deboli e controversi del Progettto di Riforma costituzionale al fine di rilanciare l’iniziativa riformatrice con il miglioramento dei testi e l’allargamento del consenso.
La straordinaria partecipazione eletttorale, infatti, ha rappresentato un “test democratico” che ci ha fornito una molteplicità di indicazioni e “rivelato” le domande sociali e politiche di un Paese molto più differenzato e sofferente di quello che le retoriche dei sostenitori dei SI dei NO hanno saputo e potuto rappresentare; ora è tempo di aggiornare l’agenda e l’azione politica focalizzando prioritariamente il significato e le conseguenze del voto con l’aiuto degli osservatori meno faziosi e condizionati da un orientamento ideologico.

LEZIONI DALLE URNE: PERCHÉ L’ITALIA È MENO DIVISA DI QUEL CHE SEMBRA
Luca Ricolfi 6 Dicembre 2016 Il Sole 24 Ore
Tanto vale che lo dica subito, per chiarezza: io non sono andato a votare. Di questa sciagurata tenzone, infatti, non mi è piaciuto proprio nulla.
Ma di tutte le cose che mi sono dispiaciute ce ne sono soprattutto due che mi hanno allontanato dal voto. La prima è che il referendum ha tolto ogni spazio di espressione ai riformisti radicali come me, ovvero a quanti pensano che la Costituzione richieda un robusto restyling, ma non così, non con questo brutto anatroccolo.
Può darsi che mi sbagli, ma avendo ascoltato in questi lunghi mesi l’opinione di decine di amici, conoscenti, colleghi professori e giovani studenti, mi sono persuaso che questa sia la vera maggioranza del Paese, e che essa si nasconda sia nel “sì”, sia nel “no”, sia nella scelta di chi, come me, si è astenuto.
Chiediamocelo: quante persone hanno votato “no” pur pensando che la Costituzione del 1948 andrebbe aggiornata? E quante persone, anche di primissimo piano, hanno votato “sì” nonostante un certo orrore per la riforma bosco-renziana? Un orrore cui, mi spiace farlo notare, non poco ha contribuito l’inoppugnabile circostanza che la Riforma non risulta scritta nella nostra bella e amata lingua italiana, bensì in un orripilante gergo giuridico-politico (che per di più viola la sacrosanta raccomandazione europea di evitare i rimandi a articoli, commi e singole parole di altri testi di legge).
Chissà, mi sono detto, quanto hanno sofferto politici eminenti come Prodi, Parisi, o Cacciari a ingoiare un simile affronto alla logica e alla lingua. Ma anche, chissà come hanno patito tanti votanti del “no” a mescolarsi con quanti hanno fatto della Costituzione del ’48 una sorta di totem, sacro e inviolabile. Perché si può anche essere d’accordo, con il saggio genitore di Romano Prodi, che «nella vita è meglio succhiare un osso che un bastone», ma non sempre è chiaro qual è l’osso e qual è il bastone.
Forse sono condizionato dal fatto che, pur non essendo psicologo, insegno in una facoltà di Psicologia, ma mi sono convinto che, fra quanti vorrebbero aggiornare la Costituzione ma ambirebbero a farlo con un testo limpido come quello dei Costituenti, le differenze fra chi ha scelto il “sì”, chi ha scelto il “no” e chi ha preferito il non-voto siano essenzialmente psicologiche: in ultima analisi non è la logica, ma è la personalità di ciascuno di noi che, di fronte a tre alternative nessuna delle quali convincente, ci ha indotto a sceglierne una scartando le altre due.
E questa è la seconda cosa che non mi è piaciuta. Imponendo con spavalderia un testo mal scritto e frutto di alchimie parlamentari, del tutto sprovvisto di certezze collaterali per quel che riguarda l’essenziale capitolo della legge elettorale (anzi delle due leggi: Camera e Senato), i nostri giovani governanti hanno creato una spaccatura artificiale fra i cittadini italiani, una spaccatura che non sarà facile ricomporre e che renderà più arduo ogni tentativo futuro di aggiornare la Carta fondamentale.
Perché l’hanno fatto? Perché questo inutile harakiri?
Si potrebbero indicare tante ragioni. Ma a me pare che la più importante sia una diagnosi sbagliata, drammaticamente sbagliata, sui mali dell’Italia. Dietro l’enorme importanza che è stata attribuita alla Riforma costituzionale non c’è solo il bisogno di lavare il peccato originale del renzismo, ovvero di aver conquistato il potere con una manovra di palazzo anziché con il voto popolare. No, dietro quell’accanimento sulla Riforma c’è anche l’errata credenza che i guai dell’Italia dipendano in misura non trascurabile dalla Costituzione del 1948, e che la rimozione di quell’ostacolo avrebbe liberato le energie migliori del Paese. Una credenza che, sia detto per inciso, da decenni seduce i politici italiani per l’elementare motivo che essa li aiuta ad autoassolversi dalle loro responsabilità nel disastro del Paese.
Ebbene, permettetemi di dire che si tratta di una notevole sciocchezza. Mafia, corruzione, evasione fiscale, sprechi, incapacità di ridurre le tasse e la spesa pubblica improduttiva, deterioramento dei conti pubblici, farraginosità delle leggi, onnipotenza della burocrazia, ristagno del Pil, produttività ferma da vent’anni, dipendono al 99% da noi e dalla maggiore o minore serietà dei governi che ci scegliamo, e forse all’1% dal fatto che la Costituzione ha alcuni difetti e limiti. Il maggiore dei quali, ironia della sorte, è stato prodotto precisamente da una delle più infelici manomissioni della Costituzione del 1948: la famigerata Riforma del Titolo V del 2001, voluta dall’Ulivo per fare concorrenza alla Lega, e anche allora colpevolmente imposta a colpi di maggioranza.
Se c’è del vero in questa ricostruzione, non solo il governo sconfitto ma anche il variegato vittorioso fronte del “no” dovrebbe assumere un atteggiamento più composto, per non dire più umile. Perché, se la realtà è che sia nel fronte del “sì” sia in quello del “no” molti hanno semplicemente scelto quello che avvertivano come il male minore, la conseguenza logica da trarne è che i “sì” convinti a Renzi sono meno dei “sì” alla Riforma, e i no a qualsiasi cambiamento della Costituzione sono meno, molti di meno, dei “no” a questa Riforma. Detto altrimenti, noi cittadini siamo assai meno divisi, e assai più disponibili a cambiare la Costituzione, di quanto la schiacciante vittoria dei “no” lasci intendere. Sta a noi non farci prendere né dall’euforia della vittoria né dal rancore per la sconfitta. Sta a noi non lasciarci trascinare nel vortice delle polemiche che, con puntuale determinazione, il teatro della politica si appresta a scatenare sulle nostre teste. Sta a noi pretendere da tutti, politici del sì e politici del no, il ritorno a un minimo di rispetto reciproco, e di ascolto delle ragioni dell’altro.
Ascolto: la cosa che, più di tutte, mi è mancata in questa folle attesa del giorno del giudizio.

Perché non basteranno mille e più convegni a farci digerire l’innovazione

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bucchiINNOVARE STANCA? IL PROF. BUCCHI HA UN’IDEA SUL MOTIVO
Marco Valerio Lo Prete – IL Foglio – 29 novembre 2016

Roma. “Se le statistiche internazionali su ricerca e innovazione tenessero conto del numero di manifestazioni e convegni organizzati su questi argomenti, non c’è dubbio: come Italia non saremmo secondi a nessuno”. Inizia così “Per un pugno di idee”, l’ultimo libro di Massimiano Bucchi, professore di Scienza, tecnologia e società all’Università di Trento, pubblicato da Bompiani. Tuttavia, come ovvio, le statistiche internazionali non tengono conto del numero dei convegni in materia ma della mole di investimenti in ricerca e sviluppo da parte delle aziende (0,7 punti di pil per l’Italia, a fronte di una media Ue dell’1,2 per cento), o del numero di “tecnoesclusi”, cioè di coloro che sono completamente tagliati fuori dalle tecnologie digitali a eccezione del telefono cellulare (nel nostro paese trentaquattro persone su cento non hanno mai usato né internet né il computer), eccetera. L’Italia non brilla come paese di frontiera delle novità tecnologiche, ma è indubbio che problemi di “ricezione” di tutto ciò che è nuovo stiano sorgendo un po’ ovunque nei paesi di antica industrializzazione. Sabato scorso, su queste colonne, Calestous Juma – professore di Harvard e autore del libro “L’innovazione e i suoi nemici” – ha tentato addirittura di individuare un filo rosso in secoli di opposizione a ogni innovazione, dal caffè agli organismi geneticamente modificati. Bucchi, parlando con il Foglio, si dice convinto come Juma del fatto che “una posizione di chiusura preconcetta è ovviamente da respingere”, ma aggiunge che “conta il contesto storico e sociale in cui l’innovazione si colloca, e questo va analizzato con attenzione almeno pari a quella che dedichiamo alle singole novità”. Soprattutto perché “le implicazioni di una qualsiasi innovazione, quasi sempre, non sono note nemmeno all’inventore della stessa. Quando Thomas Edison inventò il fonografo e stilò una lista delle sue possibili applicazioni, posizionò al primo posto varie forme di utilizzo da ufficio e all’ultimo posto la musica. Nella storia, è andata all’opposto”. Secondo il professore dell’Università di Trento, tale situazione non equivale ad auspicare un ruolo ancora più interventista dello stato legislatore o regolatore nella speranza di contenere lo spiazzamento dei cittadini: “Già il sociologo William Fielding Ogburn (m. 1959, ndr) elaborò la teoria del ‘ritardo culturale’, secondo la quale i mutamenti della cultura non materiale, incluse le norme e le leggi, si sviluppano più lentamente dei cambiamenti della cultura materiale. Lo stato regolatore è condannato quasi sempre a inseguire. Non a caso le prime norme statali sulla sicurezza delle automobili sono arrivate a quasi 100 anni di distanza dalla prima vittima in un incidente stradale”. Un caso oggi molto discusso riguarda i media digitali: “Si sono a lungo sottostimate le implicazioni fiscali e giuridiche, la responsabilità e l’impatto sulla privacy di nuovi canali informativi e social network. Eppure è noto che non esiste una innovazione che abbia ricadute soltanto positive. Perfino l’ecografia, in paesi come l’India e la Cina, è stata utilizzata per selezionare le nascite in base al sesso”. Che fare, dunque? “Rivalutare il ruolo della consapevolezza dell’utilizzatore di una tecnologia – dice Bucchi – Immaginare che un algoritmo possa fare piazza pulita delle bufale sui social network è una pia illusione, una comoda scorciatoia tecnologica per evitare di affrontare un problema sociale e culturale. Da una parte perché una tale deriva paternalista potrebbe diventare un freno a ulteriori innovazioni. Dall’altra perché si tende a sottovalutare la responsabilità dell’utilizzatore dei social network: basterebbe investire in ciò un milionesimo di quanto oggi spendiamo in decine di piani per l’infrastrutturazione tecnologica, favorendo così una autoregolazione diffusa e soft nel campo dei media digitali”. Conclude Bucchi: come emerso anche recentemente su questioni come i vaccini, che spesso in Italia sono rifiutati proprio dalle persone mediamente più istruite, la “responsabilizzazione degli utilizzatori” rimane l’unico antidoto a un atteggiamento “opportunistico e spesso schizofrenico” che oggi abbiamo rispetto alle innovazioni.

