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Le tecnologie dietro la notizia
Di Luca Rosati – NOVA24 –  30 Ottobre 2016  design-informazione Il Sole 24 Ore
Generando relazioni tra i contenuti, l’ecosistema digitale dell’informazione offre nuove esperienze E costruisce valore
«La trama del mondo non viene dagli oggetti, ma dalle relazioni fra gli oggetti. Un oggetto esiste come nodo di un insieme di relazioni». Questa è la visione del mondo della fisica, nelle parole dello scienziato Carlo Rovelli.
Ancora una volta, dalle leggi della natura, in questo caso quelle della fisica, arriva inaspettatamente una lezione importante per chi deve progettare nel mondo artificiale, ovvero per chi si occupa del design di oggetti o ecosistemi complessi. Incluso il design dell’informazione nell’era digitale.
In una situazione di sovrabbondanza informativa, rendere un’informazione trovabile non basta, non è più sufficiente. Occorre anche renderla comprensibile, fruibile. Il ruolo dell’architettura dell’informazione (e del suo design, in senso più generale) è oggi soprattutto questo: costruire relazioni per generare senso, contesto e infine conoscenza.
La nostra economia si sta spostando sempre più dalla produzione di beni verso l’offerta di servizi e di esperienze; si parla, per questo, di servitization e di «economia dell’esperienza». In seguito a questa trasformazione, oggi già in atto, il valore si sposta dal materiale all’immateriale. Una delle strategie fondamentali per operare questa trasformazione e creare valore aggiunto è proprio quello di collocare un oggetto all’interno di un ecosistema più ampio (che altro non è che una rete di relazioni). Insomma, in uno scenario dove contano sempre meno gli oggetti e sempre più le relazioni, il design deve ripensarsi: dalla creazione di “prodotti” alla progettazione di sistemi di relazioni.
Cercando su Google “Referendum costituzionale 2016” si ottengono più di sette milioni di risultati: pochi però vanno oltre la notizia del momento; ancora meno offrono una comparazione fra le ragioni del «Sì» e del «No»; nessuno propone (almeno nelle prime pagine) una ricostruzione approfondita del tema, una correlazione e analisi sistematica di quanto circola sui social, cosa scrive la stampa estera, e così via. Se su questo argomento sono in cerca di una notizia (per esempio, la data del voto) probabilmente il primo risultato che Google mi offre può essere sufficiente, indipendentemente dalla testata; ma se voglio orientarmi, ripercorrere e comprendere l’iter che ha portato alla riforma, allora mi serve una mappa. Il consumo in formato snack di contenuti soddisfa un bisogno informativo immediato (lo spuntino, appunto); per esigenze di approfondimento più complesse (il pasto completo) abbiamo bisogno di collegamenti che mettano in relazione l’oggetto (l’informazione) con l’insieme, perché solo così possiamo ricostruire il mosaico completo. Questo non deve essere letto come un tentativo di screditare i microcontenuti; lo scopo è sottolineare la complementarità di micro e macro. Una buona architettura informativa dovrebbe infatti abilitare anche il processo inverso: quello di scomporre e ricomporre in modo nuovo il contenuto: esportarne una porzione, rimetterlo in circolo.
Va in questo senso il progetto di “palinsesto orizzontale” presentato da Gianni Bellisario e Chiara Ferrigno (Rai, direzione palinsesto) al IV Summit italiano di architettura dell’informazione. L’obiettivo è superare la struttura gerarchica del palinsesto tradizionale e abbracciarne una multidimensionale molto più flessibile, che alla verticalità gerarchica preferisca l’orizzontalità delle correlazioni. La logica del palinsesto attuale è infatti sempre più inadeguata a rappresentare la complessità dell’offerta radiotelevisiva contemporanea, che alla radio e alla televisione vede affiancarsi il satellite, il web, i social network e la varie forme di user-generated content. Il palinsesto orizzontale trasforma questa complessità in ricchezza, salvaguardando le fitte relazioni interne fra i vari item, con un duplice vantaggio: per l’azienda, in termini di gestione; per il pubblico in termini di libertà e scelta.
Un altro esempio degno di nota, solo apparentemente estraneo all’ambito media, è quello di Walmart. Che nel 2011 ha acquisito la startup Kosmix, proprietaria di un software (Social genome) in grado di estrapolare dai social le informazioni riguardanti uno specifico argomento o prodotto. Walmart, che già fa largo uso dell’internet of things, sfrutta questa tecnologia per connettere atomi e bit, i prodotti fisici del punto vendita e la loro “ombra” che si riflette sulla nuvola, online.
E ancora: da tempo la BBC mette i propri archivi a disposizione del pubblico, rendendoli interoperabili attraverso interfacce di programmazione (Api) e incoraggiando il pubblico a sperimentare. Da questi esperimenti sono nati progetti poi sposati dall’emittente.
L’architettura dell’informazione ha un evidente risvolto etico. Il modo in cui architettiamo l’informazione, disponendola all’interno di una rete di relazioni, è strategico. Il come organizziamo un contenuto può essere addirittura più importante del cosa. O, meglio, il come e? parte integrante del cosa, perché contribuisce alla sua costruzione.

1866 -2016: la memoria tradital

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Il sentimento più profondo del Veneto è forse l’autocompiacenza…..; da questa civiltà filtrata non partiranno mai movimenti rivoluzionari, ma proprio il suo spirito conservatore e la dolcezza del carattere può esporla alle epidemie
GUIDO PIOVENE, Viaggio in Italia, 1953
Balza subito agli occhi che l’identità veneta è ambigua e sfuggente; essa oscilla inquieta tra ansie di autosufficienza e di separatezza e volontà di proiettarsi all’esterno mescolandosi agli altri nel mondo; oscilla caparbia tra l’orgoglio di una tradizione secolare che resiste all’usura del tempo e l’ambizione di riconoscere le proprie tracce nella comune civiltà dell’Europa
CESARE DE MICHELIS, Identità veneta, 1999

L’insopportabile ambiguità leghista

Che il governo legaforzista del Veneto costituisca più una minaccia che un’opportunità, un soggetto politico che gioca sull’ambiguità di programmi vaghi e sui fraintendimenti, piuttosto che costituire un coerente e determinato player impegnato a rafforzare il peso e l’integrazione della nostra Regione nell’ambito nazionale, ha trovato una clamorosa conferma nei giorni in cui alcune il suo rappresentante più diretto (Roberto Ciambetti, Presidente del Consiglio Regionale) ed alcuni amministratori locali hanno celebrato il rito del lutto in memoria dell’ “infausta” annessione al Regno d’Italia sancita dal Plebiscito del 1866.
Con tale manifestazione di mestizia i nostri furbetti tardo-dorotei hanno dribblato l’incombenza politico-culturale (ed istituzionale) di dedicare all’evento l’attenzione e la riflessione che il 150° avrebbe meritato; un’occasione, oltretutto, che sarebbe stata utile per operare una ricognizione aggiornata dei temi e dilemmi storiografici, delle aspirazioni, illusioni e delusioni che hanno preceduto ed accompagnato il Risorgimento veneto ed il sofferto, contradditorio processo di unificazione delle Province venete all’Italia.
E’ interessante annotare come i partecipanti al “funerale” si siano espressi attraverso sentimenti che hanno confermato una propensione alla valutazione storica declinata secondo l’approccio vittimistico-piagnone e con una ingenua trasparente adesione ad un progetto di “liberazione” che in realtà corrisponde alla confessata nostalgia per l’antica servitù (si tratti dell’amata matrigna Serenissima – affidata agli Archivi della Storia – o dell’ammirato ed oppressivo vecchio Padrone Impero Austriaco).
A ben vedere, sul piano antropologico-culturale, si tratta di un antico riflesso alla subalternità, rivissuto nella contempraneità, con cui viene cancellato dalla memoria (e dalla coscienza politica), l’enorme bagaglio di valori spirituali, sacrifici, eroismi patriottici, programmi per l’emancipazione da ogni schiavitù (in primis dall’occupante e dalla fame) che i i Padri del Risorgimento veneto hanno lasciato in dotazione ad un popolo in gran parte “estraniato” ai processi storico-politici del suo tempo.
Per comprendere i nostri conterranei leghisti che si dichiarano antiitaliani può esserci di aiuto una lettura aggiornata dell’accorato lamento di Ippolito Nievo rivolto a
“Questo popolo rurale che s’attraversa con sì ostinata apatia agli intenti coraggiosi e liberali di quelli che dovrebbero essere i suoi maestri, egli è così vile ed abbrutito, da non comprendere l’alta utilità di quegli intenti, e da negare ad essi per sola pochezza d’anima la sua cooperazione”.
Nel suo saggio del 1859 invero, Rivoluzione politica e rivoluzione nazionale (pubblicato in Popoli d’Italia e coscienza nazionale, a cura di Giuseppe Gangemi) egli dimostrava di comprendere le ragioni della distanza che separava il “popolo illetterato delle campagne” dagli irrendentisti: “esso aborre da noi, popolo adddottrinato delle città italiane, perché la nostra storia di guerre fratricide, di servitù continua e di gare municipali gli vietò quell’assetto economico che risponde presso molte altre nazioni ai suoi più stretti bisogni. Esso diffida di noi perché ci vede solo vestiti coll’autorità del padrone, armati di diritti eccedenti, irragionevoli, spesso arbitrari e dannosi a noi stessi”…..
Ma è il caso di non essere troppo indulgenti nei confronti del loro vittimismo perchè, come ha ben sottolineato E. Galli Della Loggia nei giorni scorsi (Corriere della sera, 21 ottobre), ciò che li mobilità non sono sentimenti autentici, bensì la “sgangherata demagogia doppiogiochista” della Lega che fa la “veneta” indipendentista in Veneto, ma vorrebbe essere “nazionale” a sud del Po.
Non sono del tutto d’accordo con tale opinione, perché, conoscendone da più vicino (e non da uno, seppur ben fornito di volumi, studio romano) la matrice cultural-organizzativa, propendo a ritenere l’iniziativa leghista la conseguenza di un tatticismo che maschera una debolezza strutturale, la sindrome da periferia maltrattata, l’invidia nei confronti della leadership politica nazionale altrui attribuita al “favoreggiamento” dei poteri forti e non dovuta al consenso (veramente) popolare, disperata autodifesa nei confronti del “mondo nuovo che ti entra in casa” (non solo immigrati).
Condivido invece le parole sferzanti che l’editorialista usa (giustamente) nei confronti dl PD il quale “amaliato dalle fole del federalismo anti-italiano” risulta incapace di sottrarsi al ricatto leghista e di interpretare un ruolo culturalmente all’altezza in questa vicenda, penosa per il Veneto e per l’Italia.
Ma se era prevedibile l’atteggiamento del ceto politico regionale nel suo insieme, mediocremente amalgamato da tatticismo ed ignavia, il segnale più preoccupante, che evidenzia e conferma la marginalità del Veneto e la sua scomparsa dall’agenda politica nazionale è quello della totale assenza di iniziative da parte delle Istituzioni nazionali (Ministero dell’Istruzione, Presidenza del Consiglio, Presidenza della Repubblica) che avrebbero avuto il compito e la respopnabilità di celebrare un anniversario che, al di là di ogni legittima interpretazione revisionista, ricorda e rappresenta un passaggio storico fondamentale per l’intero Paese.
Come ricorda Della Loggia: “sarebbe bastato poco, sarebbe bastato un segnale: chessò riunire il Consiglio dei Ministri per una volta nella città della laguna”…..

Retorica nazionalista e/o lamento venetista

Eventi e/o cerimonie dedicate al Plebiscito del 1866 non avrebbero dovuto essere necessariamente infarcite di retorica nazionalista o di lamentosi proclami da venetisti, bensì occasioni per un bilancio dei nodi critici, per focalizzare i sogni, le difficoltà e le disillusioni che hanno caratterizzato la partecipazione dei veneti al Risorgimento ed in particolare alla Terza Guerra d’Indipendenza ed al processo di costruzione di una Nazione del tutto nuova.
Sicuramente avrebbe potuto essere ri-focalizzata la questione della rappresentazione degli interessi territoriali e della progettualità nazionale così come immaginati ed elaborati dalla leadersip veneta di un tempo nel quale il pensiero politico esprimeva già ideali e proposte per progettare e realizzare un impianto federalista del Paese e non per subire la deriva burocratico-centralista che si sarebbe affermata, trovando la sua fonte di legittimazione nello statuto massonico albertino dell’incolta e pallida Casa reale sabauda e la successiva “consacrazione” con la tracimazione della sua piena “statizzazione” con l’avvento del fascismo.
Che si dovesse (e si debba) discutere della qualità del Progetto Italia e della classe dirigente che se ne è fatta interprete e protagonista, non è un’esigenza da storici, bensì la questione-chiave al centro dell’agenda politica locale e nazionale contemporanea, se solo prestiamo attenzione alla cronaca che ci parla della tensione polemica per il confronto a distanza in atto tra il Ministro per gli Affari regionali e le Autonomie Enrico Costa ed il Presidente Luca Zaia, a proposito del negoziato che si dovrebbe aprire sulla “maggiore Autonomia”.
Se si escludono i “consulenti” ingaggiati dalla Regione Veneto per supportare con le loro competenze tecniche la trattativa con Roma (che verosimilmente ritengono di partecipare ad una nobile iniziativa), vi sono poche persone dotate di media intelligenza ed a conoscenza dello stato comatoso della struttura regionale (escludendo quelle che come l’on. Simonetta Rubinato – da ex Sindaco ed in perfetta buona fede – hanno una visione otimistica dell’Istituzione) che non vedano nel contrappunto polemico in corso, un gioco delle parti nel quale il rappresentante della Regione evidenzia una scarsa cognizione della reale posta in palio, ovvero delle procedure-strutture-risorse professionali e finanziarie necessarie per attivare un significativo trasferimento di competenze dal Centro romano ai Palazzi veneziani (Ferro-Fini e Balbi).

