Dopo l’unità d’italia. La camorra? Nasce come setta

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In un libro densissimo Franco Benigno racconta le origini del fenomeno mafioso in Sicilia e a Napoli, partendo da testimonianze che ricalcano i narratori francesi dell’800

Camorra dueGabriele Pedullà,      STORIA E STORIE – 3 Gennaio 2016 – Il Sole 24 Ore

 

Il termine “andrangheta” deriva dal greco aner, andros (uomo) e testimonia, con la forza inoppugnabile delle etimologie, come la criminalità organizzata calabrese abbia origine negli antichi simposi dei liberi cittadini della Magna Grecia; analogamente, la parola “mafia” non è altro che la trascrizione del grido “ Ma fille” (figlia mia) con cui, di fronte alle reiterate violenze sulle ragazze del luogo, un padre chiamò i palermitani alla rivolta contro gli occupanti francesi nella celebre insurrezione dei Vespri siciliani del 1282… Pure leggende: come ben sanno gli storici. Ma siccome si tratta di temi scottanti per la nostra attualità e non di rado capita di sentire ancora raccontare in pubblico amenità del genere, persino da qualche magistrato antimafia, conviene ripeterlo una volta di più: la criminalità organizzata che oggi contende allo stato italiano il controllo di ampie porzioni della penisola non affonda tanto lontano le sue radici. E proprio per questo non è imbattibile.

Tuttavia la domanda mantiene intatto il suo fascino. Quando? E soprattutto: perché? Vogliamo, dobbiamo sapere. E ottimi studiosi si sono dedicati a questo tema in tempi recenti. Non è però direttamente da questi interrogativi che muove uno dei libri di storia più importanti degli ultimi anni: La mala setta. Alle origini di mafia e camorra (1859-1878), scritto da uno studioso sino a oggi internazionalmente apprezzato per i suoi lavori sulla politica barocca e sulle rivoluzioni di età moderna (Masaniello, il 1649 inglese e il 1789 francese). In quattrocento densissime pagine Franco Benigno sovverte gran parte delle nostre convinzioni sulla fase aurorale della criminalità organizzata, e lo fa con una mossa interpretativa che – sinteticamente – si può definire come il rifiuto dell’eccezionalismo siciliano e napoletano. Nella prospettiva di Benigno, infatti, gli inafferrabili primordi di mafia e camorra si lasciano mettere a fuoco solo a patto di allargare lo sguardo oltre i confini del Mezzogiorno d’Italia.

Gli storici che lavorano su questi argomenti hanno notato da tempo l’improvviso moltiplicarsi delle testimonianze su camorra e mafia negli anni immediatamente successivi alla Unità: reportage dalle tinte spesso assai fosche nei quali gli autori narrano la discesa nei bassifondi della città e la scoperta, grazie alla confessione di un “pentito”, delle regole con cui si autogoverna il mondo parallelo dei delinquenti, con le sue gerarchie, i suoi giuramenti e rituali, la sua suddivisione in arti e corporazioni secondo il modello delle professioni legali. Prove della esistenza di una setta dal potere tentacolare che arriverebbe a inquadrare decine di migliaia di persone e a controllare ogni snodo della vita di Napoli e Palermo.

Anche Benigno parte da questi testi, ma opera un duplice scarto. Anzitutto ha gioco facile a mostrare come simili coloritissime testimonianze ricalchino in maniera inequivocabile i racconti dei grandi narratori francesi del primo Ottocento sul mondo del crimine, dai romanzi di Balzac, Victor Hugo ed Eugene Sue (I misteri di Parigi) alle famose memorie dell’ex galeotto e poi commissario di polizia Vidocq. La rappresentazione di un mondo popolare al confine tra accattonaggio e delinquenza offerta da queste opere ha goduto di un successo considerevolissimo in Europa, al punto di sentire ancora nel cinema degli anni Trenta, da René Clair (Il milione) a Fritz Lang (M. il mostro di Dusseldorf). Ora, nota Benigno, situazioni, atmosfere e singoli dettagli corrispondono troppo perfettamente perché non si riconosca anche nelle prime testimonianze su camorra e mafia il segno inequivocabile di un simile immaginario romanzesco.

Il passo davvero decisivo de La mala setta è però quello successivo. Benigno mostra come il rapido imporsi della nuova interpretazione del mondo del crimine napoletano all’indomani del 1860 non sia affatto casuale. Se in pochi anni la tradizionale immagine dell’indolente “lazzarone” napoletano è stata cancellata da quella del “camorrista” è perché il modello romanzesco importato dalla Francia si rivelava particolarmente funzionale alla politica repressiva della Destra storica. Le plebi di Napoli e Palermo avevano dato un contributo militare straordinario all’impresa garibaldina e i reduci della spedizione, animati da sentimenti democratici e spesso repubblicani, costituivano un tenace focolaio di opposizione alla piega moderata che il movimento risorgimentale aveva preso dopo l’annessione al regno dei Savoia. Di fronte all’obiettivo pericolo che queste masse cittadine incarnavano per la monarchia, i modelli romanzeschi francesi potevano servire a due scopi intrecciati tra loro: vale a dire a derubricare gli attivisti politici e in particolare i membri della (disciolta) Guardia nazionale di Garibaldi a semplici delinquenti comuni, e a creare il consenso per una politica di repressione urbana analoga a quella contro il brigantaggio nelle campagne, adombrando lo spauracchio di un’oscura minaccia politico-criminale. Come infatti nota Benigno (da ottimo conoscitore dei trompe-l’oeil barocchi), a seconda della lente adoperata gli stessi personaggi ci vengono incontro come eroici patrioti in camicia rossa non ancora rassegnati alla involuzione del 1861 o come pericolosi delinquenti comuni.