I democratici e i ladri di futuro

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5 dicembre: ora continua l’impegno per sconfiggere l’omertosa alleanza di risentimento, ipocrisia, vigliaccheria, e per promuovere il processo di rigenerazione etico-civile del Paese

Comprendere le ragioni del NO

Lo giuro: nonostante lo stupore e l’ira montante di fronte ad un numero esorbitante di provocazioni, menzogne e falsificazioni dei dati di fatto risultanti dalla lunga, complessa e faticosa attività parlametare (sottolineo per gli schizzinosi censori del testo, attività parlamentare) che hanno partorito il Progetto di Riforma Costituzionale, mi sono più volte imposto di cercare-riconoscere le ragioni degli oppositori, leggendone le interviste, ascoltandoli nei talk, documentandomi sulle iniziative dei Comitati del NO (seminari, manifestazioni, eventi-show…).
Ne ho tratto giovamento, soprattutto per razionalizzare e mettere ordine nello sconquasso di sentimenti e risentimenti determinati dall’osservazione di un Paese risucchiato nella guerricciola cvile (che Massimo Cacciari benevolmente ha definito derby…), dichiarata da una trasversale brigata di politicanti reciprocamente contagiati dall’ossessione di difendere le proprie biografie piuttosto che dalla volontà di pensare la propria mission e le proprie responsabilità per aiutare un’Italia contemporanea debilitata proprio dalla loro conflittualità, incapacità e riottosità ad assumere le decisioni necessarie per il risanamento finanziario e la modernizzazione delle sue strutture fondamentali nel tempo in cui hanno esercitato funzioni di Governo.
Debbo a tal proposito fare un’annotazione dolorosa: il virus, che giornalisticamente parlando è stato chiamato antirenzismo e che è diventato il manganello con cui bastonare i contenuti, le ragioni e gli obiettivi contenuti nella Legge, è stato incubato in quelle formazioni combattenti interne al PD che hanno intravisto nel “combinato disposto” di Riforma Costituzionale ed Italicum un “subdolo” tentativo di estrometterli dalla Storia.
E’ così che hanno trasformato quelle che potevano esse delle comprensibili riserve su un Progetto sottoposto alle molteplici mediazioni rese necessare da un Parlamento maldisposto e frammentato (e quindi risultato imperfetto), in una piattaforma ideologica da usare contro quello considerato una sorta di usurpatore di un Partito ritenuto riserva di caccia e di egemonia politico-culturale solo per alcuni (i migliori naturalmente) dei legittimi rappresentanti della tradizione PCI-PDS-DS.
Niente di nuovo nella tormentata vicenda dell’ultimo ventennio, anche se con effetti laceranti per l’ambiente sociale ed umano della sinistra riformista, talmente gravide di conseguenze sul suo futuro, da meritare delle prese di posizione che per il loro rilievo etico e per la riflessione storica che suggeriscono meritano di essere appuntate e meditate:
1) La prima perché espressa da un Giornalista accreditato per la sua sobrietà e per il suo understatement, ovvero Paolo Mieli
http://www.unita.tv/interviste/staino-intervista-mieli-lavversario-non-e-un-demone-la-sinistra-superi-il-pregiudizio/

2) La seconda è particolarmente pregnante in quanto coinvolge un Peppino Caldarola che non ha mai fatto mistero della sua scarsa simpatia (più orientata verso il suo amico D’Alema) nei confronti di Renzi, ma capace di discernere con obiettività i fatti politici e di rimanere costernato di fronte alle recenti stupefacenti “virate” bersaniane

http://www.lettera43.it/firme/addio-compagno-bersani-senza-rancore-ne-rimpianti_43675267979.htm

Ma, ritornando al ragionamento sullo sforzo personale di comprendere le argomentazioni e l’orientamento verso il NO, ho cercato di individuare le cause ed i sentimenti che ne hanno determinato un larghissimo consenso, che va oltre quello catturato dal variegato e maggioritario schieramento politico-partitico mobilitato contro la Riforma, perché è preesistente e correlato all’antropologia socio-culturale di una popolazione restia ad abbandonare i vecchi riti (anche per la Repubblica nel ’46 non fu un plebiscito…).

1. Innanzitutto, come hanno ben potuto verificare direttamente tutti coloro che si sono cimentati, sia personalmente che nell’ambito delle attività dei Comitati per il SI, al deficit di informazione sulla Riforma – in particolare sui dettagli e le sue conseguenze operazionali, ovvero sui suoi sottotitoli – si è sommato una diffusa sospettosità correlata all’aumento della polemica scivolata sul terreno della personalizzazione Renzi SI – Renzi NO. Bisogna dire che la campagna di comunicazione #bastaunsi non si è rivelata particolarmente efficace nel promuovere una riflessività critica in grado di allargare ed approfondire il livello di consenso alla Riforma attraverso la comprensione del suo essere il driver non solo della discontinuità del regime istituzionale, bensì il motore di un processo generale di cambiamento con l’efficientamento dell’intero sistema burocratico-amministrativo conseguibile con un autentico “combinato disposto” (rieccolo!) di decisioni politiche top down e di potenziamento qualitativo della partecipazione democratica dei cittadini bottom up al policy making.

2. Alla scarsa focalizzazione degli obiettivi e sensibilizzazione sui risultati ( conseguibili con la fine del Bicameralismo si è conseguentemente accompagnato l’emergere di una sorta di surrogato di patriottismo costituzionale (così battezzato da Antonio Polito sul Corriere della Sera del 20 novembre) da intendere come manifestazione di una romantica difesa della “vecchia signora” che – per molti elettori non avvezzi (e, a ben vedere, per molti esponenti della sinistra dei professorini sussieguosi, non interessati) a ragionamenti sulle “prestazioni” istituzionali – ha comunque rappresentato un baluardo di garanzia democratica per quasi 70 anni.

3. Proprio l’argomento della “garanzia delle prestazioni” ha sicuramente costituito un tradizionale e – in questa occasione referendaria – potenziato veicolo per la retorica politica all’incontrario, nella realtà meridionale; di fronte al messaggio della soppressione dei seggi senatoriali, del ridimensionamento del trattamento economico dei Consiglieri e dei Gruppi consiliari regionali (contestuale al ridisegno delle Funzioni dell’Ente Regione), buona parte della nomenclatura partitca non ha certo espresso un’adesione entusiastica. Cito alcuni esempi di reviviscenza della furbizia politicistica e neoborbonica nelle terre del Sud:

a) La nomina del senatore siciliano Renato Schifani a Coordinatore dei Comitati del No di Forza Italia (ovviamente incaricato di anadare a mietere voti in quell’autentico baluardo delle Istituzioni democratiche che è la regione Sicilia).

b) Il salto del Quagliarello, lungimirante partenopeo incaricato dalla volpe romana D’Alema di elaborare con il noto costituzionalista Zoggia un nuovo testo di riforma. Non ci credete? Andate a leggere l’intervista sul Corriere della Sera del 13 novembre scorso. Domanda: Battute a parte, con il NO le riforme andranno in soffita per sempre. Risposta: (…..) esiste già un testo di riforma costituzionale elaborato da parlamentari di schieramenti diversi, come Quagliarello e Zoggia, e che in concordia propone una riduzione dei parlamentari ancora più drastica (…..). penso che anche da parte dei Cinque Stelle non dovrebbe maturare un’ostilità preconcetta e quindi in 6 mesi si può approvare (sic!).

c) Il clan di Magistrati palermitani: Roberto Scarpinato (“Riforma oligarchica ed antipopolare”), Nino Di Matteo (“Rischio dittatura per l’Italia”), Antonio Ingroia (“La riforma costituzionale di Renzi continua il progetto della P2 di Licio Gelli”), si è cimentato in dichiarazioni altisonanti, in esercitazioni di stile propagandistico originate da menti addestrate al sospetto antimafioso, adottato come metodologia per affrontare anche la discussione democratica e la deformazione della realtà (con applicazioni nefaste anche per inchieste fallimentari come quelle che hanno portato alla giusta assoluzione dei Calogero Mannino e del Generale Mori).

d) Il ritorno di Ciriaco De Mita, un autentito vecchio (88 anni) boss politico “illuminato” preoccupato di salvaguardare la propria biografia (“morirò democratico-cristiano”) e di confermare una funzione censoria che, lo si è potuto riscontrare nel duello televisivo con Renzi da Mentana, è apparsa simile a quella della figura di padrino indispettito da un cambio delle regole del gioco che è avvenuto senza il suo consenso.