La grande truffa ai lettori

Non deve sorprendere quindi che, nel vuoto di consapevolezze e memoria storica, nel contesto di mediocrità ed opportunismo diffusi (non solo a livello istituzionale, ma anche associativo e culturale – se si esclude una meritoria pubblicazione della CISL Veneto), sia stata la ri-edizione e diffusione del volumetto di un noto venetista a creare un minimo di attenzione e dibattito pubblico attorno alla fatidica data del 21-22 ottobre 1866.
Ad essere precisi, la ri-edizione di 1866: la grande truffa di Ettore Beggiato sarebbe probabilmente passata inosservata ed avrebbe continuato ad essere solo il prezioso bignami per gli aspiranti indipendentisti e per quella comunità Amish nostrana che si immagina erede in purezza del mitico popolo veneto, se il noto G.A. Stella, nelle vesti di improbabile storico, non lo avesse “scomunicato”, denunciando il misfatto della sua diffusione nelle Biblioteche del Veneto da parte della Regione.
Ad essere sinceri, debbo ammettere che la stroncatura da parte del giornalista del Corriere non solo mi ha incuriosito a riprendere tra le mani la pubblicazione, ma mi ha reso l’autore ed il testo, più simpatici e degni di interesse.
Premesso che il lavoro storiografico contenuto nel libretto va in ogni caso apprezzato, anche per la documentazione raccolta che risulta coerente con la tesi puntigliosamente espressa, si tratta ad aviso dello scrivente di una pubblicazione che merita di essere diffuso non solo nelle biblioteche ma anche in tutte le Scuole venete e consigliato come lettura e materiale per un uso didattico finalizzati ad affrontare criticamente-contestualmente due questioni storiche tuttora imprigionate nella distorcente retorica di zelanti professori con profilo da funzionari più che da educatori e di politicanti-fattucchieri (per usare il perffido appellativo di Cesare De Michelis): da un lato la mitografia risorgimentale e dall’altro la insulsa storiella del popolo veneto sottoposta al dominio savoiardo.
Non mi propongo in questa occasione di sottoporre ad una critica ingenerosa il testo di Beggiato, anche perché si tratta di un sorta di pamphlet con un preciso messaggio politico ed a tal fine sono curvate, quando non deliberatamente ignorate, le evidenze documentali testimoniate da saggi, libri, riviste, che raccontano, in tutta la loro drammatica ricchezza di contrasti, un’altra storia rispetto a quella immaginata e descritta dalla “grande truffa”.
Certo, in molti dei passaggi del testo, è forte la sensazione che la vera truffa sia quella operata nei confronti degli ignari lettori ai quali vengono esposte versioni dei fatti ricostruiti con gli strumenti analitici e valutativi di un interprete che li commenta a 150 anni di distanza, usando un linguaggio e dei pre-giudizi come si trattasse di avvenimenti contemporanei.
Non c’è da parte dell’autore alcuna prudenza ed attenzione alla linguistica diacronica, ovvero alla valutazione dei fatti linguistici considerati secondo il loro divenire nel tempo, secondo una prospettiva dinamica ed evolutiva; succede così che si arriva a parlare del “diritto all’autodeterminazione dei popoli” garantito dagli imperatori (sic!), del fantasma del popolo veneto che si aggira per le Cancellerie d’Europa, di accorati appelli alla democrazia in contesti istituzionali che la negano in radice, ed inoltre si attribuisce ex post a sollevazioni e proteste popolari una una valenza rivendicativa che andrebbe contestualizzata al periodo storico e non pensata secondo i canoni interpretativi attuali.
Sul piano più propriamente documentale e storiografico, le ingenuità, le contraddizioni, le dimenticanze e cancellazioni, le vere e proprie omissioni sullo stesso Plebiscito (sicuramente inaffidabile nei risultati, ma espressione di un dato storico più importante del dato elettorale, ovvero del cambiamento delle fonti di legittimazione del potere che esso implicava) infarciscono un testo che come abbiamo già segnalato, ha prioritariamente lo scopo della denuncia più che dell’esaustività ed obiettività della ricerca storica.
Per chi, comunque, volesse operare una “controlettura” dell’analisi storica – parziale ed unilaterale – operata da Beggiato, suggerisco i cinque saggi l’ultimo numero di Venetica, uscito da qualche sttimana e dedicato a L’ALTRO ANNIVERSARIO 1866 – 2016. Orgogli e pregiudizi venetisti e anti-italiani.
Si tratta di lavori nei quali la metodologia, l’accuratezza e la profondità dello scavo consentono di “entrare” nel tempo indagato e comprendere la complessità degli avvenimenti e la pluralità degli attori che concorrono a renderne trasparenti i conflitti e le mediazioni, le poste e la molteplicità degli interessi in gioco: insomma una documentazione preziosa per coloro che cercano i fatti e non le rievocazioni immaginarie.
Nella presentazione del volume, Public history in salsa veneta, Piero Pasini con sobrietà ed uno sguardo disincantato afferma che “L’unione del Veneto allo stato unitario avvenne senza eroismi, con una cattiva condotta della Terza guerra d’indipendenza da parte dei comandi e fu definita principalmente su un piano diplomatico, ma è tuttora in grado di eccitare gli animi e stimolare una discussione che spesso trascende il piano storiografico per finire su quello politico”.
Aggiungerei che, per ritornare alla “trufffa”, il linguaggio usato dall’autore in alcuni passaggi della ricostruzione di episodi rilevanti, è caratterizzato da una grossolanità rivelatrice di un approccio e stato d’animo alterati, per non dire orientati dal pregiudizio razzistico: come si fa, per esempio sulla ultradecantata battaglia di Lissa, osannare la vittoria austriaca (ottenuta – si sostiene – per l’apporto decisivo degli equipaggi veneziani e chioggioti) sorvolando che – a ben vedere – si è trattò di un episodio nel quale il sangue versato era quello di marinai sardi, napoletani e siciliani (da cui anche la rivolta palermitana del “Sette e mezzo”) e non degli “odiati” italiani (popolo, potremmo dire, ancora in formazione).
Le annotazioni e le descrizioni partigiane (che in numerosi passaggi indugiano nella pesante ironia anti-italiana) non rappresentano, però, solo una caduta di stile, bensì tradiscono e talvolta esplicitano un pensiero ed un sentimento che si condensano in una retorica nazionalista da piccola patria veneta misconosciuta e tradita.
Dove portano il suolo ed il sangue veneti

La concezione ideologica dell’etnos venetista diventa la chiave interpretativa di una storia il cui travisamento e la cui distorsione sono perseguiti per difendere il proprio popolo, presupposto come ancoraggio solido di suolo e sangue veneti, senza se e senza ma!
Ci sarebbe da sorridere se tale approccio potesse essere confinato tra gli svarioni di un dilettante (storico) allo sbaraglio; purtroppo non è così, perché il nostro autore ne è tra i fondatori, appartiene e si identifica con un movimento politico che – seppur con le articolazioni lombardo-venete che ne hanno caratterizzato la trentennale vicenda – ha nella Lega la sua matrice organizzativa fondante.
E la Lega, nel suo Dna, come è stato con perspicacia osserrvato da un brillante storico del Risorgimento “è un movimento nazionalista contro la nazione italiana, perché identifica un soggetto che appartiene a un territorio specifico con il meccanismo del sangue e del suolo” (Alberto Maria Banti, Il Foglio 20 novembre 2010).
Ciò significa che, per quanto paradossale possa sembrare, le strutture elementari del suo discorso collimano con quella che è stata la retorica della costruzione dell’Italia, una nazione che, ancora Banti “per il Risorgimento non è un’astrazionne culturale, ma un legame biopolitico, cementato dal concetto di stirpe”, tanto che non deve sorprendere più di tanto che tale concezione abbia trovato una aberrante declinazione con le Leggi razziali le quali “in fondo, non sono che la gemmazione coerente del fatto che la nazione è sangue e suolo per i fascisti, così come lo era stata per i liberali”.
Insomma, pur mettendo tra parentesi il ventennio nero, dalla Liga veneta delle origini alla Lega di Salvini (che trova un ancoraggio ideologico europeo con la Le Pen), piccola o grande che sia, la patria è sempre cucinata con la stessa salsa ideologica nazionalista.
Non c’è da stupirsi quindi che nella vulgata leghista, si tratti delle parole beffarde del mite Beggiato (citando l’Ammiraglio Teghettoff) “Uomini di ferro su navi di legno hanno sconfitto gli uomini di legno su navi di ferro”, oppure (in riferimento all’iniziativa di Bettino Ricasoli – Primo Ministro del Regno d’Italia -, per l’introduzione del tricolore a Venezia due giorni prima del Plebiscito) “L’arroganza e cialtroneria del governo italiano si dimostra senza limiti” ed ancora (commentando una presa di posizione di Garibaldi critica nei confronti della corruzione dilagante nel nuovo Stato) “devo mio malgrado citare Giuseppe Garibaldi che con l’ingenuità di aver fatto tante battaglie senza sapere perché….”; oppure si debbano registrare le tonitruanti volgarità e rozzezze verbali del leader maximo Salvini nei confronti di zingari ed immigrati, si riscontri l’uso di una semantica che strizza l’occhio ai primordiali istinti razzisti (del “popolo veneto”, “lombardo” od “italiano” secondo le convenienze tattiche).
Succede così che dalle viscere del popolo invocato, si moltiplichino le grida, gli episodi, le iniziative, in cui la mobilitazione è rivolta contro il pericolo dell’invasione e la propaganda politica è focalizzata sull’evocazione di tutti i fantasmi minacciosi nei confronti dei confini…..
Queste rapide annotazioni dovrebbero rendere evidente che nel dibattito su Plebiscito e dintorni, va inanzitutto denunciata e depurata l’idea che siano il sangue ed il suolo da soli a trasmettere i valori fondanti della comunità, sia essa l’improbabile patria veneta o la giovane nazione italiana.
Un correttivo importante può sicuramente derivare dall’animata discussione referendaria sulla Riforma della Costituzione perché, al di là delle faziosità ed esasperazioni polemiche che la stanno caratterizzando, ha creato l’interesse e la convergenza sulle regole ed i valori fondativi della convivenza e della cittadinanza politica…
Il ruolo della classe dirigente…che non c’è!