Benigno mostra facilmente come in questa prima fase le medesime retoriche messe in campo contro camorra e mafia siano adoperate dalla stampa governativa e dalle forze di polizia per descrivere e contrastare anche le presunte associazioni a delinquere attive nelle altre parti d’Italia dove più forte era la tradizione repubblicana, come nel caso della “Balla” di Bologna (una ipotetica associazione di malfattori accusata dei più diversi delitti). Rileggendo le prime testimonianze su mafiosi e camorristi alla luce della riflessione sull’oggetto sicuramente più incandescente della scienza sociale ottocentesca – le così dette “classi pericolose”, vale a dire quei settori miserabili del popolo presso i quali più facilmente poteva trovare ascolto la propaganda radicale – Benigno reintegra così la storia del crimine organizzato nella storia politica e sociale europea alla luce della “grande paura” scatenata in tutto il continente dall’avanzata del movimento socialista (particolarmente dopo gli eventi della Comune parigina del 1870).

Le tesi di Benigno traggono ovviamente forza dall’imponente scavo archivistico che le sorregge. I lettori si divertiranno a scoprire, per esempio, che all’origine della rappresentazione della camorra come società segreta dalla ramificazione tentacolare incontriamo niente meno che Alexandre Dumas figlio: in una prima fase sostenitore dei garibaldini, ma presto destinato a spostare su posizioni sempre più filogovernative il quotidiano da lui fondato a Napoli, «L’Indipendente» (è a lui che dobbiamo infatti, nel marzo del 1862, la prima descrizione dettagliata della setta della camorra). E la pagina in cui Benigno estrae dall’Archivio di Stato di Napoli la “pistola fumante” che lega le prime ricostruzioni leggendarie della “mala setta” all’attività di “disinformazione” della polizia di Silvio Spaventa e del ministro degli Interni Marco Minghetti è senza dubbio una delle più esplosive dell’intero libro.

Se Benigno ha ragione, solo successivamente camorra e mafia si sono date l’organizzazione verticistica per cui oggi risultano così temibili. La mala setta non ci dice come e quando ciò è avvenuto (e, sbagliando, qualche lettore potrebbe esserne deluso). Questo non vuol dire però che il libro manchi di una pars costruens, ma solo che – significativamente – questa non riguarda tanto la nascita della criminalità organizzata quanto il difficile processo di formazione dello stato nazionale contro alcuni dei suoi propugnatori. La mala setta ci chiede insomma di fare i conti con la criminalizzazione delle “classi pericolose” (non solo meridionali) come tassello essenziale di una strategia di controllo dei ceti popolari, in una fase di instancabile attivismo garibaldino, repubblicano e anarchico. In cambio però ci dà moltissimo: perché alla fine, anche da questo punto di vista, la Napoli di Spaventa e Minghetti si rivela assai meno distante dalla Parigi del barone Haussmann di quanto non continui a ripetere un discorso pubblico troppo spesso incapace, ancora oggi, di affrancarsi del tutto dal mito della costitutiva diversità meridionale.

Franco Benigno, La mala setta, Einaudi, Torino, pagg. 448, € 35,00

La rete (da sola) non può sanare le fragilità della politica

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Tim Berners-LeeINTERNET DEMOCRAZIA PARTECIPAZIONE

Quello che serve è un modo di governare in grado di ripararsi quando si rompe

 

Luciano Floridi – 3 Gennaio 2016 – Il Sole 24 Ore/Nova

 

A inizio dicembre la Fondazione Champalimaud ha organizzato a Lisbona un convegno sul tema “The Unknown, 100 years from now: A voyage of discovery”. Con premi Nobel, ex presidenti del Brasile e del Portogallo, famosi intellettuali e manager di grandi aziende, abbiamo cercato di guardare alle sfide future. Ci sarebbe molto da raccontare, ma la questione che mi ha più colpito è quella politica.

Anche se in modo diverso, Tim Berners-Lee e Manuel Castells hanno concordato sulla seguente analisi. Le istituzioni democratiche e l’idea-sistema di stati sovrani non rispondono più alle esigenze politiche della società dell’informazione. Devono essere aggiornate, per smettere di essere il problema e tornare a far parte della soluzione. Ciò potrebbe avvenire grazie a Internet, se la rete porterà alla disintermediazione e a nuove forme di aggregazione socio-politica diretta, in grado di rispondere a problemi pressanti come la crescente ineguaglianza sociale o la corruzione politica. Semplificando: la salvezza della politica risiederebbe nel passaggio dalla democrazia rappresentativa a quella diretta, reso possibile dalla rete.

Non sono convito che la terapia sia corretta perché temo si basi su una diagnosi errata. Primo problema: si pensa che la democrazia rappresentativa sia un compromesso dovuto a limiti comunicativi. Siccome siamo tanti e non viviamo in una piccola città greca, i grandi numeri ci forzano a delegare le decisioni legislative, esecutive e giudiziarie a rappresentanti. Se fossimo tutti online il problema sarebbe risolto. Non è così. A parte il fatto che anche il villaggio di Asterix e Obelix ha un capo, e che anche le tecnologie digitali sono soggette a monopoli, manipolazioni e sfruttamenti di posizione non meno dei mass media classici, la separazione tra chi possiede e legittima il potere politico (sovranità popolare) e chi lo esercita in modo legittimato (i rappresentati) è una buona proprietà essenziale della democrazia rappresentativa, non un limite.

Questa separazione precede e fonda logicamente quella tra i tre poteri. La sua assenza caratterizza le dittature, in cui chi esercita il potere si autolegittima, sia esso un monarca assoluto, un duce, un partito, o una maggioranza etnica che s’impone su una minoranza. La tecnologia dovrebbe valorizzare e non eliminare questa separazione tra legittimante e legittimato.

Ma perché questa separazione è così importante? Qui subentra un secondo errore diagnostico. La democrazia rappresentativa non è il sistema politico meno peggio – per dirla con Churchill. È il sistema politico che fallisce meglio di ogni altro perché si “rompe” nel modo socialmente più sicuro e costruttivo possibile. In altre parole è il sistema politico più “elastico” (resilient), non il più efficace. La migliore dittatura illuminata – intesa come qualsiasi sistema politico dove non c’è separazione tra legittimante e legittimato – funziona meglio della migliore democrazia rappresentativa, ma quando non funziona è un disastro irrecuperabile. E siccome negli affari umani gli errori sono inevitabili è con essi (con lo scenario peggiore, non con il migliore) che si deve fare i conti.