Tutto ciò per le estese reti clientelari della spesa pubblica locale significano riduzione di benefici ed opportunità. Non è casuale che per contrastare il senso comune degli elettori meridionali per il NO, un autentico boss democratico come il Presidente della Campania Vincenzo De Luca abbia promosso una controcampagna di comunicazione e proselitismo basata sulla valorizzazione e pubblicizzazione delle concessioni e dei finanziamenti strappati – per la specifica realtà regionale – al Governo Renzi, a prescindere dai contenuti e dagli obiettivi della Riforma Costituzionale. Tali annotazioni per aiutarci a comprendere le ragioni profonde delle previsioni di voto che hanno costantemente dato il NO in vantaggio al SUD …..

4. C’è poi da mettere sotto osservazione il vasto mondo dell’elettorato “grullino” perché è su di esso che giustamente si è indirizzato l’appello di Renzi sollecitandolo ad avere un sussulto di consapevolezza rispetto all’incongruenza di un NO nei confronti di una riforma che è pervasa da un messaggio anticasta che avrebbe dovuto suggestionare i militanti e gli elettori del M5s.

Ma in verità ha ragione Angelo Panebianco che ha invitato ad osservare (vedi Corriere della Sera del 22 novembre) che i Cinque Stelle, indifferenti ai contenuti della Riforma, hanno adottato una strategia che mira ad ottimizzare e “timbrare” l’urto dello schieramento di opposizione per l’indebolimento del Presidente del Consiglio e candidarsi come unica “vera” alternativa al Governo guidato dal PD.

Non deve essere considerato casuale l’accentuarsi del linguaggio truculento, melmoso, barbaro ed ombroso dal parte del caudillo genovese nella fase finale della campagna, anche in concomitanza con l’emergere dello scandalo firme false.

Nell’aspra competizione in corso, mentre le tifoserie del SI e del NO si sono arrovellate sui dettagli e sul significato della Riforma Costituzionale, il M5s ha deciso di approfittare della fisiologica “confusione democratica” in corso per introdurre nella pratica e nel linguaggio politico l’adozione del metodo “ogni mezzo è utile per raggiungere l’obiettivo”. Ciò che per esempio è emerso dagli episodi scandalosi delle manomissioni documentali è ben poca cosa rispetto al metodo mafioso dello sputtanamento sistematico degli avversari: una strategia resa possibile dalla struttura organizzativa in franchising e dal pensiero degradato del boss che prefigurano il neototalitarismo pentastellato in cammino. Tali caratteristiche distintive, poi, sono incardinate in quella orrida ed oscura Piattaforma denominata Rousseau che sotto il profilo della visione democratica è “una cagata pazzesca”, ma per la falsificazione virale della realtà ed il disorientamento dell’opinione pubblica si rivela uno strumento efficacissimo.

Ciò che in questa vicenda appare sorprendente, ma a ben vedere non lo è, è l’atteggiamento dei competitor che co-operano, nell’ambito dello schieramento del NO, con Grillo: lo “psiconano” Berlusconi ed il “Gargamella” Bersani – inconsapevolmente o meno – si sono dati fare per aiutare lo psicopatico, ex comico autoattribuitosi il ruolo di leader politico, a dare l’assalto alla diligenza guidata dal “menomato morale”, “lesionato”, “scrofa ferita”….

Cosicchè, mentre gli ipocriti, rancorosi (ed un po’ vigliacchi) avversari del Presidente del Consiglio gridano al rischio della “democrazia autoritaria”, giovani balilla crescono capitanati da un personaggio che, nel caso in cui cadesse sotto i colpi della propaganda sfascista l’unico suo antagonista democratico (Renzi), non si farà scrupolo di prendersi ed esibire il loro scalpo (si fa per dire, perché, nel caso di Berlusconi e Bersani gli resterebbe ben poco da strappare!).

L’aspetto grottesco della vicenda che sta andando in scena nella campagna referendaria è quello rappresentato dai professoroni, ottuagenari, e romanticoni che in questi mesi hanno richiamato retoricamente i valori della Costituzione e della Resistenza, ma resi miopi dall’età e dal pregiudizio ideologico, non si sono accorti da dove stanno arrivando i veri attacchi ed i pericoli per la convivenza democratica.

Sui rischi rappresentati dal cybercentralismo autocratico di M5s e sul caudillo genovese sono intervenuto ripetutamente con post allarmati ed anche irritati (lo ammetto) sulla mia Pagina Facebook: finora sono nove gli “appelli” che ho lanciato con il claim “salviamo i grillini da Grillo”!

Per delle considerazioni meno umorali e più meditate rinvio all’articolo, pubblicato sul mio sito, “Gianroberto e noi”

Chi sono

ma soprattutto rinvio alla documentazione, che mi auguro sia presto disponibile, relativa alla Giornata di studio su “Il Movimento 5 stelle: prospettive a confronto” organizzata il 18 novembre scorso a Padova dallo standing group “Politica e Storia” della Società italiana di scienza politica, e dal Dipartimento di Scienze politiche, giuridiche e studi internazionali che ha offerto un panel di ricerche e relazioni inedite, approfondite, illuminanti.

5. Mi sono sforzato di comprendere (non giustificare) i fan di Zagrebelsky, Smuraglia, Onida ed altri satrapi incartapecoriti: in molti casi – come ho già annotato – abbiamo scoperto una realtà socio-politica di cittadini legati romanticamente all’idea di un Paese incartapecorito ed immobile, affascinati dalla mission di difendere un assetto costituzionale inteso come la più alta espressionne di sacri principi non contaminati da processi storici e da procedure legislative e politico-decisionali.

Queste non debbono sconvolgere la purezza dei riti di una partecipazionne democratica la cui inconcludenza ed inefficacia non preoccupa. Prioritario per i Sacerdoti ed i fedeli del NO è salvaguardare la rappresentanza dei cittadini e non la governabilità, i quali cittadini sono i primi ad invocarla – la governabilità – quando lamentano la lontananza delle Istituzioni dai bisogni e dalle problematiche sempre più stringenti e drammatiche che coinvolgono soprattutto le componenti piu deboli della popolazione e del territorio nazionale. Per dirla brutalmente meglio un Bicameralismo che allunga i tempi ed aggroviglia la matassa dei procedimenti (ma garantisce il cazzeggio consociativo) che la semplificazione che comporta un mandato più forte – attraverso il voto – ad una sola Camera per la fiducia al Governo investito di una responsabilità più chiara ed effettiva….
Per avere un’idea – in tempo reale – di cosa significa il permanere dell’attuale stato comatoso della procedura legislativa, è sufficiente vedere cosa insegna la sentenza della Corte costituzionale sulla riforma Renzi-Madia di questi giorni:
http://formiche.net/2016/11/27/cosa-insegna-la-sentenza-della-corte-costituzionale-sulla-riforma-madia/

Ripiegamento sociografico

A ben vedere, però, il ritorno sulla scena di molti anziani e decani della Prima e Seconda Repubblica, a contrastare il “ragazzotto arrogante”, ed il peso che hanno assunto nell’orientare una parte significativa dell’opinione pubblica verso il NO, più che ad essere collegabile ad un pur comprensibile prevalere della nostalgia per il passato, va interpretato come la manifestazione di una fenomenologia socio-culturale prima di tutto demografica, ovvero un indice di vecchiaia che attesta un declino progressivo del Paese che si manifesta anche attraverso la crescita della pianta carnivora del risentimento e del rancore con cui molti rappresentanti del vecchio ceto politico tentano di frenare i timidi tentativi di rinnovamento (nella loro mente deteriorata “personalizzati” dalla figura un quarantenne).

A ben guardarli, l’incanutito e tignoso D’Alema, gli ottuagenari Berlusconi e De Mita, con la loro patetica riapparizione mettono bene in scena il ripiegamento “sociografico” e la propensione ad investire sul passato, ad esprimere un orientamento che costituisce il tentativo frenare il futuro dell’Italia.

