Come era ampiamente prevedibile, il referendum veneto per l’autonomia sta diventando un evento che mette a dura prova la volontà e capacità del sistema regionale dei media di contrastare la folata di fake news che lo sta avvolgendo e che alimenta la riconoscibile fenomenologia (stavolta anzitempo) del wishful thinking, virus che colpisce stagione dopo stagione i veneti, senza che per l’epidemia da esso provocata – sotto forma di annebbiamento etico-civile – siano trovati dei rimedi efficaci.
E tale ventata si manifesta principalmente (anche questo non è una novità) attraverso la spudorata e menzognera campagna di propaganda politico-elettorale inaugurata dal Presidente Zaia, finalizzata – con la sistematica manipolazione del suo significato e del suo impatto – a bypassare il vincolo procedurale sia del corretto confronto con la – peraltro timida – opposizione in Consiglio Regionale che, ancor più grave, del negoziato sui contenuti dell’effettivo-praticabile aumento di responsabilità regionali indicato e ripetutamente proposto dal Governo.
Ho avuto modo di analizzare la strategia della zaiazione (neologismo di cui siamo debitori e grati a Francesco Maino) in corso, in particolare con diversi documenti (per i quali rinvio alle rubriche del mio Blog: www.dinobertocco.it) che costituiscono anche la premessa e la motivazione culturali che hanno convinto me e Marcello Degni ad inoltrare al TAR del Veneto ed al Tribunale Civile di Venezia il ricorso:
“per l’annullamento, previa sospensione dell’efficacia,
del Decreto del Presidente della Giunta regionale n. 50 del 24.4.2017, pubblicato sul BUR del Veneto n. 52 del 26.5.2017, di indizione del referendum consultivo di cui alla legge regionale 19 giugno 2014, n. 15 “Referendum consultivo sull’autonomia del Veneto”; nonché, per quanto occorrer possa, della Deliberazione della Giunta regionale del Veneto n. 315 del 15.3.2016, di avvio del negoziato con il Governo al fine del referendum regionale per il riconoscimento di ulteriori forme di autonomia della Regione Veneto”.
Ho ben presente il sofferto dibattito politico in corso sul SI-NO-MA-FORSE-astensione, ma avendo dedicato la mia vita di impegno sociale, professionale, culturale al progetto federalista fondato sulla riorganizzazione ed efficientamento burocratico-amministrativo della Stato centralista, contestuale all’allocazione di nuove competenze e risorse finanziarie alle Regioni fondata sui valori fodanti di un nuovo Patto istituzionale nazionale, mi è impossibile tollerare l’imbroglio che è stato ordito ai danni dei nostri concittadini veneti che, nel lungo, sofferto e tortuoso cammino storico che li ha portati a condividere il sentiment nazionale, si sono sempre dimostrati “italiani critici ed esigenti, ma non renitenti”.
Il testo del ricorso che, al di là degli effetti che si prefigge, focalizzando i vizi, le storture e le contraddizioni sul piano giuridico dell’iniziativa della Giunta regionale, rappresenta anche un documento che accredita ed illustra esaurientemente la gestazione di una colossale truffa politica.
Su di essa il tempo a venire diventa una risorsa limitata e preziosa per realizzare un serrato dibattito ed un fondamentale coinvolgimento dell’opinione pubblica, reso possibile da un’attività giornalistica che da un lato scavi sotto la superfice della documentazione contrabbandata per comunicazione istituzionale dagli Uffici di Palazzo Ferro-Fini e Palazzo Balbi e dall’altro scruti senza timori reverenziali nel torrenziale flusso degli interventi sui social del Presidente Zaia e denunci la prevalenza della demagogia e del vaniloquio con cui egli sfugge alla funzione istituzionale che gli compete e lancia messaggi tra l’irresponsabile (no alla vaccinazione obbligatoria) ed il comico (entusiasmo per la celebrazione della “festa degli omeni”, rito tribale che si perpetua in qualche contrada trevigiana).