Ma tornando alla querelle di casa veneta, bisogna interrogarsi sul perché il fatidico 1866 non ha determinato un sussulto di consapevolezza nella classe dirigente locale sulla necessità e sul significato assunti dall’esame critico – oggi – delle ragioni nobili ed anche delle controindicazioni di un rapporto fervido e generativo tra la Polity territoriale ed il Sistema istituzionale Paese.
La risposta breve e semplificatoria è che parlare di classe dirigente in Veneto è come invocare la pioggia in certe giornate torride d’estate.
Allora è più utile domandarsi quali possono essere le cause che hanno provocato la siccità odierna; a tal proposito ci aiuta un’affermazione che a vent’anni di distanza dall’intervista nella quale è apparsa risulta una sorta di appello inascoltato. Leggiamola:
“La sfida lanciata dal fenomeno secessione (ma non solo ovviamente), prima ancora che politica, appare di natura culturale, di criteri di comprensione della realtà che muta. ed è una sfida che richiede la rivisitazione delle progetualità culturali e organizzative degli attori collettivi, nonché delle modalità educative delle agenzie di socializzazione. Se non si vuole lasciare soprattutto le nuove generazioni sole di fronte ai profondi cambiamenti della società” (Intervista a Daniele Marini, IL GAZZETTINO, 30 ottobre 1997).
Alzi la mano chi nel tempo intercorso dall’intervista ritiene di aver dato un contributo determinante per evitare lo scollamento riscontrabile tra cittadini ed istituzioni e di avere intravvisto l’inizio dello smottamento etico-civile (ed economico-finanziario) che si è manifestato clamorosamente negli ultimi anni, in presenza di una classe dirigente quanto meno inadeguata!
Mentre andava in scena il dominio incontrastato de “Il Padrone del Nordest sono io”, con l’assalto alla diligenza delle risorse pubbliche e contemporaneamente un paio di autocrati venerati da un vasto pubblico saccheggiavano i forzieri del risparmio popolare, assistevamo al silenzio di un’opinione pubblica “addomesticata” da sociologi e giornalisti (seguiti a ruota dal ceto politico regionale) impegnati a srotolare pagine di giornali e pubblicazioni con sondagi e documentazione focalizzati su una tesi monocorde (e monotona): il Veneto ha un solo problema da affrontare per il suo futuro, il federalismo! (e questa rappresenta anche la soluzione per contrastare il bau bau secessione).
Abbiamo così assistito al formarsi di una bolla mediatica che ha mascherato un deficit mostruoso di conoscenza storica e dello stato reale delle attese, delle contraddizioni e delle reali strategie di cambiamento necessarie per il Sistema-Veneto nel suo insieme ed in rapporto alle sue peculiarità.
Di tale bolla sono stati protagonisti e vittime – purtroppo – anche i movimenti di opposizione che negli anni ’90 si erano candidati a diventare un’alternativa democratico-progressista di governo ed hanno fallito miseramente la loro scommessa; ed oggi – seguendo il canovaccio della rivisitazione storica qui proposto – diventa necessario rileggerne i programmi con le buone intenzioni, ma anche i velleitarismi presenti, per evitare ulteriori disillusioni.
E ciò al fine di evitare che di quegli anni non restino solo le macerie resocontate ex-post dai due libri intensi e sconvolgenti di Roberto Mazzaro…(I Padroni del Veneto, 2012 – Veneto anno zero, 2015).
Ci troviamo infatti a fare i conti con l’evaporazione di una soggettività politica all’altezza delle sfide (in primis quella di un maturo federalismo e governo delle città mutanti) perché essa – con il declino inarrestabile della funzione-Partito avviato a fine anni ’80 – non si si è potuta alimentare in Centri di riflessione ed orientamento operanti nel territorio regionale (Centri Studi, Agenzie di Formazione dedicata, Fondazioni di ricerca e culturali…); è stata pertanto assoggettata ad una subalterna e periferica interpretazione del “mestiere” e della “linea” affidatale dai Partiti nazionali.
Su di essa poi, sono gravate anche lorientamento e le suggestioni fuorvianti di alcuni opinion leader che hanno vagheggiato una vivacità, un ruolo ed una responsabilità non corrispondente ad un esame realistico dello stato dell’arte:
– pensiamo al generoso ed intelligente “facchino del nordest”, ovvero Giorgio Lago, l’ex brillante giornalista sportivo che, assunta la Direzione (in momenti diversi) dei due più importanti Quotidiani locali, tifo’ per e sostenne con vigore i sindaci dl Nordest nelle loro rivendicazioni nei confronti di Roma contribuendo ad illuderli di essere una grande squadra, senza però (non era d’altronde il suo compito) aiutarli focalizzare i contenuti programmatici di una vera ed autentica stagione di sussidiarietà responsabilizzante (altra cosa dall’invocazione di un federalismo ritenuto una sorta di palingenesi).
– Che dire poi del sondaggiologo dell’autonomia e della vagheggiata “indipendenza” (clamorosa quella ottenuta attraverso il web e “validata” demoscopicamente e giornalisticamente (RAI news: POLITICA 2014/03/22 07:50 Il voto promosso dai venetisti di Plebiscito.eu Referendum indipendenza Veneto: 2 milioni di sì La consultazione online per ottenere l’indipendenza del Veneto dall’Italia ha ottenuto molti consensi, ma non ha valore istituzionale. Il promotore Busato però dal palco di piazza dei Signori ha proclamato “la nascita della Repubblica veneta”). Parliamo ovviamente di Ilvo Diamanti, il sociologo che – per assenza di strumenti di conoscenza sul piano storico ed antropologico-culturale – ha contribuito a creare nell’opinione pubblica veneta (e nazionale) un’interpretazione distorta della (legittima) protesta antifiscale ed antiburocratica dei veneti (ovvero non per la secessione dallo Stato, ma per il suo efficientamento) scambiandola come richiesta di un federalismo avanzato, assunta (e non lo poteva essere) come introiezione di una consapevolezza già acquisita dei termini nuovi del rapporto tra Terrritorio ed il Governo centrale. Oltetutto, le analisi e le ricerche succedutesi nel corso degli ultimi lustri hanno operato un grave misconoscimento della reale portata di alcune proteste, ovvero dei latenti umori razzisti e sentimenti etnocentrici che erano incubati dal linguaggio e dalle pratiche amministrative della politica leghista affermatasi progressivamente in Veneto nell’ultimo ventennio e di cui abbiano indicato più sopra la matrice
– Nella galleria dei maitre a penser di casa nostra non può mancare la presenza fissa (attraverso i talk show del “filosofo incazzato” Massimo Cacciari, la cui generosa ed autentica passione civile (che lo ha portato a sfidare Galan per la Presidenza del Veneto nel 2010) non deve oscurare anche le opacità e contradditorietà di un’esperienza amministrativa realizzata ripetutamente da Sindaco in un contesto territoriale come quello veneziano che ha costituito un’autentica palude di inefficienze, corporativismi ed arretratezze di quella che potremmo chiamare la “capitale infetta” del Veneto:
a) con la vicenda eclatante del MOSE che una velleitaria posizione contraria dello stesso Cacciari si è trasformata in un alibi per non esercitare una rigorosa posizione di controllo sulla funzione e le attività del CONSORZIO VENEZIA NUOVA incaricato della sua costruzione e diventato l’epicentro di una mostruosa rete di corruzione e di sprechi;
b) con la catena di mazzette ruotante attorno al “tesoriere rosso” del PD veneziano Giampietro Marchese (coadiuvato da “ignari” postini tuttora in esercizio politico), che è arrivata a colpire il Sindaco Orsoni con l’arresto (ovviamente anche lui all’oscuro dei traffici illeciti usati per sostenere la sua campagna elettorale);
c) per finire con il collasso finanziario di Comune & Partecipate (si è calcolato in circa 1 miliardo l’ammontare complessivo del deficit).

Cultura e identità del Veneto

Ebbene, all’interno di questo quadro succintamente tratteggiato che induce allo sconforto, parallelamente alla polemica sul Plebiscito, ha fatto capolino la discussione sulla cultura e sull’identità del Veneto; si tratta di verificare se esistano e come esse possano diventare risorse preziose su cui far leva per rimettere in moto il processo di formazione e rigenerazione di una classe dirigente in grado di fronteggiare e governare le sfide di una contemporaneità gravida di radicali mutamenti in corso.
Naturalmente nell’indagare quali sono gli elementi costitutivi del patrimonio storico-culturale è opportuno tener presente il suggerimento metodologico del prof. Umberto Curi (L’identità non è reclinata verso il passato – Corriere del Veneto, 29 ottobre 2016), preoccupato che il ragionamento su cultura e identità non porti alla scoperta della funzione cruciale del “Palio dei mussi”….
Senza ri-aprire il varco alla polemica, ricorrente in Veneto, su “cultura alta, cultura popolare, cultura di massa” (rinviando per questo al manuale di Loredana Sciolla – Sociologia dei processi culturali), ci limitiamo a richiamare una frase di due grandi filosofi della Scuola di Francoforte, M. Horkheimer e Th. W. Adorno, che raffigura la capacità “Non di conservare il passato, ma di realizzarne le sue speranze” (Dialettica dell’illuminismo).
Si tratta di un “lavoro” obbligato perchè i limiti strutturali che caratterizzano i Gruppi dirigenti del Veneto (documentati dalla recentissima indagine condotta da Gianni Ricamboni e Selena Grimaldi, di cui parla Francesco Jori su Il Mattino di Padova del 6 novembre 2016, IL CONSIGLIO REGIONALE. “Ceto dirigente a corto di leader e di donne” ) pur essendo esplosi e stati evidenziati dalle clamorose vicende giudiziarie e non di MOSE e Banche Popolari, “non sono riusciti (finora, ndr) a innescare una riflessione critica sulle procedure di selezione e di (una loro)valutazione. Assuefatta all’idea che il Nordest sia sempre migliore di quanto raccontato dai media (ancora la “bolla” ndr) l’opinione pubblica non ha saputo reclamare spiegazioni all’altezza della gravità di fatti. Poca analisi, poca elaborazione” (NORDEST 2016, Stefano Micelli, Un anno di svolta).
Ritengo che esso costituisca non tanto un tema di riflessione accademica riservata a storici ed intellettuali, bensì un “dossier” centrale dell’agenda politica regionale.
Certo è anche l’occasione per scuotere la polvere che giace sui libri e documenti di un’enorme biblioteca dimenticata che rappresenta un patrimonio di valori e conoscenze custoditi in analisi, saggi & trattati scientifici, letteratura & poesia, accumulatosi dal Risorgimento fino agli anni ’60.
L’affermarsi – negli anni ’80 – di un ceto politico egemone e “smemorato”, orientato strategicamente ad accompagnare la crescita economica senza interrogarsi criticamente sulle sue basi e su limiti e contraddizioni di uno sviluppo sregolato, ha indotto a ritenere la storia (recente e/o passata) materia inerte da riservare all’attività didattica e non – come sarebbe stato più logico – fondamentale risorsa cognitiva per arricchire la preparazione e la riflessività della leadership impegnata nella focalizzazione delle scelte riguardanti il futuro e la progettualità più innovativa ed efficace per affrontarlo.
Recuperare la memoria storica e rifletterci sopra, ci avrebbe consentito, per dirla in modo provocatorio, di “salire sulle spalle di molti nostri Padri veneti giganti” e non affidarci ai nanetti e cortigiani del Potere locale che nell’ultimo trentennio ci hanno assillato (ed annoiato) con letture e lezioni che descrivevano la fenomenologia di una società ed economia in ebollizione senza scandagliare la profondità delle cause strutturali e dei valori fondanti che determinavano il sommovimento della terra veneta e le possibili fratture di faglia.
Naturalmente è successo che a fronte di analisi superficiali è cresciuta e si è insediata una generazione di leader superficiali, ovvero un ceto maggioritario di esercitanti la funzione di classe dirigente tardo-dorotea, impegnata ad aggiudicarsi i residui di potere e di spesa pubblica che la progressiva crisi economica e di fiducia dei cittadini nei confronti delle Istituzioni affidava alla periferia.

Ripensamento e rigenerazionenievo-italiano

Cosicchè ora risulta più evidente ed urgente avviare un ripensamento complessivo, sia per rigenerare una nuova classe dirigente sia, contestualmente, ripensare un orizzonte valoriale e programmatico incardinati su alcuni ancoraggi storico-culturali più robusti.
Ho già avuto modo di illustrare un punto di vista ed alcune indicazioni programmatiche sul #Venetochevogliamo e pertanto rinvio ai link per l’articolo e la scheda elaborati in occasione delle elzioni regionali del 2015:

Una nuova narrazione per il #Venetochevogliamo


http://www.slideshare.net/dinobertocco1/ilvenetochevogliamob

In questo documento presento degli “esercizi di rilettura” che hanno per oggetto alcune questioni dirimenti per la riqualificazione della Governance del Veneto; vanno considerati come appunti guida per una riflessione che esamina il passato non per farsene soggiogare, bensì per trarne elementi utili alla ri-progettazione del futuro.

1. Riprogettando il Regionalismo Federalista che non sia estraneo od autoreferenziale rispetto alla ristrutturazione dello Stato centralistico, per la quale bisogna investire le migliori energie trovando ispirazione nel pensiero e nelle opere di Daniele Manin, Pietro Paleocapa, Silvio Trentin, perché la scommessa vera non è il piatto di lenticchie di una maggiore Autonomia che lascia intatto un impianto burocratico-amministrativo parassitario ed inefficiente, portatore di corruzione e sprechi alimentati da processi legislativi e procedurali lenti e farrraginosi. Un nuovo respiro a tale impostazione può derivare dalla sostituzione della subcultura leghista-protestaria rivendicativa e sterile, con un’autentica cultura della sussidiarietà che si deve tradurre in programmi dettagliati e praticabili concertazioni con sistematicità con le Autorità di Governo ed a tal fine bisogna istituire tre nuovi Assessorati:

a) Il primo dedicato all’Italia che vogliamo, ovvero alla elaborazione e promozione di tutte le iniziative che debbono incidere sulla struttura statuale (Ministeri, Enti Pubblici, Spesa pubblica, Agenzie, Legislazione) al fine di reingegnerizzarne la funzionalità nel senso dell’efficienza, flessibilità, accessibilità ai cittadini. Naturalmente tale attività si dovrà collegare alle funzioni di rappresentanza nell’ambito del nuovo Senato.

b) Il secondo finalizzato alla rafforzare una Governance regionale, attraverso una Legge elettorale che incentivi e valorizzi una sintesi politica e un policy making coerenti con una visione non localistica delle questioni riguardanti l’intero territorio veneto, attualmente caratterizzato da una frammentazione della rappresentanza per collegi provinciali che hanno favorito scelte programmatorie clientelarie e contraddditorie (in primis nella Sanità). E’ giusto sottolineare che la recentissima Legge regionale 19/2016 per istituire l’Azienda Zero e ridurre le Usl da 21 a 9, «pietra angolare di tutta la legislatura » secondo la definizione del Presidente Zaia, costituisce un passo in avanti nella direzione qui auspicata.