La politica è intrinsecamente fragile, quello che serve è un modo di governare che sia in grado meglio di ogni altro di autoripararsi quando si rompe. Per questo la cosa peggiore che si possa dire in politica non è «non funziona niente», ma «non c’è niente da fare». Purtroppo è proprio questo meccanismo di autoriparazione che si è rotto in Italia, basti pensare al problema della casta (termine usato in italiano da Castells) e della sua incolumità. Perciò è questo che dovremmo riparare, facendo forza su tutte le nostre risorse, anche tecnologiche – per esempio facilitando la partecipazione alla vita democratica, e aumentando la responsabilità e la trasparenza nell’esercizio del potere politico –, non il meccanismo di separazione tra legittimazione ed esercizio del potere, perché questo è necessario e funziona bene.

Come sconfiggere i populismi facendo i “populisti di governo”.

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LA RICETTA DI GIULIANO DA EMPOLI

Intervita di Mariana Rizzini – Il Foglio 16 dicembre

Roma. Come fiaccare il fantasma populista in Europa (nelle sue varianti “indignata”, “anti-immigrazione” e “anti-governanti”) è problema su questo e su quel confine del continente. Come addomesticare il bestione populista italiano, nella sua versione manettara, anticasta o anti-partitica, è stato “il” problema di ogni governo negli ultimi anni. Ora Matteo Renzi ha, a questo proposito, un cruccio ma anche un’opportunità

in più: il premier sembrava a un certo punto aver trovato “l’antidoto” al populismo attraverso un linguaggio e uno stile da “populista non antipolitico” ma “iperpolitico”, come dice il giornalista, scrittore e consigliere del renzismo Giuliano da Empoli. C’è stato insomma il Renzi “positivamente populista” della rottamazione, dei cronoprogrammi e delle riforme messe in primo piano; un Renzi ottimistico e motivatore che magari non scendeva nel dettaglio ma accarezzava per il suo verso la smania anti-elitaria del popolo del web e delle piazze non più così “NoB.”, ma comunque “no-partiti”. Poi però (vedi all’ultima Leopolda) ci sono giorni in cui improvvisamente spunta un Renzi travestito da populista “antipolitico”, tipo quello che fa la classifica dei giornali antipatizzanti. Ma per Da Empoli l’efficacia dell’“antidoto” anti-populismo distruttivo si giudica “sul lungo periodo”. Intanto, per mettere in cassaforte “l’energia” iconoclasta (rispetto a vecchi

stili e vecchie idee) su cui il renzismo ha basato la sua ascesa al potere, il giornalista- ideologo ha nnunciato, proprio alla Leopolda, la nascita di un think tank il cui nome richiama all’energia: “Volta”, come

Alessandro, lo scienziato “simbolo del genio italico”, dice Da Empoli, convinto che il nostro modello di crescita e sviluppo non sia quello della “start-up che nasce nel garage” ma quello di un processo di “reinvenzione creativa e trasgressiva che affonda nelle nostre radici culturali: un modello che può e deve essere proiettato sul palcoscenico europeo” (“Volta” avrà una sede a Milano e una a Bruxelles, e avrà come relatori, tra gli altri, il nome storico del blairismo David Miliband, il comunicatore cult dell’obamismo Alec Ross e il banchiere non convenzionale nonché editore di Le Monde Matthieu Pigasse). L’obiettivo è anche

andare al fondo del problema “populismo antipolitico”: “Si dice sempre che per sconfiggere il populismo ci vuole cultura”, dice Da Empoli, “ma l’idea culturale e politica di Winston Churchill – riunire i federalisti europei – non ha avuto molto successo, nel 1948. Né il Movimento federalista europeo è stato popolare nei decenni successivi. I populisti se la prendono con i tecnocrati, ma bisognerebbe invece dire che i tecnocrati sono stati geniali, a costruire da zero, partendo da interessi di base in comune – materie prime, commerci

– l’unione che mancava a livello politico” . L’approccio all’Ue va “reinventato” se si vuole andare alla base del malessere che poi facilita il dilagare del populismo, è l’idea alla base di “Volta”. E l’Italia può “valorizzare l’esperienza” fatta in questo senso durante i quasi due anni di governo Renzi, dice Da Empoli: “Gli stranieri guardano con ammirazione all’Italia dell’arte e del cibo, ma quando si passa alla politica

è come se si stesse parlando di insetti fritti thailandesi: nessuno ci capisce niente, tutti alzano le spalle. Invece la politica italiana è un laboratorio interessante: abbiamo intercettato negli ultimi anni tutte

le tensioni profonde che tormentano la società europea, le abbiamo viste esplodere a casa nostra in modo evidente. I populismi noi li abbiamo per così dire avuti tutti, e forse anche per questi motivi abbiamo

sviluppato più di altri gli anticorpi”. Clava e farfalla Ma se la forza del “populista di governo” Renzi è stato il lessico e il modo di veicolare il messaggio, non è che oggi alla macchina renziana serve il “tagliando”? Da

Empoli dice che quello che ha funzionato e può ancora funzionare è il modello “della clava e della farfalla”, in cui la clava è “la componente anti-establishment del renzismo, quella che dà una risposta al sentimento anticasta, l’onda più forte dietro ai populismi europei”. Populismi che vanno analizzati uno per uno: “Dove c’era una storia di governi di destra o di recente dittatura, come in Spagna o in Grecia, il populismo vira a sinistra; dove invece c’è una tradizione di governi statalisti e di sinistra, come in Francia, il populismo assume sfumature destrorse. Ma ovunque si cerca la persona ‘che mandi a casa tutti’ ”. Ma come gestire la clava quando si è al governo? “Può essere difficile nel giorno per giorno, ma l’intercettazione e la trasformazione costruttiva degli impulsi populisti in proposte mi pare l’unico metodo possibile”, dice Da Empoli. La “farfalla”, invece, è ciò che differenzia i populisti “iperpolitici” dai populisti che puntano su paura e ripiegamento: “Ci dev’essere una visione motivante del futuro. Non si può combattere il populismo con il ditino alzato, come si è visto spesso fare in Francia, con l’aria di dire: ‘Adesso vi spieghiamo che cosa