A tal proposito mi piace segnalare che Paolo Pagliaro, nel volumetto che ha appena pubblicato (Punto. Fermiamo il declino dell’informazione), sostiene che, colonizzato dai social network, il terreno dell’informazione è minato da «post-verità». “Contano più le emozioni che i fatti. Più le suggestioni che i pensieri. Più lo storytelling che le storie. Più la propaganda che le notizie. E dunque più le bugie che il racconto veritiero dei fatti. È un virus che infetta la rete, l’informazione, la politica – ridotta a comunicazione – e l’etica pubblica”. Ma arginare e sconfiggere questa deriva, secondo Pagliaro, si può.
Un terreno importante di chiarificazione è quello storiografico: che correlazione può esistere tra la battaglia dei Padri veneti che si sono prodigati per un impianto federalista del Paese, da Paleocapa a Trentin, che nella fase fondativa della Regione si sono dati uno Statuto esemplare ed hanno avviato una ricca stagione di Programmazione, che corso degli anni ’90 hanno rilanciato la progettualità di un Regionalismo forte, integrato dalla funzione basilare dei Comuni (che ha trovato un’importante sedimentazione nella Legislazione nazionale e nella stessa Riforma Costituzionale del 2001) e la demagogia con cui viene presentato il referendum imbroglio?
Inoltre, andrebbe indagato con rigore e denunciato il grottesco balletto con cui, nel ventennio dell’egemonia forza-leghista e lega-forzista, gli aspiranti Dogi della neo-Serenisima (Galan e Zaia) hanno interpretato il ruolo maramaldesco dei rivendicatori della maggiore autonomia solo in funzione antigovernativa, privi di un reale interesse ed impegno per conseguirla realmente e pronti a dismettere i panni indipendenti non appena fosse cambiato il quadro politico nazionale e/o si è presentata l’opportunità di uno strapuntino governativo.
Si pone quindi un interrogtivo basilare: può il buon latte del tradizionale regionalismo veneto, che ha consentito di inverare una via originale allo sviluppo in-con-per l’Italia, essere miscelato con il velenoso liquido della predicazione indipendentista leghista? Evidentemente si tratta di una pericolosa e dannosa contaminazione, eppure nella discussione e negli orientamenti pubblici emergenti (sicuramente in Rete, ma anche nella stampa e nei talk show) sembra che ne possa sortire una sorta di nuova bevanda, dil “cappuccino democratico”!
Anime belle e buoni samaritane/i dovrebbero riflettere sul fatto incontrovertibile che il 22 ottobre prossimo, se il ricorso per la sospensione del referendum malauguratamente non venisse accolto, sarà in gioco esclusivamente il livello di consenso che il Presidente Zaia potrà raccogliere sulla scommessa della “rivincita storica” contro “l’annessione delle Province Venete al Regno d’Italia”, mirante ad avviare ”la pacifica e democratica marcia di liberazione veneta che tanto è in sintonia con quelle basche e bretoni, catalane e curde, maori e mapuche, quèbecois e quechua, denigrata e diffamata come fosse oscurantista, folclorica e passatista” (dalla Prefazione di Franco Rocchetta – aspirante Ministro naif della Cultura veneta – alla Pubblicazione degli Atti su “1866… 150 anni dopo” edita dal Consiglio Regionale del Veneto.
Si sta configurando e concretizzando infatti quella strategia per niente sognante della “Piccola patria” che è stata perseguita con coerenza dalla Lega ed efficacemente tratteggiata in un articolo di Umberto Curi, intrisi di sdegno e tristezza, ma soprattutto di un lucido realismo.
Il paradosso che la società veneta sta vivendo è che – a parte la componente facinorosa dei descamisados indipendentisti – la maggior parte di chi è interessato alla campagna referendaria, anche in ragione dell’informazione superficiale ricevuta, le attribuisce un valore simbolico-nostalgico riconoscendone, inoltre, una motivata giustificazione, inscenando così un colossale misunderstanding: la mistificazione del fake referendum – in questi tempi di banalizzazione social – è comprensibile per un pubblico disattento, ma diventa sconcertante se se sono vittime (più o meno consapevoli) rappresentanti politici (in particolare dell’opposizione) e/o Sindaci, ma anche esponenti delle Associazioni, delle Professioni, della Cultura, ai quali sarebbero richieste le doti del realismo competente e della capacità critica.