c) Il terzo impegnato a realizzare un nuovo processo di partecipazione dei cittadini attraverso la definizione di precise metodologie di coinvolgimento e l’adozione delle procedure per una piena cittaddinanza digitale orientata sia alla consultazione che all’accessibilità ai dati ed ai servizi

2. Ripensando il Federalismo antropologico che ha costituito l’autentico motore per un Veneto che penalizzato dalla scelta centralistica operata dal Regno Sabaudo ha dovuto attraversare un lungo “deserto” caratterizzato dalla miseria e dall’emigrazione, affrontare le immani tragedie di due guerre mondiali e del fascismo, ma ha saputo credere ed investire sull’autosviluppo. Tale opzione non è stata casuale bensì è maturata con la consapevolezza di una borghesia industriale in grado di usufruire delle barriere doganali all’entrata e con l’attivazione (anche con l’impegno diretto della Chiesa locale) della gestione cooperativa del credito a sostegno delle piccole Imprese. Quando è arrivato il secondo dopoguerra, i germogli di attività ed i Distretti inndustriali già presenti nel territorio (nel nuovo contesto di un mercato nazionale ed europeo più dinamici) sono diventati una piattaforma in gtado di generare e consolidare un sistema sociale ed economico non solo con standard di sviluppo tra i più elevati in Europa, ma anche ad “incorporare” caratteristiche di flessibilità e potenzialità di performance notevoli. Ebbene, tutto ciò è stato reso possibili per la presenza e l’incidenza dei principi ispiratori del Capitalismo personale, vero baricentro di tutti gli step della crescita, da fine 800 ai giorni nostri. Il Veneto ha potuto giovarsi della presenza in alcune aree territoriali e ceti sociali di un Dna generatore di un’imprenditorialità tenace e creativa che oggi è sollecitata a nuove sfide attraverso l’immersione nelle e la gestione delle opportunità derivanti dalla una rivoluzione digitale. Essa può consentire al peculiare sistema veneto di realizzare la quarta accelerazione economica della sua storia, attraverso l’innovazione tecnologica e la diffusione dei modelli di Rete d’Impresa e dei processi gestionali di filiera condivisi. E tale nuovo salto di qualità potrà e dovrà essere sostenuto ed alimentato da una innovativa strategia formativa strutturata con una partnership più intensa e collaborativa tra mondo delle Imprese e Scuola-Università, ottimizzando e moltiplicando l’esperienza che potrà essere realizzata con il Competence Center recentemente definito nell’ambito del Progetto Manifattura 4.0. Ma anche in questo nuovo passaggio epocale il focus dovrà rimanere centrato sull’esigenza di implementare la vitalità imprenditoriale, ovvero la cultura del rischio, dell’iniziativa e della responsabilità personale il cui tasso di incremento da qualche tempo segnala cedimenti (e questo è il vero timore che deve coltivare chi aspira e si candida a governare la nostra Regione)

3. Avviando la Reingegnerizzazione del sistema amministrativo locale: la subcultura politica dominante nell’ultimo ventennio (con la Governance regionale a trazione forza-leghista e lega-forzista) si è dimostrata del tutto inadeguata ad affrontare la sfida della modernizzazione di un Municipalismo, virtuoso nella gestione di budget progressivamente ridimensionati dai ridotti trasferimenti romani, ma del tutto impotente ad interpretare la domanda di aggregazione, semplificazione, efficientamento dei Servizi ai cittadini che necessita prioritariamente di una nuova cultura politica in grado di: a) far emergere leader preparati a gestire la complessità; b) accettare la sfida dell’adozione di criteri di gestioni manageriali con i quali affrontare anche il controllo dei processi di liberalizzazione di alcuni servizi ed in particolare la razionalizzazione delle Utilities e dell Partecipate. Ma, senza la spinta ideale ed etico-civile di una leva di amministratori che sappia sfidarsi e sfidare le comunità locali a ripensare la dimensione Istituzionale che sovrintenda il governo decentrato del territorio, è impensabile di uscire dall’entropia, il disordine e la frustrazione dominanti nella magior parte dei piccoli Comuni del Veneto rattrapiti e prigionieri della retorica leghista interessata ad alimentare la protesta piagnona e non risvegliare le energie sommerse che una nuova stagione di cittadinanza attiva e di sussidiarietà ispirata alle esperienze di tempi molto più difficili di quello presente, posso attivare. Anche in questo caso, attingere alle testimonianze e documentazioni di pratiche virtuose nella microstoria locale diventa una risorsa in più, da coniuigare naturalmente con la creatività e le scelte innovative che possono essere operate da una nuova generazione di Amministratori.

4. Ridisegnando la mappa della infrastrutturazione e focalizzando i nodi cruciali che stanno rallentando/impedendo la traduzione dei bisogni in scelte operative; non è questa l’occasione per sviluppare un ragionamento complessivo, ma ritengo utili alcune annotazioni. A) E’ di fondamentale importanza un bilancio etico-politico-finanziario-strategico dell’impatto che ha avuto il Project Financing in Veneto ed affidare ad un Think tank di specialisti-ingegneri-rappresentanti politici il compito di documentare e valutare le pratiche e le opportunità presenti nell’ambito europeo per poter riprendere un uso oculato della finanza di progetto, in ogni caso da adottare in situazioni specifiche e con procedure di trasparenza e coinvolgimento degli stakeholder e delle comunità interessate; B) le priorità degli investimenti e delle Opere pubbliche debbono essere raccordate alla Pianificazione strategica adottata dalla Regione e non rispondere agli input lobbistici di settori economici e territori direttamente interessati; C) tutto deve essere contestualizzato al processo di internazionalizzazione dell’economia veneta, con particolare riferimento sia alle traietttorie dell’export che ai flussi turistici in entrata; D) la leadership politica regionale deve dotarsi di unna visione coplessiva ed integrata delle domande e delle esigenze esprese dai territori; ciò rappresenta un passaggio fondamentale se si vuole far assumere alla Regione un ruolo trainante e dirimente nello scacchiere nazionnale ed europeo di scelte strategiche di enorme rilievo non solo finanziario: dal Quadrante veronese all’Interporto di Padova, dal Porto Offshore di Venezia al Traforo del Brennero, dalla riqualificazione della Valsugana alla Pedemontana ed alcompletamento della Valdastico. Anche per questo capitolo essenziale per un Regionalismo maturo, esperienza e documentazione storica (con casi di successo, errori clamorosi, incompiute e scandali) e visione aggiornata delle scelte necessarie, costituiscono un mix di conoscenza-competenza indispensabili alla leadership politica.

5. Ristrutturazione del Sistema Credito: la dolorosa attraversata della crisi in corso non dovrà provocare solo “lacrime e sangue” per i risparmiatori e lavoratori dipendenti, bensì diventare un’occasione decisiva per salvaguardare un asset che ha rappresentato la leva decisiva per l’uscita del Veneto dal sottosviluppo nel corso degli ultimi 150 anni della sua storia. Soprattutto in questo ambito la presenza di autentici giganti del passato come Leone Wollemborg e Luigi Luzzati, di brillanti esponenti del mondo bancario venuti a mancare nell’ultimo decennio (Silvano Pontello, Angelo Ferro, Gianni Marchiorello) e di una esteso ancor vitale reticolo di Istituti di Credito, ci consegnano una realtà che, seppur stuprata in almeno un paio di nodi fondamentali da gestioni autocratiche avallate da ampie consorterie e clientele sottrattesi ai vincoli etici e prudenziali di buona gestione, rappresenta tuttora un patrimonio indispensabile per supportare la quarta rivoluzione industriale e le scelte strategiche di sviluppo territoriale. Ecco perché anche in questo caso una Regione che voglia uscire dalla stagione infausta in cui ha fatto sostanziamente da “palo” e megafono delle istanze localistiche che hanno dimostrato la loro inconsistenza truffaldina, deve ripensare criticamente la dislocazione, il dimensionamento, la mission e le alleanze che devono caratterizzare il processo di riorganizzazione e risanamento avviato. Anche tenendo in buon conto gli esempi positivi, pragmatici ed efficaci, a cui hanno recentemente dato vita le due Banche Popolari lombardo-venete (guarda caso) di Verona e Milano….

6. Veneticità come brand: in uno splendido volumetto dei Giovani Imprenditori di UNINDUSTRIA Treviso (VENETO AL CENTRO. Identità e valori come brand territoriale) si opera una ripulitura semantica del linguaggio venestista recuperando una concezione sobria e funzionale della rappresentazione di una Regione con un’indubbia storia millenaria, ma con la necessità di essere riconosciuta ed interpretata come un territorio virtuoso oggi, nella contemporaneità di un mondo sempre più attraversato dalle dinamiche della globalizzazione. E partendo da una definizione di A. Gambino “Parlando di identità, ci si riferisce a quel dato conscio (anche se non necessariamente elaborato in modo consapevole in tutti i suoi aspetti), intorno al quale ogni soggetto organizzala propria intera esistenza” (Inventario italiano, 1998), elabora la proposta di assumere la veneticità, attribuendele il compito di dare identità valoriale al capitalismo personale, sottolineando che i suoi caratteri distintivi non sono il portato di una storia millenaria, di una terra, (che, aggiungiamo noi, va indagato con gli strumenti analitici dell’antropologia culturale e non con l’approccio fumettistico della storia fantasy tanto cara ai “nativi” venetisti) ma si impersonano proprio nelle identità comportamentali (lavoro, spirito imprenditoriale e sacrificio) e nella mentalità del capitalismo personale (la voglia di fare). C’è insomma un problema di comunicazione della realtà socio-culturale di una comunità territoriale con i tratti distintivi di un’umanità operosa, solidale, impegnata nell’innnovazione ed aperta all’inclusione, che, pur con non poche contraddizioni e limiti (compresi quelli derivanti dalle “strozzature” di un processo di unificazionne nazionale centralistico, ha saputo dimostrare di costituire una realtà forte, persistente e resiliente. Ed a tal proposito si può citare Enzo Rullani quando sostiene che ”L’esperienza dello sviluppo passato, che è avvenuto nonostante la presenza di questi limiti (…), li ha fatti diventare parte del paesaggio antropologico locale” (Dopo la grande crescita, 2000)
Naturalmente l’adozione della veneticità corrisponde ad una intelligente ed aggiornata strategia di marketing territoriale e vuole rappresentare un ulteriore segno di vitalità imprenditoriale che non si fa imprigionare dalle vetuste anticaglie interpretative del venetismo, ma anche – aggiungo io – del veteromarxismo in salsa veneta che nel corso del trentennio di fine secolo scorso si è ostinatamente impegnato nella caricatura di un modello veneto reiteratamente pensato come prossimo al crollo per limiti intrinseci.

7. Oltre la Carta di Asiago. In riferimento al “discorso” che sin qui abbiamo condotto, è utile e giusto ricordare che “qualcosa di buono” si può rintracciare nelle legislazioni recenti della Regione Veneto e l’esempio dei colloqui con i “Saggi” che sono confluiti nella Carta di Asiago, finalizzati a promuovere una riflessione a voce alta sulla nuova stagione della pianificazione urbanistica e territoriale hanno offerto nel 2006 un esempio – parziale e settoriale – di come la elaborazione di scelte legislative innovative ed impegnative per le questioni rilevanti che esse affrontano possa essere preceduta e coadiuvata dal contributo del pensiero alto di Intellettuali, Ricercatori, Storici e Professionisti con le sensibilità culturali e le competenze scientifiche in grado di fornire ai poliicy maker un quadro conoscitivo più vasto e profondo di quello posseduto dalle forze politiche che hanno – in ultima istanza – il potere e la responsabilità di scegliere e decidere. Per arrivare, però, a determinare un tale clima collaborativo tra Leadership politico-istituzionale ed Operatori culturali, le procedure della consultazione e/o della tradizionale consulenza-affidamento di incarichi, non sono (più) sufficienti. E’ fondamentale che crescano in Veneto la tensione etico-civile e la elaborazione culturale e scientifica generata da autentiche passioni per il bene comune, inteso non nella versione intimista e premoderna della decrescita, bensì nella visione e percezione dei nuovi paradigmi che caratterizzano il cambiamento in corso, così ben descritti da Ennio De Giorgi:
“Io penso che all’origine della creatività in tutti i campi ci sia quella che io chiamo la capacità o la disponibilità a sognare, a immaginare mondi diversi, cose diverse, a cercare di combinarle nella propria immaginazione in vario modo. A questa capacità, forse alla fine molto simile in tutte le discipline (matematica, filosofia, teologia, arte, pittura, scultura, fisica, biologia …) si unisce poi la capacità di comunicare i propri sogni, e una comunicazione non ambigua richiede anche la conoscenza del linguaggio, delle regole interne proprie alle diverse arti, delle diverse forme del sapere umano” (Michele Emmer, De Giorgi, La mente che battè Nash, LA LETTURA 11 settembre 2016)
Tale tensione e tale elaborazione culturale hanno bisogno di sedi, luoghi e strutture che le ospitino e se ne occupino. Ovviamente ci sono le Università, le Fondazioni, ma una funzione che va potenziataè sicuramente quella editoriale che ha principalmente il compito – nella dimensione territoriale regionale e triveneta – di realizzare il recupero del pensiero e delle opere di Autori, Leader politici, personalità che hanno incrociato nelle loro attività letterarie, politiche, scientifiche, gli umori, le risorse, gli interrogativi sul futuro, suggeriti dalla terra veneta e dalla umanità che in essa dimora, crea, produce, gioisce, soffre, si lamenta, manifesta ostilità (nei confronti dei foresti), ma è sempre pronta ad intercettare le traiettorie dello sviluppo che le consentano di fuoriuscire dal rischio entropia e proporsi come modello di crescita sociale ed economica