Nel commentare le argomentazioni di D’Alema per il NO al Referendum, Fabrizio Rondolino le ha etichettate come una “colossale fregnaccia”, concludendo il suo articolo con sarcasmo, prefigurando che, pur di contrastare l’autoritario Renzi, ci manca solo l’auspicio del ritorno alla monarchia…
Ebbene, se ascoltiamo nel loro insieme i molti testimonial del NO accomunati (per ragioni anagrafiche) dall’appartenenza alla nomenclatura politico-partitica e burocratico-istituzionale che si è radicata negli alvei e nelle funzioni operative del Bicameralismo, sentiamo come una sorta di refrain che alimenta il sospetto della messa in campo di una strategia di restaurazione, ovvero di difesa dello statu quo ed ostilità al cambiamento delle regole del gioco finalizzato all’efficientamento del sistema.
E ciò appare inacettabile, paradossale, soprattutto per il carattere di ammucchiata incestuosa a cui hanno dato vita esponenti politici e personaggi vari con matrici ideologico-culturali contrastanti e contradditorie.
C’è però una chiave interpretativa che può rendere comprensibile la convergenza di tante voci verso lo spartito della Conservazione; o, meglio, c’è un interrogativo preliminare a cui rispondere se si vuole dare un’interpretazione non faziosa del diffuso ed articolato atteggiamento “resistenziale” al cambiamento costituzionale.
La domanda è: risulta praticabile l’innovazione politico-istituzionale in un Paese che “ in virtù dell’allungamento della speranza di vita e dell’aumento dei flussi migratori, è sì cresciuto di 3,7 milioni di abitanti negli ultimi 15 anni, ma perdendone 2,8 sotto i 40 anni d’età e acquistandone 6,5, di milioni sopra i 40 anni d’età; uno strano modo di crescere ch’è un vero e proprio mettere le basi, creare le condizioni per provare a lasciarsi morire”?
Ed ancora: in un contesto antropologico-culturale in cui “demograficamente parlando, la struttura della popolazione italiana ripiega su se stessa, si accartoccia e incarognisce. Si trasforma in peggio, mette su pancia e rughe, accusa acciacchi e malesseri, appunto, stando fermi” ( Roberto Volpi – Il Foglio), quale progettualità politica è in grado di sostenere la sfida di rendere credibile e vincente il riformismo costituzionale?
Credo quindi che oltre la stagione del dibattito referendario, il confronto serrato sui contenuti e le buone ragioni che hanno orientato i sostenitori del SI, debba essere perpetuato alimentando dal 5 dicembre in poi il messaggio della speranza e dell’investimento sul futuro e contrastando a viso aperto il ripiegamento “sociografico” sul passato che costituisce la precondizione di un disastroso pensionamento dell’intero Paese.
Si tratta di un cambio di passo e di una sferzata necessaria per far crescere la consapevolezza sulle conseguenze disastrose di un rallentamento del processo riformattore indotto da quella che Amedeo Levorato ha chiamato “La trappola demografica italiana tra immigrazione e invecchiamento della popolazione” ed illustrato con numeri, tabelle e considerazioni che inducono a reagire energicamente ed intensificare la mobilitazione cognitiva e politico-culturale contro il declinismo:
https://osservatorecoinvolto.com/2016/07/31/il-profilo-demografico-debito-e-limiti-della-politica-monetaria/

Identità alternative

Naturalmente non è tutto e solo una questione di vitalità generazionale: è questione anche di semplice voglia e gioia di vivere, oltre che di fare, di provare, di rischiare. E per introdure nel corpo sociale di un Paese tali sentimenti positivi bisogna ripensare in profondità una strategia culturale in grado di offrire una visione di rinnovamento che non sia portatrice di fratture insanabili bensì di un nuovo equilibrio dinamico all’interno della competizione democratica. Per commentare e proporre il superamento della stagione di divaricazione sociale e politica emersa con la campagna referendaria, ci tornano utili le parole del filosofo canadese Charles Taylor:
“Assistiamo a una serie di battaglie nella società globale fra identità particolari, anguste e sospettose verso l’altro e un altro tipo di identità che trae beneficio dalla connessione con l’altro. Contrariamente a quanto pensano i fautori dell’individualismo liberale, la società democratica acuisce il bisogno di identità collettive, la gente ha bisogno di essere parte di qualcosa di più grande: il problema è ridefinire l’identità in modi che sono compatibili con l’apertura all’alterità” (intervista di Mattia Ferraresi, il Foglio 9 novembre 2016)
In tanti decenni di storia repubblicana non si era mai assistito alla variopinta messinscena di una omertosa alleanza trasversale per bloccare un processo riformatore e perpetuare la palude delle lucrose, estese e trasversali rendite di posizione politiche e corporative.
Dall’immediato dopoguerra in poi, non sono mancate le occasioni di aspro conflitto politico tra gli schieramenti in materia legislativa e referendaria nelle quali la contrapposizione ideologica è stata accantonata per convergere in una battaglia ritenuta simbolica ed esemplare: si pensi ai comunisti ed ai postfascisti missini uniti nel ’53 contro la (presunta) legge truffa.
Ma le ragioni di dissenso, polemica e/o condivisione erano ammantate con argomentazioni in cui gli ideali ed i valori democratici, seppur con l’ausilio della retorica, emergevano come la spinta prevalente.
Ciò a cui abbiamo assistito nei mesi di campagna referendaria, invece, è stato uno spettacolo amorale, non solo sorprendente bensì grottesco.

C’è un filo nero che lega ed accomuna i rancorosi propugnatori del NO: fattispecie di vittime e carnefici, entrambe progioniere di un ventennio con-vissuto nella coltivazione di aggressioni reciproche (condensate nella contrapposizione berlusconismo vs antiberlusconismo) ed ora orientate paranoicamente a boicottare il cambio d’aria ad un ambiente costituzionale che la loro ottusità ed il loro opportunismo ha reso irrespirabile.
Primeggiano nel vociare confusamente ed evitare meticolosamente l’analisi attenta e meditata dei testi: magistrati a vocazione manettara abbracciati ai loro “clienti” preferiti, storiche figure sinistre, giornalisti guardoni e violatori della dignità, disinformatori patologici e cicisbei incontinenti, professionisti del gargarismo ideologico rosso-nero, intellettuali leziosi, vanitosi e cognitivamente sterili, giuristi torcicollisti di un passato agitato per ostacolare il rinnovamento del tempo presente, avversari del pragmatismo operoso e sabotatori del riformismo possibile, urlatori disabituati all’uso del ragionamento riflessivo e del confronto.
Tutto li dividerebbe, se non avessero dovuto – sotto le bandierine del NO – condividere e difendere l’eterno presente di piccoli e grandi privilegi, alimentati da quella “meravigliosa macchina” del consociativismo paraistituzionale con cui hanno concorso a stuprare i Bilanci pubblici, a dilapidare le risorse – destinate a salvaguardare il futuro del Paese – attraverso l’uso perverso del “bicameralismo perfetto”, la moltiplicazione dei centri di spesa clientelare finalizzata “nobilmente” per la difesa di un welfare dissipativo e non inclusivo, del federalismo locale-municipale-provinciale-regionale privo di sussidiarieta ed intriso di paraculismo; l’ossessiva limitazione della competizione e della meritocrazia.

Vorrebbero farci credere che sono animati dal nobile sentimento di difendere la verginità della Carta mentre il loro intento sordido è continuare a coltivare il parassitismo intellettuale con il quale mascherare la drammatica realtà di un sistema politico, amministrativo, istituzionale che richiede l’avvio di un processo di efficientamento democratico, proprio a partire da un primo passo che paradigmaticamente rappresenti un messaggio di discontinuità, il segnale che il Paese si attrezza per affrontare le sfide che incombono, che rimuove almeno in parte quella ragnatela di rapporti omertosi tra finti avversari, costantemente impegnati ad allontanare le scelte della responsabilità e dell’innovazione.
L’appuntamento del referendum costituzionale, come è evidente, non è stato un passaggio politico come tutti gli altri, come l’auspicataa spersonalizzazione avrebbe voluto indurre a credere, ma è stato un momento chiave per realizzare alcuni progetti che vanno al di là dell’architettura costituzionale e che sono collegati a una visione politica che parte da lontano (la “grande Riforma” evocata da Craxi, i numerosi tentativi operati con le Commissioni parlamentari, le parziali e controverse Riforme del Centrosinistra e del Centrodestra) e di cui Renzi è solo l’interprete finale, oltretutto con un mandato esecutivo affidatogli dal Presidente Napolitano.
Certo l’appuntamento del 4 dicembre non ha coinciso con un cambio epocale, ma di certo ha rappresentato una tappa fondamentale per rinvigorire la sfida della discontinuità politico-culturale relativamente al mondo del parassitismo istituzionale e burocratico-amministrativo incistato nell’ambito di un impianto costituzionale pensato per frenare la conflittualità ideologico-partitica nel dopoguerra e non (com’è improrogabile oggi) per garantire la leale competizione democratica tra forze legittimate dal consenso dei cittadini a governare con programmi alternativi, discussi, verificati e varati da un Parlamento sintonizzato con l’esigenza di rapidità ed efficacia della legislazione.