succede a votare quelli là’. Contro la paura e il ripiegamento è più utile dare l’idea del controllo o della riappropriazione del proprio destino, anche a livello di comunità politica: è ciò che l’essere umano

sempre cerca, e infatti la lotta antiestablishment diventa tanto più virulenta quanto più l’opinione pubblica ha la sensazione della perdita del controllo, un sentimento generalizzato in Europa”. L’antidoto al populismo, per Da Empoli, funziona se si tiene conto di questo sentimento. Poi c’è l’onda giustizialista che periodicamente e preventivamente sommerge i governanti, appendendoli a scandali spesso presunti. Ma

per quella, forse, l’antidoto non è stato ancora scoperto.Da Empoli

Il mercato delle case torna in segno positivo

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SI PREVEDE PER FINE ANNO UNA CRESCITA DEL 6%

Le compravendite 2015. Attesi 445 mila contratti

Paola Dezza – Il Sole 24 Ore 11 dicembre

Tempo di bilanci in questa fine d’anno, anche per il settore immobiliare. Ad aiutare nella lettura di un mercato residenziale che viaggia verso una fase di stabilizzazione, anche se a velocità ridotta, sono i dati di report e Osservatori. Ultimo lo studio di Moody’s che proprio questa settimana ravvisa nel settore delle compravendite di abitazioni in Italia segnali di uscita definitiva dalla crisi e avvio verso una fase di stabilità che caratterizzerà tutto il 2016, anche se permangono, a detta di Carole Bernard, vice president e senior analyst di Moody’s, alcuni problemi strutturali, dalla disoccupazione a una crescita della popolazione in contrazione.

La settimana scorsa erano stati, invece, i dati dell’agenzia delle Entrate sul terzo trimestre 2015 a decretare la ripresa delle compravendite di case, con scambi in aumento del 10,8% tra luglio e settembre, dopo un già positivo secondo quarter (+8,8% gli scambi su un anno prima). Segnali di rasserenamento, con i capoluoghi locomotive del recupero, ma non abbastanza forti da decretare una ripresa consistente del mercato. Deciso sarà l’ultimo trimestre, storicamente il più importante, dal quale si attende un segnale chiaro e definitivo sulla rotta intrapresa dal mercato.

«L’anno probabilmente chiuderà a quota 442mila compravendite – dice Luca Dondi, direttore generale di Nomisma -, con aumento del 6%, in un quadro che rimane complesso». Ben lontano dal picco del 2006 a circa 860mila contratti, ma anche al di sotto di quella soglia di 500mila transazioni che decreterebbe un buono stato di salute per il mercato italiano. Soglia di resistenza abbattuta dalla crisi. Nei primi nove mesi 2015 quindi le compravendite sono state 317.072 contro le 300.859 di un anno prima. A pesare sono ancora una volta l’andamento dell’economia, la disoccupazione e la fiducia dei compratori, a cui fanno da contraltare tassi di interesse decisamente appetibili e le quotazioni del mattone scese in maniera considerevole in questi quasi otto anni di crisi. Dove pende l’ago della bilancia? Dipende da necessità e aspettative del singolo, anche se in linea di massima gli italiani si stanno riaffacciando al mercato immobiliare, anche in un’ottica di investimento oggi che il panorama generale non offre altre asset class con rendimenti interessanti. Ma anche il mattone, bisogna ricordarlo, messo a reddito non rende più di un 2% netto, appesantito da tasse e spese di ordinaria e straordinaria manutenzione. Ma se da un lato la propria abitazione ha perso valore, e la mancanza di inflazione non aiuta a recuperarne, è anche vero che nel momento della vendita si cede a sconto ma si compra anche a prezzi più convenienti e il gap, soprattutto per chi cambia casa per allargare gli spazi, a volte è vantaggioso. Diverso è il discorso per seconde e terze case, un investimento che ha perso appeal e che oggi sconta anche tempi lunghi di vendita e prezzi in deciso calo.

Aumenta invece la presa che l’acquisto immobiliare ha sui giovani. Dai dati sull’incremento della domanda di mutui nei primi nove mesi 2015 emerge che si è verificata una vera e propria impennata nelle cittadine minori, da La Spezia a Vercelli e Siena. «Il dato sottintende una propensione all’acquisto – non sempre i mutui saranno stati poi accordati – nelle cittadine dove in media 60-70 mq costano 100mila euro – dice Mario Breglia, presidente di Scenari Immobiliari -. Qui anche un giovane al primo impiego può, con l’aiuto di gentiori e parenti, considerare l’acquisto con un mutuo la 40-50%. Nelle grandi città in media, anche in periferia, il costo minimo di 70 mq è di 200mila euro. Ma il reddito più o meno è lo stesso, cambia quindi considerevolmente il potere di acquisto». A Milano il dato si contrae (+57% la domanda di mutui nei nove mesi) perché spesso qui si acquista in contanti, una domanda di investimento che arriva da chi lavora in città o vi manda i figli a studiare.

«La domanda di mutui è un indicatore importante – dice Dondi -, ma se messa in relazione all’offerta di mutui, si mostra positiva ma inferiore rispetto al passato. L’aumento delle compravendite è infatti di entità inferiore. Anche se la componente di mercato sostenuta dal credito è cresciuta in termini di quota passando dal 45 al 55%».

M5S: le previsioni astrologiche del “sociologo portatile” di Repubblica

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Diamanti falsiNel mondo fumettistico immaginato e divulgato dalla Ditta Casaleggio & Associati, la concretezza dell’azione e della rappresentanza politica sfugge ai canoni interpretativi tradizionali in cui la mescolanza e contradditorietà dei dati amministrativi, sociali, economici, istitutuzionali costituisce il riferimento ed il misuratore del realismo e dell’efficacia delle scelte.