E siccome ho invocato l’esigenza del rilancio di una qualificata attività editoriale, passo la parola, per una considerazione conclusiva al veneziano-veneto con la sensibilità più raffinata per indicare il percorso da intraprendere e la connessione da fare tra patrimonio cultural-identitario del passato e soggettività intelligente-intraprendente contemporanea:

“Qui sta, a parer mio, il punto di partenza, nell’immaginare senza complessi di inferiorità e al tempo stesso senza egoismi o malizia un Veneto ricco di irrinunciabili individualità e al tempo stesso capace di riconoscere che non c’è altro spazio, altra dimensione geoplitica nella quale esistere che quella nazionale ed europea, com’è sempre stato”

Fermiamo l’assalto squadrista ai Parlamentari

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staino-costi-politicaIl livello di insulsaggine, acrimonia, sguaiatezza, superficialità, manipolazione dei dati che sta raggiungendo la bagarre inscenata da M5s sul trattamento economico dei Parlamentari, ha assunto oramai le caratteristiche di un’aggressione squadrista non alla “casta” ma all’istituto democratico della Rappresentanza parlamentare.
Sguinzagliati e sollecitati all’attacco dal milionario psicopatico (dall’alto della tribunetta della Camera dei Deputati) i grillini si esercitano nella guerrilla marketing preordinata dalla Casaleggio Associati allo scopo di oscurare con l’iniziativa propagandistica – di fronte agli elettori – il loro NO alla Riforma Costituzionale il cui obiettivo è un taglio strutturale ai costi della politica attraverso l’efficientamento del processo legislativo, che si relizza con il superamento dell’insulso bicameralismo attuale, non sgonfiando le gomme ai Parlamentari che debbono essere rappresentativi, preparati, efficienti, produttivi ed adeguatamente remunerati per una funzione da rispettare, non da sputtanare!
Osserva giustamente sul Foglio oggi il Direttore Cerasa:
“Lo status del politico oggi è questo: non deve guadagnare nulla, non deve avere privilegi, deve essere intercettabile in qualsiasi occasione, può essere spiato in qualsiasi contesto, deve essere sputtanato per qualsiasi ragione, non deve avere un auto sulla quale viaggiare, non deve aver fatto nulla nel passato per non essere sputtana
bile. Deve essere una specie di passante, una persona senza esperienze, un improvvisatore della politica. L’antipolitica porta a questo. E non c’è da stupirsi poi se anche i frigoriferi nel loro piccolo si incazzano”

L’ANALISI
Il rischio di inseguire i populisti sul loro terreno
Il Sole 24 Ore 26 Ottobre 2016
Parliamo di populisti e populismi, oggi, a proposito dell’eterno dibattito sul trattamento e sulla condizione dei parlamentari, e in occasione della proposta di dimezzarne le indennità. Proposta di impronta populista, come tutte quelle che, in tema di amministrazione, non collegano funzioni, responsabilità e trattamento economico. Il parlamento italiano, le nostre istituzioni, hanno più bisogno di ritrovare efficienza e qualità, nell’interesse pubblico, o di pesare un po’ meno sulla finanza nazionale? Servono parlamentari più competenti, più radicati nel tessuto della società, o deputati e senatori con una capacità di spesa e tenore di vita ridotti? Si può rispondere che entrambi sono obiettivi meritevoli di perseguimento: ma in quel caso, il punto da cui muovere non sono le indennità, quanto la ricerca della qualità del lavoro delle camere e il peso delle stesse nell’organizzazione e nell’interesse del paese. E il ruolo della figura rappresentativa della sovranità popolare all’interno della società. Il resto seguirà, doverosamente e coerentemente. La proposta oggi all’esame delle camere trascura invece deliberatamente il profilo della qualità complessiva della funzione parlamentare, per aggredire con esibito intento esemplare e punitivo la condizione economica dei singoli parlamentari, percepita come la rimozione di un’ingiustizia sociale.
Un’avvertenza di carattere generale: meglio non scherzare con i populisti ed i loro movimenti, anche se spesso appaiono innocui, a volte quasi dei buontemponi istituzionali.. Qualcuno, nella storia delle democrazie, lo ha fatto, malauguratamente, e non sono mancati casi nei quali quelle democrazie sono diventate monocrazie, talvolta con risultati tragici. Non è un caso che quei movimenti siano sempre a guida unica, incontestabile e incontrastabile dall’interno.
Come si riconosce una politica demagogica e populista? In estrema sintesi: una ricetta populista trascura le aspirazioni dei cittadini, preferendo concentrarsi piuttosto sulle frustrazioni che pervadono la società, e sui modi più primordiali e spicci per darvi apparente ristoro e momentaneo sollievo. Un effetto placebo, al massimo, per di più socialmente diseducativo. La situazione dell’elettore non cambia in nulla, se non attraverso la penalizzazione di un altro soggetto. La ricetta populista non si pone l’obiettivo di rimuovere la causa del disagio.
Le frustrazioni di cui sopra, sono quelle degli elettori incattiviti da una interminabile, rabbiosa crisi economico sociale, e vengono usate sadicamente contro la proiezione politica degli stessi: deputati, senatori, ministri, rappresentanti politici, e giù per i rami dell’apparato pubblico, fino a toccare alti burocrati e grand commis. Ecco il paradosso: in nome del popolo contro le rappresentanze del popolo.
Della forma della democrazia, nel verbo populista, permane il momento salvifico delle elezioni, del quale neanche le dittature si sono mai private.
Come vengono combattute, nel concreto, le pulsioni populiste attive nel nostro paese, e quella subdolamente antiparlamentare oggetto di questa analisi? Come osserva acutamente Alessandro Campi in un suo editoriale sul tema, il rischio è quello di farlo muovendosi sullo stesso terreno, privilegiando la ricerca del consenso rispetto alla qualità e all’efficienza della funzione. Il “senato gratis”, formula di stampo davvero populista, inizialmente praticata per inoltrarsi in una riforma poi irrobustita e oggi sottoposta al voto popolare, ha fatto temere un confronto giocato sul medesimo terreno; e poco distante è l’estemporanea idea di legare il trattamento economico parlamentare al dato quantitativo, largamente e pigramente passivo e improduttivo, della presenza in aula.
La chiave del contrasto si può trovare solo in una diversa concezione del ruolo del parlamento, rispetto a quella di “ente quasi inutile” che costituisce la piattaforma di quasi tutte le ricette dei movimenti populistici (e che nasconde, spesso, nella sublimazione del pensiero del perfetto populista, l’inutilità tout court delle camere legislative): una concezione che metta al centro la funzione del parlamento come motore della direzione di marcia di un paese. Il primo obiettivo riguarda il metodo di selezione del personale parlamentare, direttamente collegato ai meccanismi elettorali, al fine di riattivare una virtuosa relazione costituzionale tra il cittadino ed i suoi rappresentanti: unico antidoto sicuro agli istinti demagogici. Il prezzo è alto per la pigrizia di una politica ormai usa a sostituire quella relazione costituzionale con altra che si instauri tra eletto e partito, ormai quasi sempre capopartito: ma è immediatamente salutare, addirittura sintomatico. Lo sa chi ha verificato la depressione della funzione, singola e collettiva, delle camere seguita alle misure di nomina diretta di deputati e senatori: depressione vistosa, e non estranea alla diffusione epidemica delle pratiche immorali di mobilità parlamentare che infestano il nostro sistema.
Altro antidoto, esso stesso tradizionalmente inviso alla politica dei partiti, richiede una attuazione seria dell’articolo 49 della costituzione, che pretenda quanto meno l’introduzione di meccanismi di “contendibilità” della guida dei singoli partiti, e recida l’infestante sovrapposizione tra partiti stessi e istituzione. Verificata, su larga scala, nel mantenimento della presa dei partiti sui sindaci oltre e contro lettera e spirito della legge sull’elezione diretta dei sindaci; ma assai più pericolosa se trasferita a livello di perdurante controllo partitico sul capo di un futuro governo e sui singoli ministri.
E tanto d’altro, che si può riassumere sotto il nome – per la verità un po’ demagogico -, di buona politica.
Montesquieu

Torna il rischio politico in Europa

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rischio-politico-ueRICERCA COFACE. ELABORATO UN INDICE AD HOC COME PER GLI EMERGENTI: DAL 2007 L’INCREMENTO È STATO DI 13 PUNTI
Gianluca Di Donfrancesco 26 Ottobre 2016 Il Sole 24 Ore
I fattori di instabilità si moltiplicano e incidono sempre di più sulla crescita
Un fantasma torna ad aggirarsi nel cuore dell’Europa, evocato dalle sfide poste dalla lunga stagnazione economica e dalle migrazioni e alimentato dalle mancate risposte dei Governi, che hanno restituito spazio a rigurgiti nazionalistici e populismo: è lo spettro del rischio politico, che agita mercati e investitori come non accadeva da decenni nel Vecchio continente e minaccia di compromettere le chances di ripresa economica nel 2017.
L’indice di rischio politico
Coface, il colosso francese dell’assicurazione dei crediti delle imprese, ha provato a misurarne l’evoluzione e l’impatto sulla crescita economica in una recente ricerca, nella quale ha creato un indice del rischio politico per i Paesi dell’Europa occidentale, misurato in una scala compresa tra zero e cento, sviluppato adattando l’indice già realizzato per i mercati emergenti dopo le primavere arabe e costruito sulla base di otto variabili: crescita del Pil, distribuzione del reddito (coefficiente di Gini), tasso di disoccupazione, rapporto deficit-Pil, corruzione, euroscetticismo, ostilità contro l’immigrazione e frammentazione politica. Il risultato è che in Europa il rischio politico è aumentato in media di 13 punti, rispetto al 2007. Per decenni associato ai Paesi emergenti, si legge nella ricerca, il rischio politico «ora influenza i Paesi occidentali e in particolare l’Europa occidentale».
A spingere Coface a mettere a punto questo indicatore è stata proprio l’accelerazione del rischio politico alla quale si è assistito in Europa negli ultimi 12 mesi, che hanno visto avvenimenti destabilizzanti come il referendum sulla Brexit e il caos politico in Spagna, con due elezioni parlamentari in sei mesi (dicembre del 2015 e giugno del 2016) e il carico di incertezze che accompagna il neo-nato Governo Rajoy. E i prossimi 12 mesi sono densi di appuntamenti cruciali che potrebbero trasformarsi in altrettanti shock: dal referendum costituzionale in Italia, alle elezioni in Austria, il 4 dicembre; dalla possibilità di nuove elezioni in Spagna, poco o nulla scongiurate dal nuovo Esecutivo, alle elezioni in Olanda il 15 marzo. Poi sarà la volta della Francia, chiamata tra maggio e giugno a scegliere un nuovo presidente e a eleggere l’Assemblea nazionale. Chiuderanno il ciclo le elezioni in Germania, in autunno. Tutto con la spada di Damocle delle presidenziali statunitensi dell’8 novembre, che potrebbero avere ripercussioni maggiori sull’Europa che sugli Usa, nel caso di una vittoria del candidato repubblicano Donald Trump.
Tutti questi appuntamenti arrivano quando in Europa, il rischio politico è già ai massimi dal 2007. Il punteggio più elevato va alla Grecia (64%), seguita dall’Italia con il 60%, che già erano in testa a questa classifica nel 2007. Nei due Paesi, tutte le otto componenti dell’indice sono peggiorate. Hanno pesato in particolare la crisi dell’immigrazione, l’austerity finanziaria e l’euroscetticismo. La Francia ha un punteggio pari al 38% (in aumento di 17 punti dal 2007), mentre la Germania è al 35%. In quest’ultimo Paese in particolare, l’indicatore ha avuto una forte ripresa dopo essere sceso ai minimi nel 2010. Sia in Francia che in Germania, l’evoluzione dell’indice, spiega Coface, riflette il deterioramento del contesto socio-economico. Le diffuse preoccupazioni per la questione dell’immigrazione e l’aumento della sfiducia nell’Unione europea spiegano, in parte, questa tendenza. E non sorprende, sottolinea Coface, che le stesse due variabili siano alla base dell’aumento del livello di rischio registrato in altri Paesi europei, come la Finlandia, l’Olanda e l’Austria.
Il caso Londra
All’impatto della Brexit sul Regno Unito, Coface ha dedicato un capitolo in un report differente. Quest’anno la crescita britannica dovrebbe raggiungere l’1,9%, per fermarsi allo 0,9% nel 2017. Fattori di rischio legati allo stato di salute delle banche e al settore immobiliare, caratterizzato da un forte indebitamento delle famiglie e una sopravvalutazione dei prezzi, potrebbero essere esacerbati dal negoziato con Bruxelles per l’uscita dall’Unione. Le incertezze legate alle modalità del “divorzio” alimentano la volatilità e il deprezzamento della sterlina. Tale mancanza di visibilità a breve termine, pesa sulla fiducia degli operatori economici britannici ed europei.
Il costo di una nuova Brexit
L’aumento dell’incertezza politica si ripercuote sull’economia attraverso diversi canali, che Coface individua nel ritardo delle decisioni di investimento da parte delle imprese, nel calo della fiducia delle famiglie, nelle fluttuazioni sui titoli azionari e obbligazionari.
Un nuovo shock politico interno, di entità paragonabile a quello generato nel Regno Unito dal referendum sulla Brexit, sostiene la ricerca, avrebbe quindi un impatto molto significativo in Spagna, che si troverebbe a lasciare sul terreno 1,2 punti di Pil nell’arco di un anno. Una crisi politica di pari entità in Francia, costerebbe all’economia nazionale lo 0,7%. Nel Regno Unito, una nuova Brexit costerebbe lo 0,5% in un anno. In Germania il dazio da pagare sarebbe compreso tra lo 0,4 e lo 0,5%. Il Paese che mostra maggior capacità di tenuta a una crisi politica è l’Italia, che lascerebbe sul terreno solo lo 0,2% di crescita se, per esempio, il referendum del 4 dicembre dovesse innescare una forte incertezza. Per Coface, la tenuta dell’Italia sarebbe spiegata dall’assuefazione sviluppata dal Paese e dai suoi operatori economici alle crisi politiche.
Il fattore Trump
Cosa succederebbe se il voto dell’8 novembre consegnasse le chiavi della Casa Bianca al candidato repubblicano Donald Trump? In base alla simulazione di Coface, la crescita economica degli Stati Uniti sarebbe più bassa dell’1,5%, ma paradossalmente a soffrire di più sarebbero le economie europee, che lascerebbero sul terreno in media il 2%, con un massimo compreso tra il 3 e il 4% per la Spagna, mentre la Francia ne uscirebbe con un -1% e la Germania praticamente indenne.
Per Coface, questi risultati non fanno che confermare il ruolo sistemico dell’economia statunitense, già osservato dopo il crack della Lehman, quando il Pil americano subì una contrazione del 2,8% nel 2009, contro il crollo del 4,5% registrato nell’Eurozona.