Alla luce di tali considerazioni tutti coloro che hanno partecipato a vario titolo alla mobilitazione culturale per le ragioni del SI (il sottoscritto prevalentemente nei corpo a corpo nella giungla del web), in primis il Presidente del Consiglio, debbono ora focalizzare con precisione il volto, il pensiero ed i comportamenti dei compagni di viaggio dell’avventura e degli avversari; per quanto riguarda questi ultimi è fondamentale analizzare le ragioni che ne hanno orientato l’opposizione alla riforma costituzionale perché per molti versi (che sono stati efficacemente indicati in un post pubblicato sulla sua pagina Facebook da Emanuele Macaluso) costituiscono i grumi ideologici di una nuova destra populista, irriducibile ad ogni progettualità riformista condivisa per il bene del Paese.
Per buona parte si tratta di forze abituate a coltivare rendite e tatticismi facendo leva proprio su un sistema istituzionale imperfetto, rigido, tortuoso, macchinoso, burocratico e consociativo.
Ad esse, nell’arcipelago del NO, si sono affiancati i due populismi rappresentati rispettivamente da:
1. Il movimentismo pentastellato, espresso prevalentemente dai front runner nazionali e dalle isteriche prese di posizione di Grillo

2. La composita formazione di Sinistra Italiana, postcomunisti antirenziani, giustizialisti, monnezzari della disinformazione

Bisogna essere rigorosi nella mappatura della nuova geografia politico-elettorale emersa con il Referendum perché nella nuova stagione del cambiamento, la personalizzazione (intesa come diffuso impegno a metterci la faccia) ed il rigore programmatico (supportati dalla reingegnerizzazione del sistema organizzativo e partecipativo) dovranno costituire i capisaldi per il rilancio a tutto campo dell’azione riformista del PD.
Con gli appena superati mille giorni di Governo e l’intensa campagna elettorale abbiamo vissuto il primo tempo di una fase storica segnata da una inedita strategia politica riformista per la quale si sono sprigionate nuove forze, nuove idee progettuali, nuove energie intellettuali, nuovi protagonismi, nuovi entusiasmi.
E’ stata aperta una sfida all’interno di un clima plumbeo, denso di incognite e pericoli per il Sistema Paese, di cui il primo ad avere piena consapevolezza è stato Matteo Renzi, la cui inopinata e sorprendente discesa in campo va interpretata con le parole illuminanti con cui Mario Rodriguez (Unità del 22 ottobre) gli si è rivolto con una lettera aperta “tu sei il frutto della crisi, di uno stato d’eccezione. Hai trovato muri, porte chiuse (a volte sprangate) e le hai buttate giù con l’irruenza imposta proprio da quelle condizioni. Ovviamente ci sono macerie e danni collaterali, esagerazioni e straripamenti che in molti si augurano possano essere contenuti all’indispensabile. Ma la tua irruenza è speculare alle resistenze con le quali si erano e si sono consolidate le resistenze passive”.
Il secondo tempo si apre adesso ed ha per posta in gioco la modernizzazione del Paese, con uno spettro di questioni che, con linguaggio degli anni ’60 possiamo definire strutturali, con difficoltà diventate più chiare nel corso di questi ultimi tre anni, che per essere affrontate (uso ancora le parole di Rodriguez) “ha(nno) bisogno di protagonisti ed è importane che tu dica chiaramente che comunque vadano le cose il tuo impegno ci sarà (a cominciare dal congresso del PD), che ti impegnerai a reclutare una squadra di persone affidabili e competenti, a trovare una forma organizzativa all’altezza dei nostri tempi, perché le esigenze che hanno generato questa particolare congiuntura non sono legate alla tua persona ma vengono di lontano”.
Certo, nel rilanciare l’azione politica, è prioritario liberare il campo dai fraintendimenti, dalle bassezze morali, dalle manovre che, all’interno del Partito, la congiuntura referendaria ha “liberato” per quell’insana ed autolesionistica tentazione che parte della minoranza ha coltivato, volendo cogliere l’occasione del consistente movimento antirenziano cresciuto nel Paese per disarcionare il Segretario, illudendosi di prendersi una rivincita giocando sporco di sponda con gli avversari (chi in modo subdolo e squallido – aggettivo di Massimo Cacciari rivolto a D’Alema, chi per una lettura superficiale e/o strumentale dello scenario politico).

Un anno spartiacque

Comunque la si valuti, l’esperienza di questo 2016 ci ha consentito di comprendere meglio i tre nodi fondamentali la cui persistenza rende vischiosa l’uscita dell’Italia dalla situazione di gallegggiamento:

a) la complessità e profondità degli ostacoli con cui il Progetto di Riforma Costituzionale si è dovuto misurare, ovvero la crisi politica sistemica, così come è stato ben evidenziato in due sintestiche e pregnanti analisi di

– Michele Salvati – La mallattia profonda del nostro sistema politico – Corriere della sera 8 novembre 2016

– Sergio Fabbrini – Se le riforme non sono né di destra né di sinistra – Il Sole 24 Ore – 19 giugno 2016

e nell’orientamento espresso dalla Banca d’Italia per voce del suo Governatore Ignazio Visco:
“Io non so quanto inciderà l’esito del referendum. Nel mondo, è opinione diffusa che la vittoria del No potrebbe essere un problema. Io penso e lo dico agli interlocutori esteri con i quali parlo ogni giorno, che potrà esserci un po’ di tensione, maaggiungo anche che bisognerà andare oltre la tensione perché le riforme istituzionali vanno fatte in ogni caso” (la Repubblica, 14 novembre 2016)

b) L’agenda dei ritardi sul versante delle Politiche per lo sviluppo economico: rilancio dell’attività manifatturiera, infrastrutture, difesa del territorio, rigenerazione urbana, crisi del sistema creditizio…
Sotto i fendenti della competizione globale sempre più densa di sfide ed opportunità, sotto l’incalzare di calamità naturali che costiuiscono – però – eventi “ordinari” nel contesto idrogeologico del Paese, sotto la pressione di una diffusa domanda di riqualificazione infrastrutturale, ambientale ed urbana, è risultato evidente come la più recente fase di governabilità dei tecnici se ha avviato con determinazione il rigore dei conti pubblici, ha clamorosamente sottovalutato le conseguenze sociali ed economiche della penuria di investimenti pubblici, oltre che la necessità di operare dei provvedimenti di equità sociale sul terreno previdenziale e del contrasto alle nuove povertà.
Ecco perché, oltre che ai numerosi provvedimenti che hanno qualificato l’attività legislativa (e di cui Matteo Renzi si dichiara giustamente orgoglioso: Unioni civili, Dopo di noi, Terzo Settore….), è il caso di sottolineare come in almeno un paio di Provvedimenti, sono state adottate delle scelte strategiche ireversibili e che resteranno doverosamente al centro dell’azione dei Governi prossimi e venturi per alcuni decenni:
– Progetto Casa Italia

– Legge Manifattura 4.0

c) Sul piano macro-economico-finanziario poi si è riusciti ad impostare un’azione di risanamento, correlandolo al riposizionamento dell’Italia nello scacchiere delle relazioni con l’Europa, attraverso il superamento dell’attegladri-di-futuroladri-di-futurogiamento subalterno-remissivo che aveva caratterizzato la precedente legislatura ed operando per un cambio dell’Agenda politica europea centrata sull’obiettivo di “Far uscire l’Europa dalla routine di Bruxelles”, ovvero di avviare un processo di rigore coniugato con politiche espansive.

Più Italia in Europa, più Europa in Italia

L’ostinazione e la determinazione con cui il tandem Renzi-Padoan ha tallonato i vertici europei ha aperto una nuova prospettiva, non solo per affrontare le emergenze provocate dalle questioni profughi e terremoti , ma anche per la negoziazione dei margini operativi di Finanza pubblica generale. Nei giorni scorsi la Commissione europea ha dato le sue prime valutazioni sui Documenti Programmatici di bilancio dei Paesi dell’Eurozona e ha rilasciato una Comunicazione «Towards a positive fiscal stance for the euro area» nella quale si prefigura un’impostazione di bilancio più favorevole alla crescita della Uem.
Si tratta dei primi segnali di inversione di rotta incoragggianti, ma non sufficienti ad affrontare un 2017 molto difficile per l’Europa che dovrebbe anche procedere nella parziale attuazione del “Progetto dei 5 Presidenti” per la più stretta Unione economica e monetaria da anni è in discussione.
Infatti l’Europa del 2017 si troverà di fronte a due scenari molto complessi con riferimento ai quali le Istituzioni comunitarie dovranno prepararsi con razionalità ed un’inedita capacità di iniziativa.
a) Il primo è l’arrivo inatteso di Donald Trump alla Presidenza degli Usa che ha monopolizzato in modo disordinato nei giorni scorsi l’attenzione delle Istituzioni europee e di alcuni capi di stato o di governo dei Paesi membri. Il problema è ineludibile perché il neo-presidente Usa ha nel suo programma scelte di politica internazionale ed in particolare di rinegoziazione dei rapporti bilaterali e nell’ambito NATO, che avranno sicuramente conseguenze di notevole rilievo per la Ue e la Uem.

b) Il secondo problema che fa diventare il 2017 un anno non di routine per le Istituzioni europee sono le elezioni politiche in Francia, Germania e Olanda. Difficile quindi che la leadership di Angela Merkel si possa esercitare anche con la sua capacità di mediazione che le va riconosciuta.

Il “pilastro” della politica europea del 2017 dovrebbe essere quindi la Commissione che dura in carica fino al 31 ottobre del 2019 e che, almeno pro tempore, potrebbe avere un ruolo più incisivo. Risulta evidente quindi come le sollecitazioni del nostro Governo (che potranno trovare una particolare cassa di risonanza in occasione del 70° dell’Unione che si clebrerà a Roma) possono influire per il potenziamento della sua iniziativa politico-istituzionale e socio-economica intese ad adottare misure per contenere sia il crescente anti-europeismo, sia la bassa crescita, sia le crepe che intaccano la solidarietà tra Stati della Ue e della Uem.
Tali misure, che sono decisamente importanti per la politica economica italiana, sono in particolare tre:
1. La prima riguarda gli investimenti per la crescita e l’occupazione, soprattutto giovanile anche con il raddoppio del Piano Juncker per arrivare a 650 miliardi in sei anni. La direzione è giusta anche se, come è sempre stato osservato, il Piano è troppo macchinoso e andrebbe semplificato anche con la emissione di eurounionbond.