E conseguentemente non c’è da sorprendersi che gli obiettivi ed i programmi del Movimento 5 Stelle siano concepiti, filtrati e valutati attraverso la strumentazione della subcultura digitale, con cui i contenuti ed i risultati si possono far lievitare e sfumare con i clic registrati dal Grante Fratello Blog (indipendentemente dalla “firma” del Fondatore).

Ora sappiamo – inoltre – che, di fronte all’intensificarsi ed aggravarsi della temperie politica, sia sul versante della complessità delle questioni economiche ed istituzionali nell’agenda del Paese, che su quello – caldissimo – delle tensioni internazionali determinate dal terrorismo islamista, il comico genovese ha comunicato che preferisce rimpannucciarsi nel suo habitat naturale (il cabaret).

Ebbene, tutto ciò dovrebbe far dedurre che per gli aspiranti leader grillini il futuro si presenta nebuloso o quanto meno problematico; ma a confortarli ora interviene il “sociologo portatile” (copyright Ferrara) di Repubblica, il quale mette a punto delle previsioni rosee ed una prospettiva, oplà, da nuova classe dirigente, addirittura di governo (La mutazione genetica del Movimento cinque stelle: Di Maio ora è il leader, “Con lui governeremo”)!?

Davvero “sorprendente” il nuovo sondaggio (pubblicato ieri) di Diamanti che, pensate un po’, ci svela – oltre al fatto “naturale” che il M5S cresce ancora – che “otto su dieci eletttori, a differenza del 2013, si dicono interessati a Palazzo Chigi. Due anni fa gli bastava protestare” (sic!). Come dire: per due anni ci siamo divertiti a fanculeggiare tutti ed a sorvolare-cazzegggiare-astenersi-opporsi beatamente su quasi tutte le più rilevanti questioni sul tappeto, ma ora siamo pronti ad assumerci la responsabilità di governare!

Ma c’è davvero qualcuno che può ritenere verosimili e credibili interpretazioni e proiezioniche politiche che si avvalgono di sondaggi fondati sulla descrizione di una realtà virtuale, ri-costruita ad uso e consumo dei lettori di un giornale con la vocazione ad esercitare un preciso ruolo di orientamento nel mercato partitico?

Mi riprometto di ritornare sull’argomento; intanto mi piace condividere la conclusione di un caustico commento di Giuliano Ferrara, apparso oggi sul Foglio: “ C’è nell’aria un sapore di surrogato, un senso d’irrealtà organizzata e orchestrata da menti non proprio raffinatissime. Quando la pianterete di raccontare a sbafo la favola vincente dei grillini?”

Alessandro Baricco: «all’Europa manca una narrazione, scriviamo il sequel della sua storia»

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Il progetto lanciato dall’intellettuale e dalla Scuola Holden di Torino – di Alessia Rastelli /Corriere TV

La Lettura – 15 novembre

«Non abbiamo una buona storia da raccontare sull’Europa e quindi ci incartiamo su problemi politici, economici, burocratici» dice lo scrittore dalla Scuola Holden di Torino, di cui è preside . «Eppure – osserva – l’Europa nasce con una storia fantastica: diverse comunità che si sono macellate per secoli decidono, in tempi brevissimi, di diventare un unico organismo, facendo una scelta per la pace straordinaria». Per questo, quella «prima puntata» oggi andrebbe ripresa e ne andrebbe scritto il seguito. La Scuola Holden lo farà per un anno, lanciando il tormentone «Europa, the sequel». Il tema verrà discusso con gli studenti, invitando a dire la loro (e a scrivere) anche autori e politici, non per forza in base alla loro attitudine civile, ma piuttosto in base a quella per lo storytelling. «Renzi la possiede» ammette Baricco, mentre è scettico sulla possibilità di far partecipare al progetto un intellettuale come Michel Houellebecq: «Il suo ultimo libro, Sottomissione, è il romanzo di uno scrittore molto bravo ma non lo trovo bello né utile né intelligente».

 

http://video.corriere.it/alessandro-baricco-all-europa-manca-narrazione-scriviamo-sequel-sua-storia-l/3f07f7cc-8934-11e5-9216-e8e41772d34a

 

Per 900 parole in più

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Piero Martin    – lavoce.info   13.11.15

Permangono nel nostro sistema di istruzione marcate differenze sociali. Mentre restiamo indietro rispetto ai paesi più avanzati in termini di competenze e studi completati. Sono necessarie azioni più forti e continue. E un nuovo patto sociale che ridia dignità e valore alla scuola.

Don Milani sessanta anni dopo

“Un operaio conosce 100 parole, il padrone 1000. Per questo lui è il padrone”. Son passati sessant’anni da questa frase di don Lorenzo Milani, insegnante alla scuola di Barbiana.

Oggi come allora, però, quelle 900 parole contano, eccome. Il mondo è cambiato, ma le 900 parole che separavano l’operaio dal padrone sono ancora quelle che fanno la differenza tra un lavoro mal pagato e uno migliore.

Come scrive Gabriele Borg in un recente contributo su lavoce.info “negli Stati Uniti il reddito in termini reali di coloro che hanno un titolo di studio superiore al diploma è cresciuto del 90 per cento negli ultimi cinquanta anni, mentre per chi non ha completato le high school è diminuito del 10 per cento”. Per l’Italia stessa storia. Lo dice anche l’Istat nel suo documento su reddito e condizioni di vita nell’anno 2013, “Il reddito familiare cresce anche all’aumentare del livello di istruzione del principale percettore: le famiglie di laureati percepiscono mediamente quasi 38mila euro, cifra più che doppia rispetto a quella delle famiglie con principale percettore con basso o nessun titolo di studio (16.637 euro)”.

Ma non c’è solo il reddito, le 900 parole sono servono anche per essere più consapevoli dei propri diritti, per capire se un amministratore racconta fuffa, per difendersi da bufale e ciarlatani o per fare scelte migliori in tema di salute, alimentazione e stili di vita.

Studiare serve

Studiare fa vivere meglio, noi e gli altri. Ma ancora non ce ne rendiamo conto. Basti pensare che, stando ancora ai dati Istat su benessere equo e sostenibile, nel 2013 la quota di italiani con età tra i 25 e i 64 anni che hanno un diploma superiore era del 58,2 per cento, più di 15 punti percentuali in meno della media europea (pari al 74,9 per cento). E per i laureati il divario è ancor maggiore: 22,4 per cento in Italia, contro il 40 per cento europeo.