Il Veneto fa bene all’Italia/L’Italia vuol bene al Veneto?

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risorgimento-venetoSono un veneto capace di inebriarsi della nebbia che vela le stoppie in autunno, che ama la terra concimata dal sudore e lievitata con l’amore dei contadini.
Ho conosciuto ed apprezzato la tiepidezza gradevole delle vecchie stalle, ma anche la laboriosità nei capannoni sorti nelle stesse campagne: in entrambi i luoghi si è riversata la fatica, l’intelligenza e l’abnegazione dei nativi, appartenenti ad una umanità fortunata.
Si, fortunata, perché generatrice di una vasta famiglia di missionari: promotori dello sviluppo e della fede dal microcosmo locale ai territori del mondo dove, per scelta, per sfida, ma anche per costrizione si sono dovuti recare con la sola dote di braccia, menti fervide, cuore generoso.
Sono un veneto che ha incontrato da giovane la lettura delle “Confessioni” di un fratello maggiore, un italiano precoce che gli ha rivelato la passione, le speranze e la sofferenza con cui ha partecipato alla costruzione del tessuto unitario di un Paese sognato come lo spazio vitale per l’incontro degli spiriti liberi e leali, animati dal desisderio di una Patria comune.
Ippolito Nievo ha donato tutto se stesso, con la sua scrittura e con la totale dedizione della vita, ad illustrare il manifesto dei sentimenti e degli ideali con i quali dare fondamento storico-culturale al progetto coltivato ed idealizzato per secoli dalle intelligenze più acute e visionarie, di una nazione sognata, sottratta agli artigli non solo degli “stranieri”, ma anche degli egoismi, viltà e mediocrità dei vari reucci, granduchi, principi e dogi, cardinali e briganti, dominanti su aree che, seppur “recintate” , erano legate ad un destino unitario.
Sono un italiano che si è più volte inchinato a pregare sui sassi e sulle rocce ancora umide del sangue copioso versato da sardi, calabresi, siciliani, pugliesi ed altri compagni di sventura, abbracciati nelle trincee dei monti familiari ai commilitoni veneti: tutti indistintamente coscienti che era un altro il destino in cui avevano confidato, per sé stessi ed il loro Paese.
Sono un veneto che, per quanto ha potuto, si è sforzato di studiare, sperimentare e proporre valori e programmi, per lo sviluppo sociale ed economico dell’Italia, generati ed osservati nel federalismo antropologico radicato nella storia peculiare della mia Regione, incardinata su una concezione della religiosità, dell’impresa, del risparmio, del welfare, fondamentale anche per correggere i vizi e le corruzioni, le distorsioni e le depravazioni con cui le parti vincenti delle classi dirigenti nazionali hanno infangato l’ideale di un Paese armonicamente integrato ed eticamente coeso, col dare vita ad una struttura burocratico–statuale asimmetrica-squilibrata-inadeguata.
Ciononostante mi sento grato ai Padri veneti che negli anni del Risorgimento nazionale hanno immaginato (e lottato per) una Patria condivisa; per quanto riguarda poi i cruciali frangenti del 1866, resto ammirato della saggezza con cui i rappresentanti del variegato ed amministrativamente composito territorio veneto hanno scelto la strada più lineare ed efficace per partecipare alla sua costruzione materiale.
Tali sentimenti di gratitudine e di ammirazione sono anche motivati dal riscontrare come, nel periglioso percorso unitario del Paese, le pulsioni autoritario-centralistiche del Regno Sabaudo e le componenti ribellistiche radicate in diverse aree del territorio meridionale, sono entrate in collusione, provocando un bagno di sangue – per lo più innocente – per il quale i fratelli meridionale hanno pagato un prezzo terribile e sul quale anche le recenti celebrazioni del 150° non hanno rappresentato un’occasione propizia per fare piena luce ed una ancor oggi indispensabile operazione-verità.
E’ a partire da queste sommarie considerazioni che, come veneto, coltivo un autentico disprezzo nei confronti di quegli operatori culturali (storici, insegnanti, giornalisti, politologi e sondaggiologi) che – in particolare negli ultimi venti anni – hanno affrontato le manifestazioni di dissenso e protesta emerse in Veneto sulla questione del rapporto Territorio-Stato, con un livello di superficialità, ignoranza, improvvisazione e strumentalizzazione che continuano a lasciarmi esterefatto.

Proprio in questi giorni, in cui la volontà confermata dai veneti nel 1866 di sottrarsi alla matrigna Austria e di recidere i leganti storici con la putrefatta Serenissima, è occcasione di valutazioni viziate da un banale approccio diacronico e/o da schematismi ideologici di impronta neo-centralistica, sottolineo la necessità di una rivisitazione storica ispirata dalla volontà di indagare e riconoscere tutti gli elementi contradditori (eroismi ed illusioni, ingenuità e manipolazioni, avanzamenti ed arretramenti, sviluppo ed ingiustizie, evoluzione nazionale e cedimenti territoriali) che hanno caratterizzato il processo di unificazione di un Paese che – a dispetto dei molti avversari interni ed esterni e delle difficoltà strutturali – si è confermato come un magnifico Progetto costantemente in progress.

INFORMAZIONE PER I CRETINETTI (testimonial del NO)

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partnershipLa visita americana dei giorni scorsi è stata l’occasione (ulteriore) per smascherare la cretinaggine e l’ottusità di molti testimonial del NO (primi classificati: D’ALEMA, BERSANI, SALVINI, MELONI). L’ostilità pregiudiziale nei confronti di Renzi ha obnubilato loro il cervello al punto di non capire (e riconoscere) che in ballo non c’era l’endorsement per il SI (oltretutto portasfiga visto il precedente per BREXIT) bensì l’avvio di una partnership più pesante, impegnativa e sicuramente remunerativa per il nostro Paese, a prescindere dai due leader che l’hanno – con lungimiranza – prefigurata.
Sarebbero da mettere dietro la lavagna: intanto si leggano l’articolo che segue….

IL TESTIMONE DI OBAMA A RENZI SUL RILANCIO DELL’EUROPA

Gerardo Pelosi Il Sole 24 Ore 20 Ottobre 2016

Spenti ormai i riflettori nel grande padiglione allestito nel South Lawn della Casa Bianca per l’Italy State Dinner, l’ultima dell’era Obama, Matteo Renzi si prepara al lungo e difficile negoziato di Bruxelles sulla legge di Bilancio italiana. I due eventi, apparentemente così slegati, hanno in comune più di qualche elemento.
Dietro all’endorsement del presidente americano uscente a Renzi si legge la grande preoccupazione di Washington nel vedere lentamente evaporare il disegno della costruzione europea. Prima la Brexit e, il prossimo anno, le elezioni in Francia e Germania rischiano di ritardare ogni sforzo nel rilanciare il sogno europeo. Obama teme di lasciare al suo successore un rapporto Transatlantico sfilacciato con una sponda dell’Atlantico, quella europea, sempre più in crisi. Con il realismo che gli è proprio, Obama punta quindi su Renzi in quanto espressione di una nuova classe politica europea che, rompendo con il passato, può riuscire a ridare slancio all’Unione europea e, di riflesso, rimettere in moto quel dialogo Transatlantico che resta l’unico vero pilastro della sicurezza e della prosperità economica degli Stati Uniti. «Un tempo io ero giovane ma ora tocca a te» ha detto Obama nel brindisi dell’altra sera alla Casa Bianca guardando negli occhi Matteo Renzi. Un passaggio di testimone significativo che fa ricadere sulle spalle del primo ministro italiano grandi responsabilità. Non più solo quelle che ci si attende da un “rottamatore” ma quelle che si spera di vedere in una leadership giovane e illuminata che sa “cambiare verso” all’Europa lottando contro le incrostazioni burocratiche ma salvando le fondamenta dell’architettura europea. Nella visione di Obama Renzi «rappresenta l’energia, l’ottimismo, la visione e il valore che possono portare avanti l’Italia e l’Europa”. Il presidente americano ha ringraziato il suo «grande amico Matteo» per la sua «eccellente partnership mentre lavoriamo per far crescere la sicurezza e la prosperità dei nostri cittadini e la dignità delle popolazioni nel mondo».
Un legame che dunque guarda avanti, alle nuove generazioni, alla lotta al terrorismo fondamentalista e alla stabilità nel Mediterraneo. Una sorta di testamento politico di “legacy” alle nuove generazioni per dire di no alla paura e alle spinte populiste che «bloccano le aspettative della nuove generazioni». Valori fondanti nelle radici del passato ma sguardo proteso al futuro. Nelle tappe dell’ultima giornata di Renzi a Washington è racchiuso tutto il senso della visita. Prima l’incontro con gli studenti della Johns Hopkins University e poi l’omaggio con corona di fiori sulla tomba del milite ignoto al cimitero militare di Arlington dove è sepolto J.F.Kennedy. L’Europa, dice Renzi agli studenti, «è un luogo nato da una generazione di sognatori, L’Ue è stata sotto choc dopo Brexit ma lo choc è finito molto presto: io ho proposto di costruire un’idea diversa di Europa, di pensare alle nuove generazioni. “Sì, sì” mi hanno detto e dopo tre mesi siamo tornati a parlare e la discussione era sui tempi di uscita di Brexit; ma questo è importante per il Regno Unito non per l’Ue, per l’Ue è importante capire il suo futuro. Ma dove è il futuro della Ue?». L’Europa che arriva su Marte con la sonda italiana Schiaparelli, secondo Renzi, «non riesce ad affrontare la crisi migranti». Ci sono, è vero, molte congratulazioni per la strategia italiana ma «tutti aprono le labbra ma non le porte». E invece «l’Ue è forte solo se si fanno scelte concentrate sul futuro».
Forte dei risultati del viaggio americano oggi a Bruxelles prima in una colazione con gli europarlamentari socialisti e poi al Consiglio europeo Matteo Renzi, comincerà a negoziare sufficienti margini di flessibilità (0,4% in più per terremoto e migranti) nella legge di Bilancio italiana sulla quale gli uffici della Commissione hanno già espresso alcune perplessità. Il giudizio finale arriverà solo a fine novembre. Fino ad allora Renzi insisterà con Juncker e la Merkel per spiegare le posizioni del Governo italiano. Ma soprattutto per ricordare che il problema dell’Europa non è solo quello di uno zero virgola in più o in meno. È capire come ridare forza al sogno europeo.