2. La seconda riguarda i movimenti migratori. Con il lancio di un piano di investimenti con un potenziale tra i 40 e i 90 miliardi per l’Africa e il vicinato sud dell’Europa si vuole contribuire allo sviluppo e a frenare le migrazioni. A questo si affianca l’impegno a potenziare la guardia costiera europea e le collaborazioni europee per coniugare accoglienza e sicurezza.

3. La terza riguarda un apparato di difesa europea con riferimento al quale si propone un fondo europeo per un’industria innovativa e si ricorda che il Trattato di Lisbona consente agli Stati membri di mettere in comune gli apparati di difesa.

Il PD prossimo venturo

L’abbozzo di analisi e le considerazioni fin qui formulate, trovano un loro fondamento anche nella condivisione della strategia con cui la leadership renziana ha impresso un’accelerazione operativa all’azione di governo ed una qualità “sentimentale” alla guida del Partito (nel senso della riscoperta delle emozioni e motivazioni con cui esso è sorto, a partire dal recupero della matrice culturale dell’Ulivo).
Debbo altresì segnalare che la vicenda della campagna referendaria, se da un lato ha confermato il carattere non estemporaneo dell’affermazione di Matteo Renzi nel Partito Democratico, ha dall’altro evidenziato– in controluce – i limiti strutturali e le contraddizioni di una formazione politica che si è candidata ad interpretare un ruolo decisivo (anche se non esclusivo) per traghettare il Paese verso una stagione di rigenerazione istituzionale e prosperità economica.
Si tratta di carenze e disfunzionlità che costituiscono il portato delle ambiguità con cui una parte della nomenclatura del Partito ha perpetuato un ruolo ed una rappresentanza non sottoposti a criteri di valutazione qualitativa da parte degli iscritti e degli elettori, con il risultato che si è creato un cortocircuito – penalizzante per il consenso – tra una linea riformista innovativa promossa dalla leadership nazionale e dalle attive compagini parlamentari (a cui rivolgo sommessamente un plauso riconoscente per il lavoro difficile svolto in condizioni di “cattivo vicinato” e subita aggressività) e l’audience di un popolo democratico favorevole, ma scarsamento coinvolto nei necessari processi di discussione, riflessione, mobilitazione.
Ho avuto modo di focalizzare alcune incongruenze dell’Organizzazione PD in riferimento alla discussione intorno al Congresso regionale veneto:

Salviamo il soldato Roger (e rigeneriamo il PD veneto)

Reimpaginare la comunicazione


Sui temi e dilemmi affrontati in quegli interventi mi propongo di ritornare con approfondimenti correlati ed attualizzati all’imminente scadenza congressuale regionale.
Ma in conclusione del discorso sulla prospettiva postreferendaria desidero aggiungere alcune annotazioni e titoli di ragionamenti che rientrano in una riflessione sulla natura, la cultura, la struttura ed i compiti del Partito Democratico prossimo venturo.
Li trascrivo in modo sciolto e senza pretese, ma con l’impegno di sviluppare compiutamente l’analisi e la proposta che sono enucleate nelle note seguenti.

1. La situazione emergenziale del Paese e lo schiacciamento del Partito nella sua funzione di architrave nel Governo hanno sacrificato e penalizzato fortemente la riflessione sui cruciali nodi della contemporaneità politica, con particolare riferimento alla trasformazione sociale indotta dalla crisi economico-finanziaria ed ai nuovi compiti della sinistra a livello nazionale ed europeo. Temi che sono emersi prepotentemente con la vicenda Brexit (che ha messo in luce la debolezza e contradditorietà della leadership Corbyn) le elezioni americane (che hanno evidenziato l’opacità organizzativa del Partito Democratico ed il vuoto di leadership postObama), il declino generalizzato dei Partiti Socialisti in Europa.

Su tale grumo di temi e dilemmi, un contributo stimolante è venuto dall’ultimo libro di Goffredo Bettini la cui utilità è grande almeno per un paio di ragioni: a) partendo dal punto di osservazione di un autentico ex comunista, indaga le cause della sconfitta culturale prima che politica di quella parte di nomenclatura piddina proveniente dagli apparati PCI-PDS-DS che non è stata in grado di comprendere il “vettore rinnovamento” intepretato da Renzi ed ha finito per estraniarsi a qualsiasi processo di innovazione politico-riformista; b) dall’attuale scranno di Parlamentare europeo è nelle condizione di analizzare le vicissitudini e gli interrogativi nei quali è immersa una sinistra che deve misurarsi con le difficoltà del processo di integrazione europea, a sua volta interrogata severamente da una globalizzazione senza sconti.

Per una sintetica presentazione del libro vedasi l’intervista a Bettini: «Una via per la sinistra tra governismo e vecchie ricette» – l’Unità 27 Maggio 2016l

Sono in ogni caso diversi i contributi e gli spunti teorici che nel corso del 2016 hanno posto all’attenzione della dirigenza piddina l’esigenza di allargare lo sguardo sullo spettro dei problemi riguardanti una nuova progettualità politica:

– I numerosi interventi di Mauro Calise sul modello di partito: “La rivoluzione dei sindaci ha vinto. Renzi incarna quel modello” – L’Unità 27 Febbraio 2016

– Tra le diverse interviste di Arturo Parisi sul legame tra Ulivo e PD, segnalo in particolare: “Il nostro Ulivo nato per unire e Renzi è figlio di quella stagione” – L’Unità 22 Aprile 2016

– E poi la costante sollecitazione di Gianni Cuperlo nei confronti diretti dello stesso Renzi e dell’intera dirigenza nazionale per assumere la consapevolezza delle sfide che i sistemi democratici, investiti dalla crisi economica e sociale, stanno attraversando; vedi in particolare “La sinistra vive nella lotta alle disuguaglianze , non nel recinto del Sì o del No” – L’Unità 13 novembre 2016

– Una presenza sobria, non “ingombrante” sul piano politico, ma incisiva per i contenuti, i suggerimenti e le valutazioni sui maggiori temi dell’agenda politica è stata quella di Walter Veltroni, in particolare con gli editoriali domenicali sull’Unità

– Una novità davvero significativa è sicuramente quella che possiamo definire una “svolta” per il giornale la Repubblica (20 novembre) con l’ex Direttore Ezio Mauro che si è intestato un’importante inchiesta titolata “Dov’è la sinistra?” che rappresenta una sorta di mappatura del disagio sociale e del territorio che interrogano e richiedono un nuovo modello di Partito e di rappresentanza
(La nostra inchiesta parte da Torino, dal tram numero 3 che taglia e ricuce due città: quella del salotto e quella dei nuovi esclusi. Sono loro che hanno gonfiato il vento dei grillini)

In questa minirassegna dei suggerimenti e delle piste di ricerca per una nuova visione e progettualità politico-culturale che dovrà ispirare il Partito in quello che ho definito il “secondo tempo”, una lettura che consiglio vivamente è il libro di Claudio Cerasa, giovane Direttore de il Foglio: Le catene della sinistra. Non solo Renzi, Lobby, Interessi, Azionisti occulti di un ptere immobile.
Pubblicato nel maggio del 2014 dice quasi tutto dei guai, del malessere e delle incomprensioni che una parte della minoranza avrebbe introdotto nell’agenda del Partito, con maldestre operazioni di disturbo che hanno sicuramente intaccato la legittimità e l’efficacia della battaglia referendaria.

2. Contestualmente al ripensamento sul piano dell’identità valoriale e della mission, la seconda grande questione, strettamente connessa, è quella del riposizionamento sociale, del radicamento organizzativo nel territorio e delle forme organizzative con cui dare rappresentanza ed espressività ad un nuovo rapporto con i ceti sociali maggiormente sofferenti e trascurati nella comunicazione e nel coinvolgimento diretto quando si è trattato di varare impoortanti Provvedimenti in particolare sulle grandi Riforme della Scuola e del Mercato del lavoro.

Qui è bene precisare, però, che le difficoltà di dialogo con i lavoratori, i cittadini e gli elettori sono stati causati dalla lettura distorcente della strategia e dei programmi del Partito, operata dalle componenti interne, poi fuoriuscite, del tutte estranee alla cultura riformista ed abbarbicate a vetuste concezioni ideologico-corporative e pertanto non in grado nemmeno di illustrare e divulgare correttamente molti dei contenuti socialmente innovativi ed equitativi varati dal Governo.

D’altronde in alcuni degli esponenti più assetati di visibilità e distinzione dalle scelte discusse nella Direzione nazionale, sono emerse delle caratteristiche di vacuità, fighetteria, inconcludenza, che in futuro dovranno essere seriamente escluse dai profili di una nuova classe dirigente, che va cercata e selezionata nell’ambito del mondo del lavoro, dei ceti produttivi e professionali che esprimono una solida cultura della responsabilità, una forte propensione all’innovazione, un’esperienza concreta delle pratiche di solidarietà ed inclusione sociale.

3. Il nuovo radicamento organizzativo può trovare alimento e sostegno non solo con il rinnovamento della funzione dei Circoli, ma anche potenziando e qualificando i canali di comunicazione, relazione, interazione con i soggetti, le associazioni ed i centri produttori di ricerca e cultura, con i molteplici protagonisti della rivoluzione digitale, con le esperienza di partecipazione e cittadinanza attiva, portatrici di un nuovo sentiment democratico, non piu ingabbiabile nei modelli burocratici e gerarchici della tradizionale forma-partito (compresa quella generosamente, ma illuministicamente immaginata da Fabrizio Barca)

4. Tale nuovo respiro consentirà di avviare la rigenerazione da interpretare e praticare anche come metodologia per disintermediare i processi della vita interna e dare vita ad una stagione di incentivazione della militanza generosa e gratuita, dell’affermazione di leadership prestigiose e transitorie, della rotazione degli incarichi: insomma di un diffuso coinvolgimento di iscritti e militanti che costituisca un deterrente per il formarsi di incrostazioni organizzative, di zone non trasparenti per i processi di decisione politica e selezione dei gruppi dirigenti.