Se anziché di titolo di studio parliamo di competenze, le cose non vanno meglio. Come scrive il rapporto sul livello di competenze nei paesi Ocse, uscito pochi giorni fa, l’Italia è l’ultima tra ventitré nazioni per competenze “letterarie” (abilità nel leggere e scrivere), sia nella fascia d’età tra i 16 e i 29 anni che in quella tra i 30 e i 54. E non consola il fatto che per competenze matematiche siamo penultimi, di poco avanti rispetto agli Stati Uniti. Dimensioni e caratteristiche della nostra economia sono infatti tali che il nostro progresso non può che essere basato su attività ad alto valore aggiunto, dove le competenze sono necessarie.

Impari opportunità

In tema di istruzione permangono poi marcate differenze sociali. Quelle 900 parole sono ancora lì a differenziare le classi sociali e dicono che i ragazzi figli di genitori con titoli di studio più elevati abbandonano gli studi assai meno rispetto ai figli di chi ha frequentato solo la scuola dell’obbligo: il tasso di abbandono scolastico è infatti del 2,7 per cento per i figli dei laureati e del 27,3 per cento per i figli di chi ha la scuola dell’obbligo (fonte Istat, vedi figura 1). E ciò è vero anche in termini di mobilità verso l’alto. In media, nei paesi del rapporto Ocse “Education at a Glance 2014: OECD indicators”, un giovane tra i 20 e i 34 anni i cui genitori hanno un diploma di scuola media superiore ha una probabilità doppia di ottenere una laurea rispetto a chi ha i genitori che hanno frequentato solo la scuola dell’obbligo. Se i genitori sono laureati la probabilità diventa 4,5 volte maggiore. In Italia il divario diventa ancor più grande: i figli dei laureati hanno una probabilità ben 9,5 volte maggiore.

grafico-martinFigura 1 – Tasso di abbandono precoce del sistema di istruzione e formazione (sinistra) e quota di giovani che non lavorano e non studiano (destra) in funzione del titolo di studio dei genitori

Disegna la città e valuta l’impatto

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VISSalvatore Settis – Il Sole 24 Ore 8 novembre

 

Ogni mese (anche questo, anche il prossimo) cinque milioni di persone lasciano per sempre la campagna e migrano in città. Nel 1850 viveva in città il 3% della popolazione mondiale, oggi il 54%; il 70% nel 2030, secondo le previsioni: i due terzi dell’umanità. Nel 1950 le città del pianeta oltre il milione di abitanti erano 83, oggi sono più di 500, di cui sedici oltre i 20 milioni. In questa urbanizzazione a tappe forzate, più di un miliardo di esseri umani vive in slums, che talvolta coprono il 90 % di agglomerati che di “città” hanno solo il nome. Su questo sfondo, quale è il compito dell’urbanistica? È la dura domanda che corre in ogni pagina del nuovo libro di Franco La Cecla, Contro l’urbanistica (Einaudi). Ma si può essere, così senza mezzi termini, contro l’urbanistica o ancora Contro l’architettura (così un altro libro dello stesso autore, pubblicato da Boringhieri nel 2008)? La Cecla non è tanto ingenuo da voler negare l’intero percorso di una disciplina, ma ha il coraggio che basta per sfidarne l’incoerenza di fondo: in una epocale trahison des clercs, questa la tesi, l’urbanistica ha finito col considerare se stessa una disciplina al servizio del potere e non dei cittadini, barricata in un miope tecnicismo che mette alla porta la democrazia, sorda al degrado ambientale, incapace di rinnovarsi facendosi plasmare dai problemi della gente e del mondo. Da antropologo, ma ancor più da cittadino fra i cittadini, La Cecla percorre col suo sguardo inquieto un pianeta in ebollizione (acuti reportages di viaggio intervallano i capitoli del libro, portandoci da Giacarta a Minsk, da Fukuoka a Milano, e culminando naturalmente in Parigi) e ne misura la febbre, constatando la povertà delle risposte di tecnici e politici, la perversa tendenza a rimuovere la coscienza dei processi in atto o a leggerli sotto il segno di una pretesa necessità.

In una scrittura densa e impegnata, il plaidoyer di La Cecla si muove fra due poli, l’attualità e la storia. Sul fronte della storia, il suo argomento è difficile da contestare: Kropotkin, Geddes, Mumford concepirono l’urbanistica come osservazione simpatetica della convivenza dei cittadini entro le forme urbane, dove la regolazione della città sia pensata in funzione della vita quotidiana, anzi (diciamolo) della felicità dei cittadini. Il secondo Novecento vede gradualmente imporsi «una idea tutta tecnica dell’urbanistica», che ne annienta la matrice e la sapienza umanistica, «come se la fenomenologia urbana fosse tutta fatta di forme e non fossero invece importantissimi tutti i legami e le reti e l’invisibilità delle intenzioni di chi l’abita e di chi ci viene a vivere». Divenuta «l’ancella del formalismo architettonico», «l’urbanistica ha ucciso l’urbanità», è diventata «una specie di assistente dell’economia immobiliare». E qui La Cecla dispiega il suo controveleno, la vita quotidiana delle donne e degli uomini, «una forma di produzione di società, una morale per la vita di tutti i giorni, le routine, i ritmi quotidiani, i sogni collettivi». Al centro della sua proposta, il necessario rapporto fra il corpo del cittadino e il corpo della città, un «abitare i posti» che voglia dire usare la città e non consumarla né esserne consumati. Risuona qui, anche se La Cecla se ne distanzia, il modello della città come luogo supremo di «produzione dello spazio sociale» di Henri Lefebvre, con la connessa tematica del diritto alla città che innerva le tante manifestazioni di piazza di questi anni. Il Droit à la ville di Lefebvre, pubblicato pochi mesi prima che esplodesse il Maggio francese (1968) fu il vero e proprio annuncio della categoria dell’“urbano” come strumento descrittivo e interpretativo di una fase storica in cui la città tende a identificarsi con la forma complessiva della società, secondo The World City Hypotesis (John Friedmann, 1986), che somiglia sempre più all’ecumenopoli di Asimov, una sola città di quaranta miliardi di abitanti che copre l’intero pianeta di Trantor.