Le Imprese italiane per il SI a vincere la competizione dei MERCATI GLOBALI

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L’Isurplus-commercialetalia è salita al quinto posto mondiale per l’attivo con l’estero
Marco Fortis Il Sole 24 Ore 18 Ottobre 2016

Nonostante il rallentamento degli scambi internazionali (che pesa su tutti i Paesi esportatori), anche nel 2015 l’Italia si è aggiudicata il miglior numero di piazzamenti per competitività nel commercio mondiale subito dopo la Germania in base alla graduatoria dell’International trade centre (Itc) di Ginevra. Un secondo posto assoluto molto significativo, costruito non soltanto sui primati nei prodotti tradizionali del nostro Paese ma, anche da numerosi secondi posti che l’Italia ha conquistato a poco a poco in settori dove la Germania è il benchmark mondiale di riferimento per tecnologia e innovazione. Una ulteriore prova che il made in Italy ormai è un fenomeno molto più complesso e variegato rispetto al consueto stereotipo che ci vede produttori prevalentemente di abiti, scarpe e cibo, che pure restano dei pilastri della nostra economia.
L’agenzia congiunta di Unctad e Wto ha esaminato le performance competitive dei Paesi del mondo in 14 settori del commercio internazionale, di cui 2 rappresentati da materie prime (minerali energetici e non energetici e prodotti alimentari freschi) e 12 costituiti da diverse tipologie di manufatti. I posizionamenti competitivi di ciascun Paese originano da 5 sotto-indici che misurano per ogni settore: la quota di mercato mondiale nell’export; la bilancia commerciale; l’export pro capite; la differenziazione dei prodotti; la differenziazione dei mercati.
Se nella classifica dell’Itc la Germania si è imposta nel 2015 con ben 8 prime posizioni (praticamente in tutti i settori manifatturieri esclusi quelli della moda e l’elettronica di consumo-telecomunicazioni) nonché con un terzo posto (nel tessile), l’Italia si è confermata la seconda nazione al mondo con 3 primi posti (tessile, abbigliamento, cuoio-calzature), 4 secondi posti (manufatti di base, apparecchiature elettriche, meccanica non elettronica e mezzi di trasporto), un quarto posto (altri manufatti vari, che includono gioielleria, occhiali, articoli in materie plastiche) e un quinto posto (alimentari trasformati). Seguono per numero di migliori piazzamenti la Cina, la Corea del Sud e il Giappone.
La Cina può vantare 3 secondi posti (tessile, abbigliamento, cuoio-calzature, alle spalle dell’Italia), un quarto posto (manufatti di base), un quinto posto (mezzi di trasporto), un sesto posto (meccanica non elettronica) e due ottavi posti (elettronica di consumo-telecomunicazioni e manufatti vari). La Corea del Sud a sua volta conquista 2 terzi posti (mezzi di trasporto e manufatti di base), un quinto posto (tessile), un settimo posto (meccanica non elettronica) e 2 noni posti (elettronica di consumo-telecomunicazioni e chimica-farmaceutica). Infine, il Giappone si aggiudica un quinto posto (apparecchiature elettriche), un sesto posto (manufatti di base), un ottavo posto (chimica-farmaceutica) e un decimo posto (manufatti vari). Tra gli altri grandi Paesi deludono gli Stati Uniti (solo un quinto posto negli alimentari freschi) e il Regno Unito (nessun posizionamento tra i primi 10 in nessun settore). Mentre la Francia non sfigura con un secondo posto (chimica-farmaceutica), un terzo posto (alimentari trasformati) e un decimo posto (mezzi di trasporto).
L’ottimo piazzamento dell’Italia nelle classifiche dell’Itc si fonda sempre più sulle eccellenze del nostro Paese nella meccanica (in molte tipologie di macchinari e apparecchi abbiamo superato la stessa Germania) e nei mezzi di trasporto (dove al miglioramento recente dell’auto si accompagnano i primati italiani nell’elicotteristica, nella nautica e nelle navi da crociera). Inoltre, in questi ultimi anni l’Italia ha migliorato il suo posizionamento internazionale anche in vari comparti della chimica-farmaceutica. Dal 2013, ad esempio, la bilancia commerciale dell’Italia per i prodotti farmaceutici, che era sempre stata deficitaria, è ormai strutturalmente in surplus.
Tutto ciò, unitamente al riposizionamento delle imprese italiane su valori aggiunti sempre più alti nella moda, nell’arredo-casa e negli alimentari-vini, ha permesso al nostro Paese di compiere un vero e proprio “miracolo” in termini di bilancia commerciale, che solo in parte è stato aiutato dal calo del prezzo del petrolio (calo di cui, peraltro, hanno potuto godere tutte le economie importatrici di greggio e gas, non solo la nostra).
La bilancia commerciale italiana con l’estero, infatti, fino al 2011 era negativa (dal 2004). Poi, in base alle Trade map dell’Itc, nel 2012 è divenuta attiva risultando in quell’anno la trentunesima a livello mondiale. Nel 2013 è risultata la sedicesima, nel 2014 la decima e nel 2015 l’ottava. Non solo. In base ai dati del primo trimestre di quest’anno, nel periodo di dodici mesi che va da aprile 2015 a marzo 2016 la bilancia commerciale italiana è stata addirittura la sesta migliore al mondo per valore del surplus (52 miliardi di dollari) dopo quelle di Cina, Germania, Russia, Corea del Sud ed Olanda. Che in realtà è come dire essere quinti, dato che l’attivo olandese non origina da merci prodotte in quel Paese, ma prevalentemente da transiti nei porti di Rotterdam ed Amsterdam.

Ladri di futuro: la trincea della conservazione del NO

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giovani

Mi è capitato diverse volte nell’ultimo anno, particolarmente discutendo di rinnovamento politico e Referendum, di usare parole aspre per stigmatizzare l’atteggiamento della generazione dei sessantenni (Brunetta, De Bortoli, Bersani, D’Alema, Camusso ed altri): livorosi, frustrati e rosiconi nei confronti del “renzismo”, perché interpretato come una minaccia al prestigio ed alle rendite di posizione accumulate dagli insiders del giornalismo, della nomenclatura partitica e della burocrazia pubblica. Tale vera e propria fenomenologia di “ostilità” alla ventilata (ed in qualche raro caso attuata) “rottamazione”, si sta manifestando in modo persino imbarazzante nell’adesione di molti “testimonial” anziani ed ottuagenari allo schieramento referendario del NO che si rivela ogni giorno di più una vera e propria trincea della conservazione: la foglia di fico della “difesa della Costituzione” per molte cariatidi politiche e burocratico-associative della Prima e Seconda Repubblica è usata per mascherare una sostanziale contrarietà ad ogni ipotesi di rinnovamento e rigenerazione della vita socio-culturale del Paese. E come si può facilmente comprendere, tale manifestazione di “resistenza” al cambiamento invia un messaggio devastante perché dà l’immagine di un Paese rattrapito, incapace di liberare le energie – necessariamente giovanili – in grado di dargli la spinta per affrontare le sfide del futuro. Si tratta di una questione che va ben oltre il recinto della vicenda costituzionale (pur centrale) per investire le dinamiche complessive dello sviluppo nazionale.
Su di esse è intervenuto nelle settimane scorse su IL SOLE 24 ORE CARLO CARBONI (commentando una ricerca sull’età media dei mestieri e delle professioni) con un articolo di una chiarezza e, per certi versi, drammaticità che non lasciano alcun margine di incertezza: il conflitto generazionale sottostante alle difficoltà ed all’incertezza che caratterizzano la situazione generale dell’Italia, deve essere superato, focalizzando le cause demografiche che lo determinano, ma anche i processi culturali necessari che possono consentire di individuare i percorsi dell’innovazione sociale condivisa.
Sullo stesso tema segnalo anche il link di un altro articolo ancor più incisivo e persino brutale nel fotografare
“Una generazione ignorata, sfruttata, incompresa, orfana di un proprio futuro”:
http://www.neodemos.info/?s=Una+generazione+ignorata&x=9&y=5

GENERAZIONI IN CERCA D’INTESA – di Carlo Carboni – Il Sole 24 Ore
L’età media elevata delle professioni e dei mestieri è specchio dell’Italia invecchiata.
Questo invecchiamento provoca profonde trasformazioni, con una forza che è paragonabile solo al passaggio intenso che stiamo vivendo verso la società tecnologica.
I due fenomeni corrono in parallelo: nonostante gli anziani la vivano con sospetto, la tecnologia può fare molto per servizi e produttività di una società invecchiata.
L’invecchiamento ha il valore della vita, la longevità. Comporta però l’apertura di nuove finestre problematiche, tra loro interrelate, come la bassa crescita economica, l’elevata disoccupazione, l’invecchiamento di mestieri e professioni.
Tutti fenomeni di lungo periodo, aggravati dalla crisi recente e che s’intersecano l’un con l’altro nel divario generazionale, un buco nero in cui precipitano una serie di trasformazioni strutturali associate ad aspetti etici e normativi. Anziani e giovani diventano due generazioni che hanno difficoltà a comprendersi. Parlano due linguaggi diversi. Il digital divide, la familiarità alle nuove tecnologie li depista. L’80% degli over 64 non è utente di internet (contro il 9% dei 19-34enni). Non conosce la dimensione virtuale. A questo vantaggio potenziale dei giovani sugli anziani si oppone l’attuale apartheid giovanile, popolato da disoccupazione, precarietà, lavoro nero, neet. Figure e ruoli che rischiano di cronicizzarsi. Su questo un diluvio di parole, irrisolte nei fatti. Perché non sono seguiti fatti concreti su una disoccupazione giovanile da anni a livelli record? Che dire dello spreco di capitale giovanile, istruito mai come prima e familiarizzato ai nuovi linguaggi?
La risposta è che stiamo vivendo la dominazione della generazione più potente degli ultimi50-60 anni, che ha messo in inferiorità numerica tutte le generazioni a essa successive. Sono gli ex-baby boomers, oggi over60, che hanno goduto dell’ombra dell’albero piantato dai loro padri durante la Ricostruzione: primi giovani del nuovo benessere italiano. È la prima generazione istruita che ha azzerato la mobilità sociale e ha creato una società d’insiders via via più anziana, a volte aiutata dalle leggi, come nei recenti casi del blocco delle assunzioni nella Pa o dell’aumento dell’età pensionabile. A farsi beffe della disoccupazione record dei giovani, vi sono i recenti dati Istat che registrano una crescita dell’occupazione tra i lavoratori più anziani. Tutto porta a un invecchiamento di mestieri e professioni a danno dei giovani, a un’esclusione con costi economici e sociali. Uno tra gli altri, è la difficoltà del Paese a rinnovare la propria società ed economia in chiave tecnologica senza l’apporto dei giovani. Anche su questo c’è stato un ulteriore diluvio di parole, questa volta a sfondo etico. Da un canto, c’è chi ha considerato gli over60 arroccati in un cinico egoismo generazionale, per cui gli attuali silver boomers rischiano di passare alla storia come la generazione della verità corrotta: che sapeva, ma non si è preoccupata di fare nulla. Ha beneficiato della ricostruzione e dell’industrializzazione del Paese e sta prendendo prestiti dal futuro dei giovani. Dall’altro canto, c’è chi ha puntato l’indice contro i giovani, colpevolizzandoli in quanto “bamboccioni”. Non basta desiderare per fare quello che si vuole, bisogna metterci testa e olio di gomito. I giovani, al contrario, sono intossicati dal benessere, presi costantemente da una pigrizia domenicale che evita il loro divorzio dal passato.
Il divario generazionale è più complesso di quanto prospettato da queste due sponde. Basta citare la diaspora dei giovani (soprattutto disoccupati e studenti) da un Paese troppo preso dai rumori del passato. I politici, poi, pensano alle prossime elezioni e non al bene comune delle nuove generazioni, i quarantenni sono giovani in realtà non più giovani e i vecchi non si sentono più così tanto vecchi e tengono duro su reddito e rendite. In breve, il Paese continua a ignorare che la sua digitalizzazione produce effetti solo se c’è saper fare, un sapere codificato che è a largo appannaggio dei giovani. Per ristabilire un equilibrio in modo tale che, per dirla come Khalil Gibran, la generazione più giovane sia la freccia e la più vecchia l’arco, ci vorrebbe una crescita sostenuta che consentisse alle nuove generazioni un processo di più cospicua accumulazione della ricchezza durante la vita lavorativa, accorciando i pesi del passato. Il divario generazionale è una ferita. Il buon esito della sua cicatrizzazione dipende dalla crescita, dalla cura del capitale umano e dall’innovazione. Insiders permettendo.