5. Tutto ciò potrà determinare un nuovo flusso di adesioni ed una rivitalizzazione del dibattito interno che consentirà di superare i residui di pratiche di consenso e potere connaturate al costume dei vecchi partiti di provenienza, a logiche di clan, a subculture politiche che trasudano di “centralismo democratico” (che trova ancora delle espressioni persino patetiche nei vertici – sottolineo vertici – di Organizzazioni come la CGIL e come l’ANPI il cui Presidente – Avv. Carlo Smuraglia – è riuscito a rinverdire con la “direttiva sulla linea del NO” lo spirito dello stalinismo:
“… è lecito chiedere, pretendere, comportamenti che non danneggino l’Anpi e che cerchino di conciliare le decisioni con la libertà di opinione. Facciamo degli esempi. Si può ufficialmente e con delibere formali (anche congressuali) rifiutare di aderire ai Comitati per il No al referendum? A nostro parere, no, non si può. E si può costituire e aderire a un Comitato per il Sì? A nostro parere non si può. E non si può per motivi politici, per rispetto dell’Associazione e per rispetto delle direttive degli organismi dirigenti. Ma allora, si dirà, a che serve il pluralismo?”.

Monito per i populisti di casa nostra

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costo-brexitLONDRA: 70 MILIARDI IL COSTO DI BREXIT
Il governo risponde frenando sull’austerità e rilanciando la spesa
Leonardo Maisano 24 Novembre 2016 Il Sole 24 Ore
FINANZIARIA D’AUTUNNO. PREVISIONI DI CRESCITA AL RIBASSO NELL’AUTUMN STATEMENT DEL CANCELLIERE HAMMOND
La crescita si contrae e l’indebitamento sale. Il mondo del dopo Brexit regala un’immagine scontata dove, tuttavia, non compaiono nuovi tagli al welfare, ma la dilazione nel tempo di un risanamento che non si completerà più, come previsto, nel 2020. Quell’anno Londra doveva essere in surplus di bilancio e invece avrà scoperto di aver aumentato, in un quinquennio, il proprio debito di 122 miliardi di sterline non previsti nel marzo scorso. Di questi 58,7 (69,2 miliardi di euro) vanno sotto la voce Brexit. Il rapporto debito-Pil, inoltre, già nel 2018 supererà la soglia del 90 per cento.
Il prezzo del divorzio angloeuropeo è questo, per ora. E va imputato largamente al riveduto e corretto tasso di sviluppo. Londra scopre di crescere nel 2016 più del previsto (2,1% contro il 2% calcolato dall’Office for Budget Responsibility in marzo), ma riconosce di dover cedere ampio terreno agli effetti del divorzio europeo negli anni a venire. Il cancelliere dello Scacchiere Philip Hammond nel suo primo Autumn Statement – Finanziaria d’autunno – ha sgranato un rosario di previsioni al ribasso: nel 2017 il Pil britannico si fermerà a 1,4%, lo 0,8 meno di quanto preventivato e così proseguirà, con numeri variabili, fino al 2020 quando ritroverà il ritmo della progressione immaginata nel marzo scorso, in epoca pre-Brexit, con un più 2% annuo.
Sul campo della battaglia referendaria rimane pertanto la promessa sventolata dai governi conservatori per molti anni: il pareggio di bilancio nel 2020 fortissimamente voluto dall’ex cancelliere George Osborne che lo aveva scolpito in una serie di manovre costate care ai contribuenti del regno. E tanto basta per confermare che il morso dell’addio a Bruxelles comincia dunque a essere avvertito con nettezza, nella consapevolezza che potrebbe andare molto peggio (difficilmente meglio) perché nessuno sa quali saranno le reali conseguenze del voto espresso il 23 giugno scorso, cinque mesi ieri. «Il nostro mandato – ha detto detto il cancelliere – è dare maggiore resistenza al contesto economico post-Ue e al quadro transitorio che verrà. Per questo dobbiamo misurarci con storiche debolezze a cominciare dalla scarsa produttività».
Il mal sottile dell’economia nazionale sul quale Philip Hammond s’è a lungo intrattenuto. «Non solo siamo meno produttivi di Usa e Germania del 30% – ha ribadito il responsabile del Tesoro – ma anche del 20% rispetto alla Francia e dell’8% rispetto all’Italia. Un lavoratore britannico impiega cinque giorni a fare quanto un tedesco realizza in meno di quattro». La risposta secondo il cancelliere passerà attraverso una fondo da 23 miliardi di sterline che finanzierà innovazione e infrastrutture, così come l’assegno pubblico per Ricerca e Sviluppo s’ingrosserà di altri 2 miliardi di pound entro il 2020.
L’urlo uscito dalle urne della Brexit andava oltre i temi strettamente europei essendo stato anche un “no” della base elettorale alle diseguaglianze che affliggono la Gran Bretagna più, crediamo, degli altri Paesi europei. La risposta di Philip Hammond è giunta sotto forma di un colpo di freno all’austerità tanto cara ad Osborne e in una manciata di misure a pioggia a favore dei cosiddetti “jams” coloro che a stento arrivano a fine mese. In primo luogo è stato varato un piano-casa con 1,4 miliardi di sterline per decine di migliaia di nuove abitazioni popolari. Inoltre, il cancelliere ha annunciato l’aumento del salario minimo a 7,5 sterline l’ora dalla soglia di 7,20 pound in vigore oggi.
Sul fronte della tassazione Philip Hammond s’è limitato a mantenere gli impegni presi con gli elettori dal governo di David Cameron. La corporate tax come ripetutamente annunciato calerà dal 20% di oggi al 17%, ma non sembra che possa andare più in giù. A dare la sensazione di una sforbiciata fino al 15% era stata, nei giorni scorsi, Theresa May che aveva garantito agli imprenditori la «più competitiva corporate tax del G20». Londra ha già quel primato, ora minacciato da Donald Trump che punta, esplicitamente, al 15 per cento. S’era pertanto diffusa la sensazione che la Gran Bretagna per difendere il record fosse pronta a tagli ulteriori. Non sarà così, non ora almeno, nonostante la via della concorrenza fiscale si spiani con chiarezza davanti al cancelliere Hammond per bilanciare la minaccia rappresentata dalla Brexit. Se ne è già avuta conferma: la decisione di Nissan di mantenere gli investimenti nel Regno Unito è maturata dopo un incontro top secret a Downing Street. Le promesse di neutralizzare i danni potenziali della Brexit per l’automotive potrebbero passare proprio da un pacchetto mirato di agevolazioni d’imposta.

Manometti qua sputtana là, Eia Eia alalà

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complottolNon deve essere considerata casuale la coincidenza tra l’emergere dello scandalo firme false grilline con l’accentuarsi del linguaggio truculento, melmoso, barbaro ed ombroso dal parte del caudillo genovese.
Nell’aspra competizione in corso, mentre le tifoserie del SI e del NO si tanno arrovellando sui dettagli e sul significato della Riforma Costituzionale, c’è una formazione politica (M5s) che ha deciso di approfittare della fisiologica “confusione democratica” in corso per introdurre nella pratica e nel linguaggio politico l’adozione del metodo “ogni mezzo è utile per raggiungere l’obiettivo”.
La manomissione dei documenti e lo sputtanamento sistematico degli avversari rientrano in questa strategia resa possibile dalla struttura organizzativa in franchising e dal pensiero degradato del boss che prefigurano il neototalitarismo pentastellato in cammino. Tali caratteristiche distintive, poi, sono incardinate in quella orrida ed oscura Piattaforma denominata Rousseau che sotto il profilo della visione democratica è “una cagata pazzesca”, ma per la falsificazione virale della realtà ed il disorientamento dell’opinione pubblica si rivela uno strumento efficacissimo.
Ciò che in questa vicenda appare sorprendente, ma a ben vedere non lo è, è l’atteggiamento dei competitor che co-operano, nell’ambito dello schieramento del NO, con Grillo: lo “psiconano” Berlusconi ed il “Gargamella” Bersani si stanno dando da fare per aiutare lo psicopatico, ex comico autoattribuitosi il ruolo di leader politico, a dare l’assalto alla diligenza guidata dal “menomato morale”, “lesionato”, “scrofa ferita”….
Mentre gli ipocriti, rancorosi (ed un po’ vigliacchi) avversari del Presidente del Consiglio gridano al rischio della “democrazia autoritaria”, giovani balilla crescono capitanati da un personaggio che, se dovesse cadere sotto i colpi della propaganda sfascista l’unico suo antagonista democratico (Renzi), non si farà scrupolo di prendersi ed esibire il loro scalpo (si fa per dire, perché, nel caso di Berlusconi e Bersani gli resterebbe ben poco da strappare!).
L’aspetto grottesco della vicenda che sta andando in scena nella campagna referendaria è quello rappresentato dai professoroni, ottuagenari, e romanticoni che in questi mesi hanno richiamato retoricamente i valori della Resistenza, ma resi miopi dall’età e dal pregiudizio ideologico, non si sono accorti d a dove stanno arrivando gli attacchi ed i pericoli per la convivenza democratica.