L’urbanistica al servizio di voraci developers, ci ricorda La Cecla, è incapace di contrastare le formidabili mutazioni interne che caratterizzano la città di oggi e di domani: l’esplosione delle periferie e l’obesità delle megalopoli, la mercificazione dello spazio in estensione (urban sprawl) e in altezza (il vertical sprawl che Vittorio Gregotti ha chiamato “grattacielismo”), la gentrification che scaccia i meno abbienti dai quartieri più appetibili (al tema è dedicato un recente libro di Giovanni Semi, appena pubblicato dal Mulino: Gentrification. Tutte le città come Disneyland?). Nuove divisioni urbane, basate sul censo, si insediano nelle città. La transizione da città a paesaggio, che fu storicamente una sorta di cerniera, cede il passo a feroci confini intra-urbani, caratterizzati dalla segmentazione della società, da spazi di esclusione, controllo delle libertà e limitazione dei diritti. L’urbanistica «che si occupa di separare, zonizzare, controllare, chiudere dietro cancelli i ricchi e le classi medie e dietro paraventi di lamiera gli slums» è una disciplina che ha rinnegato se stessa, disumanizzandosi fino al punto di negare all’agricoltura il diritto di esistere (a meno che non sia l’intensivo land grabbing di immensi neo-latifondi): «la città non ha più bisogno di una campagna né di una natura dove vengano prodotte le risorse per la sua sopravvivenza».

Mettendo al centro le pratiche di vita quotidiana delle comunità urbane e il ruolo essenziale dell’agricoltura nella vita economica e civile, il libro di La Cecla è un forte richiamo alla responsabilità degli urbanisti (e dei politici) e perciò rivendica l’urgenza di una “valutazione di impatto sociale” (Vis) delle pianificazioni urbane, raccomandata dalla Commissione Europea ma di là da venire in Italia. La Cecla ha fiducia nella riqualificazione dell’urbanistica sulla base di una corretta e non burocratica applicazione della Vis: prova ulteriore, se ve ne fosse bisogno, che la sua non è una cieca invettiva contro l’urbanistica, ma anzi si propone come manifesto per una nuova urbanistica, non solo tecnica ma storica, ecologica e antropologica, una “scienza umana” oggi più necessaria che mai.

Franco La Cecla, Contro l’urbanistica. La cultura delle città , Einaudi, Torino,

pagg 158, € 12,00

SVILUPPO SOSTENIBILE: le scelte saranno sempre più radicali

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di Gianni Silvestrini* – 10 Novembre 2015Il Sole 24 Ore

Parigi KyotoIl primo importante risultato che l’appuntamento di Parigi sul clima ha ottenuto, prima ancora di iniziare, è la definizione da parte della maggioranza dei Paesi di propri impegni di contenimento dei gas climalteranti. Un dato non banale, visto che solo fino a un anno fa importanti responsabili delle emissioni evitavano di esporsi, considerando prioritarie le riduzioni dei Paesi industrializzati. Uno degli elementi più delicati che influenzerà le scelte finali di molti Paesi in via di sviluppo e la possibilità di raggiungere risultati più ambiziosi riguarda l’effettiva disponibilità delle risorse, 100 miliardi di dollari all’anno dal 2020, che dovrebbero servire sia a ridurre le emissioni che a difendersi dagli impatti dei cambiamenti climatici che inevitabilmente colpiranno maggiormente le aree più deboli.

Resta comunque da chiedersi se questi obiettivi di contenimento dei gas climalteranti siano coerenti con un percorso che eviti conseguenze catastrofiche. Una sfida non banale che implicherebbe una riduzione di un terzo delle emissioni pro capite al 2030, con una netta inversione rispetto al passato. Sulla base delle indicazioni dei 155 Paesi responsabili del 90% delle emissioni climalteranti, l’aumento della temperatura media a fine secolo sarà di 2,7 °C rispetto al 1750. Non siamo ai 2 °C che sarebbero necessari, ma si intravvede finalmente la possibilità di centrare l’obiettivo.

Peraltro l’irruzione di alcune “disruptive technologies” come il fotovoltaico o i veicoli elettrici consentirà di accelerare la decarbonizzazione di importanti economie. Prendiamo il caso della Cina che si è impegnata a raggiungere il picco delle emissioni nel 2030. La rapidità dei cambiamenti in atto, segnalati dal taglio del 6% del consumo di carbone nella generazione elettrica negli ultimi 12 mesi, potrebbe consentire di anticipare la riduzione strutturale delle emissioni climalteranti già tra il 2020 e il 2025. E una analoga riflessione vale per l’India dove stanno decollando impressionanti programmi di crescita delle rinnovabili.

Ma anche sul fronte dei Paesi più virtuosi si moltiplicano le decisioni volte a rendere sempre più incisive le riduzioni di gas climalteranti. È il caso di Danimarca e Svezia che hanno deciso di diventare totalmente “fossil free”, o di Buthan e Costarica che vogliono addirittura anticipare al 2030 la fuoriuscita dai combustibili fossili.

Altri due elementi consentono di sperare in un’accelerazione della battaglia climatica. Da un lato cresce costantemente il numero delle città impegnate dal basso nella definizione di politiche per ridurre le emissioni, dall’altro molte imprese considerano sempre più seriamente la sfida climatica adottando un valore della CO2 nelle proprie scelte strategiche.

Insomma, Parigi rappresenterà un significativo passo in avanti, cui seguiranno, sotto l’incalzare degli impatti climatici, decisioni sempre più radicali, come l’adozione da parte di un crescente numero di Paesi di strumenti per penalizzare la produzione di CO2.