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Una democrazia governata per pesare in Europal

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RIFORME E REFERENDUM
Di Sergio Fabbrini Il Sole 24 Ore 09 Ottobre 2016
Condizione essenziale per sopravvivere in un sistema di interdipendenze
Il dibattito pubblico sulla riforma costituzionale continua a mantenere una brutta piega. Ancora non si capisce cosa ci sia in gioco. Da un lato, si continua a parlare di politica e non di costituzione. I politici contrari alla riforma interpretano il referendum come un’anticipazione delle prossime elezioni parlamentari. Per loro, in gioco c’è il governo. Del progetto di riforma non parlano. Dopo tutto, come potrebbero criticarlo, dopo averlo sostenuto a lungo in Parlamento? Dall’altro lato, c’è un ceto intellettuale-mediatico che critica la riforma sulla base di frasi ad effetto. Una vera e propria fiera delle vanità. Per non parlare poi dei professori che, quando non lanciano allarmi sulla dittatura che avanza, propongono (ognuno) il proprio distinto modellino costituzionale. Sembra quasi che, il 4 dicembre, si dovrà scegliere tra la riforma approvata dal Parlamento e l’uno o l’altro dei progetti elaborati dall’uno o dall’altro degli esperti scesi in campo. No, le cose non possono andare avanti così. A prescindere dal risultato, una discussione pubblica di questo tipo abbruttisce il paese. Cominciamo dall’inizio: il 4 dicembre si voterà tra lo status quo e la riforma. Chi critica la seconda è a favore del primo. Punto e basta. Il resto è fumo negli occhi.
Se così è, allora vediamo se la riforma è migliore della situazione esistente. Eliminiamo subito gli equivoci. La riforma non tocca né la Premessa sui principi fondamentali né la Parte Prima sui diritti e doveri dei cittadini della Costituzione del 1948. Inoltre, della Parte Seconda di quest’ultima (quella sull’Ordinamento della Repubblica), la riforma non tocca né la forma di governo né i rapporti tra il potere politico e quello giudiziario. Quindi, contrariamente a tutti i progetti di riforma elaborati nel passato (in particolare dalla Commissione bicamerale presieduta da D’Alema e poi dal governo di centro-destra presieduto da Berlusconi), la riforma in discussione è piuttosto minimalista, incidendo su alcuni aspetti del sistema parlamentare e regionale. Nonostante il suo carattere minimalista, la riforma di quegli aspetti rinvia tuttavia ad un’idea di democrazia. Perché, come tutte le riforme costituzionali, anche questa non è pura ingegneria istituzionale. Dunque, il 4 dicembre saremo chiamati a scegliere tra un’idea e un’altra di democrazia, non già tra una technicality e un’altra. Se non fosse così, non varrebbe la pena di andare a votare.
Qual è l’idea di democrazia che è proposta dalla riforma e quale idea di democrazia essa vuole sostituire? Per rispondere, indico i tre aspetti cruciali della riforma. Primo. Essa riconosce il potere di fiducia/sfiducia al governo solamente alla Camera dei deputati (e non più anche al Senato come è ora). Una fonte di instabilità governativa viene neutralizzata se si pensa che, nelle ultime sei elezioni nazionali (1994-2013), per ben quattro volte si sono verificate maggioranze distinte nell’una e nell’altra camera. Una divergenza che ha avuto la sua drammatica apoteosi nell’aprile 2013, quando tutte le forze politiche del Parlamento (con la sola esclusione del M5S) furono costrette a chiedere al Presidente Giorgio Napolitano (in scadenza) di ricandidarsi perché incapaci di trovare un accordo su un candidato alternativo. Secondo. La riforma riconosce al governo la possibilità di beneficiare di una corsia preferenziale alla Camera dei deputati per i disegni di legge ritenuti da esso prioritari, riducendo così il ricorso ai decreti legge di cui i governi hanno abusato nel passato. Una fonte di incertezza legislativa viene neutralizzata, rendendo più esplicito il confronto tra il governo e le opposizioni (di cui si prevede per la prima volta uno statuto specifico). Terzo. La riforma razionalizza i rapporti tra lo stato e le autonomie territoriali, seguendo il tracciato definito dalle sentenze della Corte costituzionale degli ultimi quindici anni, sentenze costrette a risolvere la molteplicità di dispute tra centro e periferie indotte dalla costituzione attuale. L’abolizione delle competenze condivise, l’introduzione della clausola dell’interesse nazionale, il trasferimento allo stato di competenze cruciali per lo sviluppo configurano certamente un ri-accentramento dei poteri. Tale ri-accentramento viene però bilanciato dalla trasformazione del Senato in una camera delle autonomie, attraverso la quale queste ultime potranno far sentire la loro voce direttamente al centro. Anche in questo caso, una fonte di conflittualità nella gestione delle politiche pubbliche viene neutralizzata.
Se si considerano questi aspetti, è difficile negare che la riforma ci faccia fare un passo in avanti rispetto alla situazione esistente. Soprattutto, il governo ha più possibilità di poter fare il proprio lavoro. Ovvero cercare di realizzare il programma con cui la maggioranza ha vinto le elezioni. Se questa è l’idea di democrazia che la riforma promuove, qual è l’idea che essa contrasta? Quest’ultima è stata esposta con chiarezza da Gustavo Zagrebelsky. Per quest’ultimo, la democrazia dovrebbe essere un regime politico in cui non ci sono vincitori e vinti, in cui le decisioni vengono prese in Parlamento attraverso accordi trasversali e contingenti tra i suoi membri. In questa democrazia, i rappresentanti sono scelti per le loro qualità sociali, non già per le loro posizioni politiche o programmatiche. Ma se così è, allora come può un cittadino stabilire chi è responsabile per le scelte fatte o non fatte? Ed infatti l’opacità del nostro sistema istituzionale ha prodotto una diffusa irresponsabilità politica. Tant’è che nessuno è considerato responsabile per l’enorme debito pubblico che abbiamo accumulato. La democrazia senza (periodici) vincitori e vinti è in realtà un regime oligarchico. È l’assenza di competizione tra distinte forze politiche che produce l’oligarchia, cioè la permanenza prolungata al potere delle stesse persone. Come è avvenuto nella Prima ma anche nella Seconda Repubblica. Le democrazie hanno bisogno di élite, non di oligarchie. Le prime assolvono una funzione necessaria, le seconde costituiscono invece una degenerazione del processo democratico. Solamente la competizione può produrre il ricambio regolare e pacifico delle élite di governo. E senza competizione in politica, è improbabile che possa esserci il ricambio anche nell’economia e nella società.
Mentre lo status quo alimenta un’idea di democrazia basata sulla confusione delle responsabilità, la riforma avanza invece l’idea di una democrazia governata. Il punto è che la capacità di governo costituisce una condizione esistenziale per sopravvivere, oltre che per crescere, nel sistema di interdipendenze in cui siamo collocati. Infatti, se è vero che a Bruxelles si prendono gran parte delle decisioni che incidono sulla vita dei cittadini, come si fa ad influenzare quelle decisioni se si è rappresentati da governi che cambiano in continuazione o da élite politiche che litigano in continuazione? Non è un caso che i contrari alla riforma costituzionale, dell’Europa non parlino mai. Dovrebbe essere un interesse di tutti avere un Ordinamento della Repubblica che consenta di giungere a decisioni in tempi ragionevoli, che favorisca una gestione responsabile del bilancio pubblico, che incentivi la coerenza dei governi e il loro controllo da parte delle opposizioni, così rafforzando il ruolo dell’Italia in Europa. Alla fine è su questa idea di democrazia che dobbiamo votare il prossimo 4 dicembre. Stabilendo se sia più o meno adeguata rispetto all’idea di democrazia in cui tutti possono decidere ma nessuno è responsabile per le decisioni o non-decisioni prese.

L’eroico cittadino del si

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Ad un veneto “impegnato e stressato” (come me) manca – quasi – sempre il tempo per soffermarsi su un pensiero positivo, perché “non c’è tempo da perdere” ed il trastullio non è confacente a persone ossessionate dal tradurre in fatti le speranze…
Ma l’azione efficace ha bisogno di essere alimentata e sostenuta dalla visione, dall’entusiasmo non vissuti in solitudine, bensì “abbracciati” al mondo nel quale si vuole operare un po’ (di) bene.
Ecco perché l’articolo di Claudio Velardi, ureferendumvivon partenopeo con lo sguardo e la scrittura soleggiati, ci dona e ci suggerisce l’atteggiamento più idoneo a vivere la campagna referendaria come un’occasione importante di convivenza appassionata e sincera empatia con i cittadini italiani che sono impegnati quotidianamente a sfidarsi e sfidare il contesto sociale, professionale, economico per superare le difficoltà con ottimismo e con quel po’ di fiducia in più che può derivare da un messaggio di rinnovamento e speranza per il futuro del Paese.

IL SÌ PUNTI SU FIDUCIA CONTRO DEPRESSIONE
Di Claudi Velardi – Unità 13 ottobre

Parlando di racconto del prossimo referendum (di storytelling, come si dice da un p o’), l’altro ieri sul Foglio Claudio Giunta ha sostenuto che il finale è già scritto. Vincerà il No, che ha una causa sufficientemente nobile e generica (la salvezza della democrazia) sulla quale far leva per mobilitare gli elettori stanchi. Al contrario del Sì, che ha a disposizione argomenti grigi e prosaici (procedure legislative, aggiustamenti, riscritture, ecc…), oggettivamente meno trainanti e fascinosi. E dunque il risultato è segnato: perché tanto è eroica e motivante la missione del No, quanto ordinaria e burocratica è quella del Sì. Ora, ci sarebbe parecchio da dire sull’approccio al tema e sulla conclusione di Giunta. Ma forse è meglio cogliere l’occasione per chiedersi se effettivamente non vi sia, al momento, un problema di narrazione, di svolgimento e di trama della campagna del Sì. Cose di cui parlare tranquillamente, perché in 50 e passa giorni c’è tutto il tempo per dispiegare al meglio un bellissimo racconto. Diciamo la verità: quando fu concepita, agli inizi del 2014, l’idea della riforma della Costituzione conquistò abbastanza presto il vento in poppa, sull’onda dei tanti eventi che la motivavano con forza (esito del voto del 2013, discorso di rielezione di Napolitano, accordo con una parte dell’opposizione, nuovo governo Renzi). Il vento a favore continuò a soffiare anche dopo le dimissioni di Napolitano, l’elezione di Mattarella e magari più flebilmente – dopo la rottura dell’intesa con il centrodestra. La riscrittura della Carta continuava ad apparire non solo necessaria, ma utile e coerente con l’avvio di promettenti cambiamenti economico-sociali. Le cose si sono progressivamente complicate quando la grande tempesta antiglobalizzazione che sta agitando il mondo (con le sue ricadute di paure, protezionismi e chiusure) ha gettato nel panico un’Europa già di suo pavida e priva di progetto. A quel punto il messaggio innovativo della riforma costituzionale italiana è apparso isolato e in controtendenza rispetto ai venti dominanti (se ci pensate, è esattamente quello che ha detto ieri Bersani a Staino: dove volete andare, con l’aria che tira…). Ma allora, dico ai miei amici del Sì, come si risponde a questo cambiamento di clima? Mettendo scolasticamente in fila i buoni contenuti della riforma (semplificazioni, razionalizzazioni, velocizzazioni)? D’a c c o rd o, ma non basta. Elencando (un po’
grilleggiando) i tagli dei costi della politica e di politici? Ne dubito. Disquisendo ancora di «combinati disposti» nei dibattiti cifrati del Nazareno? Non sia mai: dovesse durare ancora un po’ questa manfrina, comincerei a preoccuparmi sul serio. No. Per affrontare e vincere una grande battaglia che va in «direzione ostinata e contraria», bisogna dare respiro alla manovra, per dirla calcisticamente, e cioè: a) rimotivare la riforma proprio a partire dalla realtà globale nella quale siamo immersi; b) mostrare la profondità del suo percorso storico-politico. A) una scossa alle istituzioni italiane è necessaria perché il mondo è bello, corre e continuerà a farlo: non saranno gli untorelli del catastrofismo a fermarlo. Se vogliamo non dico riagganciare la sua parte più avanzata ma tentare di farlo, il rinnovamento delle nostre istituzioni risulta imprescindibile. Per il nostro studente che frequenta il mondo, per le nostre aziende. E – certo – per la credibilità internazionale dell’Italia. B) L’esigenza della riforma non è nata con Renzi. È da decenni che ci si lavora. Troppo lentamente? D’accordo, ma ora ci siamo arrivati. Non malgrado, ma anche grazie al lavoro e alle elaborazioni di 30 anni, la riforma della Costituzione può diventare per tutti un momento di svolta e di altissimo valore simbolico, come i due referendum che hanno fatto nascere la Repubblica (1946) e ne
hanno segnato la modernizzazione (1974). Infine. Ogni racconto – dicono i sacri testi ha bisogno di un eroe. In questa storia, a proposito dello stupido dibattito sulla personalizzazione, l’eroe non è Matteo Renzi. L’eroe è il cittadino che vuole dare un segnale positivo a se stesso, più che all’Europa o al mondo. Preoccupato, consapevole delle difficoltà, è un italiano che, con tenacia e volontà, esce di casa e investe sul domani, finanche con un margine di rischio (come andrà dopo? Vedremo: sperimenteremo, ci misureremo, ci valuteremo…). Vivendo quel pizzico di misurata gioia che solo il futuro sa regalarci: si tratti di noi, dell’avvenire dei nostri figli o del pezzo di mondo che a b i t i a m o. Ed il nemico non è Grillo, tantomeno Bersani. È piuttosto la depressione, malattia mortale per i singoli, a maggior ragione per una nazione. Quando ci si chiede cosa accadrà il 5 dicembre se vince il No, la risposta è: niente. A pensarci solo un attimo, non c’è risposta più avvilente e preoccupante, proprio per quella democrazia da «salvare». La democrazia è tale perché, e solo in quanto, capace di rinnovarsi: in caso contrario muore. Per questo il film che stiamo tutti girando in presa diretta ha per me ha un titolo chiaro: fiducia contro depressione. Raccontata così, la sfida del 4 dicembre si può vincere. E anche bene.