Grillo, una risata cancellera’ le tue farneticazioni e sepellira’ la tua caricatura!

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Ho già avuto modo di invocare un TSO per una personalità disturbata come quella dell’ex comico genovese. Osservo, però, il persistere del suo comportamento da psicopatico: approfittando della connivenza di un giornalismo miope e correo che sottovaluta il carattere eversivo del suo linguaggio volgare, Grillo continua a vomitare ingiurie nei confronti del Presidente del Consiglio. Ritengo pertanto opportuno segnalargli che non solo le sue provocazioni ci fanno il solletico, ma soprattutto che l’età gli sta giocando un brutto scherzo. Egli insegue gli anni giovanili nei quali a Craxi ed ai socialisti riservava la sua attività di sputtanamento, potendo contare sulla “collaborazione” dei Magistrati (che lo avevano già salvato dal carcere quando guidando imprudentemente la sua auto, i tre amici che si trovavano con lui trovarono la morte) e sull’acquiescenza di molti democristiani e comunisti, opportunisticamente interessati alla “bastonatura” dell’alleato-competitor scomodo. Ma allora il linguaggio usato osservava i canoni della satira ed i panni vestiti erano quelli del comico. Oggi Grillo, con un travestimento farsesco, si è autoattribuito un ruolo da caudillo con cui crede di avere il lasciapassare per manganellare impunemente gli avversari, senza rispettarne la dignità e la rappresentatività. Ebbene, non solo è inesorabilmente passato il tempo, ma soprattutto sono cambiati i protagonisti: sicuramente può contare sulla vigliaccheria di alcune cariatidi del vecchio mondo politico, ma Renzi ed i democratici che ne sostengono il progetto di rinnovamento del Paese hanno una tempra democratica robusta sia per replicare sul terreno politico alle sue farneticazioni che per continuare a sorridere di un personaggio che è diventato la caricatura di se stesso!

http://www.unita.tv/opinioni/il-linguaggio-di-grillo-non-e-folklore-giustifica-la-violenza/

Perchè dilaga il falso in rete

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Le recenti elezioni americane sono state combattute senza esclusione di colpi e la Rete è stato un campo di battaglia scelto soprattutto dagli agguerriti supporter di Trump per sorprendere ed attaccare gli avversari con autentici agguati e notizie “disinformanti”.
Ma la degenerazione del linguaggio e del confronto via social costituisce un’esperienza quotidiana di noi tutti ed un libro di cui parla Luca De Biase ce lo conferma con dovizie di dati preoccupanti (mentre Crozza ce ne dà una rappresentazione esilarante)

dfalso-in-retei Luca De Biase – NOVA24 – 13 Novembre 2016 Il Sole 24 Ore

Dedicato a chi sostiene Hillary Clinton: «Perché fare la coda per andare votare? Basta mandare un sms con la parola HILLARY al numero 5*****». Negli ultimi giorni della campagna elettorale americana, nelle community online dei democratici si sono moltiplicati questi messaggi che consigliavano soluzioni per votare più comodamente. Contenevano consigli falsi. Quei messaggi erano pensati per sviare gli elettori di Hillary e aumentare le probabilità che non andassero a votare. Ne ha raccolti molti esempi Charlie Warzel, per BuzzFeed, un servizio di informazioni che a sua volta non è sempre stato esente da controversie. La disinformazione in rete è diventata epidemica. Un po’ a causa della velocità con la quale si pubblica e si fruisce dell’informazione in rete. Un po’ anche a causa di qualcosa di più profondo. In realtà, le persone sui social network tendono ad aggregarsi in base a quanto si assomigliano: per orientamenti, interessi, curiosità, preferenza politica e così via. Gli algoritmi che le aiutano a gestire la quantità enorme di informazioni cui sono potenzialmente esposte sono tali da selezionare ciò che probabilmente può loro piacere sulla base di ciò che in passato ha attirato la loro attenzione o il loro esplicito gradimento. Si formano così delle bolle di conformismo: le notizie coerenti con l’opinione generale passano, vere o false che siano; le notizie che smentiscono le idee che accomunano le persone vengono ignorate. Ne parlano Walter Quattrociocchi e Antonella Vicini in “Misinformation” (Fra nco Angeli 2016). Il libro si basa sull’osservazione empirica del comportamento di grandi quantità di persone online. E non è confortante. Joi Ito, direttore del MediaLab, membro del board del New York Times, passato al World Business Forum di Milano per due incontri organizzati da Porsche Consulting e Indra, dice che l’informazione di qualità dipende dal buon giornalismo. E che questo può essere rilanciato da editori che capiscono l’innovazione. Joi è più possibilista. Se gli editori diventano leader tecnologici.

CULTURA DELLA SCIENZA, PENSIERO, NOOSFERA

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Per un’informatica umanistica
Francesco Varanini – NOVA24 – 30 Ottobre 2016 informatica-umanistica Il Sole 24 Ore

La macchina prescinde dal progetto tecnico: deve diventare spazio di libertà
Troppi filosofi parlano di computer e di telefonini, e di Google e di Facebook avendo invece ancora in mente la tavoletta di cera, la carta, il libro. Piace loro immaginarsi nell’antica Grecia, ai tempi della Scolastica o dell’Illuminismo. Dimenticando che Aristotele e Platone, e ancora Cartesio e Leibniz, Pascal e Goethe, conoscevano bene le “tecnologie avanzate” del loro tempo. A troppi filosofi, insomma, piace dire che nulla cambia: da tempi immemorabili l’uomo ha in mano un bastone, il computer non è che un bastone. Non sanno, o non vogliono sapere, che il bastone-computer è governato da un algoritmo, da un codice già scritto, e non dal braccio e dalla mente dell’uomo.
I filosofi, così lontani, non sono in grado di dialogare con informatici e computer scientist. Che a loro volta sono vittime di una formazione limitata. Le loro fonti, lungi dall’abbracciare il vasto campo del pensiero umano, considerano solo un unico filone della filosofia e della matematica. Il mondo nel quale si muovono ha un fondatore, Turing, e alcuni precursori: Russel, Frege, Hilbert: logica formale, linguaggi simbolici depurati dalle ambiguità dei linguaggi naturali, matematica fondata su assiomi che non è necessario discutere.
Abbandonato dal filosofo, l’informatico trova semmai un compagno di strada nello scienziato. Per entrambi l’uomo è una macchina. L’uomo non è che una macchina che ospita geni. Anche ciò che gli esseri umani si ostinano a chiamare cultura funziona in base allo stesso meccanismo. Non ci sarebbe dunque null’altro che informazione scritta in un codice, informazione che garantisce la propria sopravvivenza passando di macchina in macchina. Si arriva così a sostenere che ogni organismo non è che un minuscolo elemento della “noosfera”, la Mente Pensante alla quale ogni essere vivente appartiene. L’essere umano, a questo punto, cessa per così dire di esistere: sfuma nel post-umano.
Eppure io, essere umano, sto in questo istante pensando. Sto scrivendo qualcosa che è, sia pure in minima misura, diverso da ogni cosa già scritta. E voi state leggendo, state interpretando in un modo personale quello che io ho scritto. Saremo pure macchine, irrilevanti elementi della “noosfera”, ma abbiamo il diritto-dovere di vivere la nostra individualità. Se i filosofi di professione non sanno aiutarci, non ci resta che aiutarci da soli.
Per ogni essere umano è importante sapere, ed accettare, che ci troveremo a vivere in un mondo popolato da macchine autonomamente pensanti. È importante anche aver presente il nostro essere sempre più ibridati con macchine: supporti di memoria, protesi, “ricambi” di organi del nostro corpo. Ma resta all’uomo la possibilità di scegliere fino a che punto ibridarsi con la macchina. Resta per noi la possibilità di pensare a nostro modo: per salti logici, per intuizioni, per connessioni. Possiamo lasciare a qualche tecnico il tentativo di replicare in una macchina queste capacità. Dedicandoci intanto ad usarle, queste umane capacità. A questo ci allena la cultura umanistica. Torniamo a leggere Omero, Dante, Shakespeare, Goethe. Lì scopriamo le radici della nostra libertà e della nostra responsabilità.
Certo, vorremmo che i tecnici avessero in mente, nel mentre progettano le macchine, non solo una riduttiva letteratura tecnica, ma anche Omero e Shakespeare. In questa luce diventa importante raccontare, come in un romanzo, la storia della macchina che chiamiamo computer, vista come sogno e progetto di singoli uomini: un sogno e un progetto che attraversano l’intero Ventesimo Secolo. Ma ancora più importante è che ognuno di noi, nel momento in cui usa il proprio computer, abbia in mente Omero e Shakespeare. Se restiamo disposti a sognare e a creare, sapremo allora usare come strumenti di libertà anche le macchine costruite per pensare al nostro posto.
Questa è l’informatica umanistica. Un’informatica che alla fin fine prescinde dal progetto dei tecnici, un’informatica che guarda invece alla pratica quotidiana degli esseri umani.
Basta un solo esempio: il Web, frutto di umani tentativi di conoscere. Massa incoerente di spezzoni di conoscenza. Accozzaglia di detriti. Detriti che ci appaiono sempre anche come nuovi materiali di costruzione.
Linguaggi di programmazione e database non sono in nessun modo novità. Sono solo l’estrema conseguenza del logicismo, da Frege a Turing. Il Web è novità. Il motore di ricerca è lo strumento con il quale possiamo affacciarci su questo sconfinato deposito di potenziali conoscenze.
Dobbiamo allenarci ad usare senza paura questo spazio di libertà.