*Direttore scientifico Kyoto Club

Sharing economy, la via italiana ha un’anima sociale

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Alessia Maccaferri – Il Sole 24 Ore – 8 novembre

Sharing economyVocazione territoriale e cultura: le piattaforme sperimentano nuovi settori, modalità di business e prove di alleanze

Sarà che l’onda alta della sharing economy si è abbattuta tardi sulla penisola, sarà che l’Italia ha un forte tessuto sociale. In ogni caso la via italiana dell’economia collaborativa mostra una particolarità: una adesione ai valori identitari come la sostenibilità e il sociale. In controtendenza rispetto ad altri paesi in cui la vocazione prevalente è quella dei servizi on demand, che consentono di abbattere i costi e aumentare i profitti, in Italia si tentano di percorrere anche altre strade più vicine al peer to peer (l’uguaglianza tra pari), alle collaborazioni, a modelli di business alternativi.

Innovazione sociale sui territori

La nuova mappatura 2015 della sharing economy in Italia – curata da Collaboriamo.org, in partnership con Phd Italia, che sarà presentata domani a Sharitaly, la manifestazione che si svolgerà a Milano nella settimana dell’economia collaborativa – mette in luce un fenomeno particolare, a cominciare dal settore del turismo. Su 118 piattaforme mappate (escluse quelle di crowdfunding) 22 lavorano in questo comparto. Accanto ai grandi player stranieri per l’ospitalità temporanea come AirBnb, si moltiplicano quelle piattaforme (Curioseety, GoCambio, Guidemeright, Native Cicerone, PiacereMilano, Tourango, Zestrip) che facilitano l’incontro tra i turisti e gli abitanti dei luoghi che vengono visitati. Non solo. Ci sono esperimenti come StanbyMi che cerca di coniugare l’offerta ricettiva con le guide turistiche. Fenomeno inedito anche le piattaforme dedicate alla cultura del tutto assenti nella mappatura dell’anno scorso. Sono una decina e vanno dallo scambio di libri (Comprovendolibri, Green books Club), alla relazione tra persone con la stessa passione (Appboosha, Biblioshare, SuperFred), dall’organizzazione di spettacoli (Teatroxcasa) alla mappatura condivisa di luoghi, persone ed eventi culturali (Openculture Atlas). «Emerge un’attenzione a settori che sono particolarmente vocati al territorio e alle comunità locali – spiega Marta Mainieri, coordinatrice dell’indagine – a conferma di una certa tendenza di tipo sociale che valorizza lo spirito di condivisione della sharing economy. E la cultura diventa un’esperienza sociale mediata dalle piattaforme collaborative digitali». Inoltre nell’augurarsi che la sharing economy cresca, molte delle persone intervistate auspicano che questo avvenga senza che si perdano i valori fondamentali di condivisione, di creazione di comunità, di definizione di nuovi stili di vita più sostenibili.

Collaborazioni e business

Le piattaforme cercano alleanze. Il 42% ha stretto accordi con servizi collaborativi complementari ma, timidamente, si gettano ponti anche con enti pubblici (Comuni, enti per il turismo, biblioteche) o con associazioni (Croce Rossa Italiana, Arci, Slow Food, Altroconsumo, ecc). «Si cercano contatti all’esterno, le piattaforme vivono una condizione di solitudine – commenta Mainieri – . Manca un ecosistema, qualcuno che si faccia promotore di una cultura di sistema». L’altro aspetto interessante riguarda i modelli di business. Un terzo delle piattaforme collaborative utilizza un modello classico, adottato da AirBnb O Blablacar: la percentuale trattenuta sul transato, con un valore medio tra i 5 e i 50 euro. Eppure questo modello è in calo (del 40% sul 2014) a vantaggio dell’abbonamento (dal 9 al 12%), la pubblicità (dall’11% al 14%) e soprattutto ad accordi con grandi marchi e sponsorizzazioni (dal 9 al 23%). «Esistono anche altre forme di revenue per le piattaforme come per esempio le consulenze e la vendita di servizi o prodotti alle imprese, ma anche monete virtuali e crediti» si legge nell’indagine. «L’obiettivo di incidere nel sociale, di portare innovazioni, di immaginare stili di vita sostenibili caratterizza diverse piattaforme – aggiunge Mainieri -e lo rileva anche dal fatto che stanno sperimentando modelli di business differenti».

Mercato

I settori che restano più attivi sono i trasporti (19% sul totale) , il turismo (15%)e lo scambio (affitto, vendita) di beni di consumo (15%). I rimanenti comparti sono tutti sotto il 10 per cento. Quanto il mercato italiano della sharing economy si mostra interessante e maturo dal punto di vista della sperimentazione, tanto è acerbo, dal punto di vista quantitativo ed economico . La maggior parte delle piattaforme (69%) ha meno di mille scambi mensili e solo cinque hanno più di 30mila scambi. E questo nonostante gli utenti mensilmente attivi siano in crescita: le piattaforme con più di diecimila utenti passano dal 19% del 2014 al 39% di quest’anno. Scarsi gli investimenti nell’ambito del marketing.

fiducia ed ecosistema

Solo per il 16% degli intervistati durante la mappatura considera prioritaria la definizione di nuove norme. In realtà la prima difficoltà, secondo i protagonisti del settore, è «la scarsa cultura della condivisione e la mancanza di fiducia da parte del mercato (ben 22 risposte su 45 vertono su questo tema)» si legge nell’indagine. Paiono quindi insufficienti a dare fiducia i sistemi di feed-back di cui sono dotate 46 piattaforme su 55, che si basano principalmente sul rating e review (88%) ma che spesso abbinano anche la convalida del profilo utente con i social network (41%) e la scannerizzazione del documento di identità (17%). Tra le altre difficoltà si segnalano quelle relative al digital divide, alla scarsità di competenze adeguate e di accesso al credito.

Infine «la mancanza di un ecosistema favorevole, sia istituzionale che normativo, allo sviluppo delle diverse iniziative – si legge nella indagine – è percepito come un problema tanto che le piattaforme si auspicano “un progressivo consolidamento e riconoscimento delle varie iniziative” e che venga predisposta “una regolamentazione del settore che non soffochi le iniziative nate”».