Tutti questi uomini e donne pubblici veneti dovrebbero sapere e denunciare un paio di cose:
1) lo stato reale della governance e della qualità della struttura pubblica regionali evidenziano un declino inesorabile, proprio a cominciare dall’avvento della Presidenza Zaia, testimoniato anche da diagnosi che sono formulate da professionisti informati sui fatti per conoscenza ed esperienza diretta;
2) il negoziato tra Regione e Governo (qualsiasi Governo) per l’attuazione dell’art. 116 c. 3 della Costituzione presenta un livello di complessità e difficoltà così elevate che avviarlo con l’approccio conflittuale significa volerlo sabotare e/o farlo naufragare. Ne rappresenta una conferma indiretta l’iniziativa messa in campo dal Presidente della Giunta Emilia-Romagna Stefano Bonaccini attraverso una procedura che costituisce un ottimo documento di riflessione per tutti coloro che si stanno interrogando su quale sia una via realistica e proficua per irrobustire l’autonomia regionale.
Gli autentici e sinceri riformisti debbono assumere la consapevolezza che l’evento referendario è correlato (sia in caso che venga celebrato o venga annullato) soprattutto al virtuosismo dei giuristi che lo hanno sostenuto o contestato, ma che la vera sfida in campo oggi è la riproposizione di un autentico progetto incardinato sul federalismo antropologico dei veneti, che non ha nulla a che fare con le aberrazioni storiche sulla Serenissima, né con il secessionismo camuffato, bensì con la cultura della sussidiarietà-responsabilità-solidarietà.
Tale retroterra è robusto perche storicamente fondato sull’opera feconda di molti protagonisti politici, su testi, testimonianze, opere che oggi si debbono tradurre in programmi concreti di rafforzamento dell’economia sociale di mercato i cui protagonisti sono le Imprese manifatturiere e del Terziario sgravate dalla pressione fiscale, Comuni ed Enti ristrutturati-efficientati e ri-finanziati (seconso l’auspicio formulato anche dal Sindaco di Vicenza e Presidente dell’UPI, Achille Variati), il Terzo settore riorientato al nuovo welfare ed all’economia circolare, il Credito locale riportato alla sua funzione originaria, i soggetti professionali ed imprenditoriali della rigenerazione culturale e digitale…
Alla Regione, dentro questo processo di autentico Rinascimento veneto deve essere assegnata la funzione eminentemente politica di elaborazione, programmazione e promozione strategica focalizzate sulle questioni cruciali dell’innovazione, infrastrutturazione, salvaguardia ambientale, governo degli squilibri sociali e territoriali, connessione con l’Europa….
Ed il negoziato Regione-Governo deve costituire l’occasione per mettere sul tavolo dossier, budget, obiettivi e piani operativi che rendano comprensibili ai cittadini veneti le procedure, i risultati, le convenienze: non la fuffa rivendicazionista che divulga pregiudizi, favole, rancori, bufale, illusioni e che è destinata a far naufragare il processo federalista curvandolo a diventare strumento per attaccare il Governo (“il nemico è a Roma”) e non invece – come dovrebbe essere – per implementare le risposte in termini di servizi da dare ai cittadini veneti, in coerenza anche con le innovazioni pur avviate in Veneto in materia di Sanità (vedi progetto Azienda Zero), di Istruzione e Formazione (vedi recente approvazione di una buona legge).
Se l’onesta prospettiva della “collaborazione leale” dovesse essere sacrificata sull’altare della strumentalizzazione politico-partitica, il Veneto verrebbe esposto all’ennesimo collasso reputazionale: così come per la dopatura delle azioni bancarie delle Popolari, anche il referendum farlocco sarebbe associato ad un ceto politico regionale menzognero ed indegno di essere preso in seria considerazione, oltretutto in preda (almeno per quanto riguarda la componente leghista) alla schizofrenia provocata dal militare in un Partito guidato da un lepenista, neopatriota nazionalista….
Anche in conseguenza delle considerazioni finora esposte, l’intendimento della presentazione del ricorso è non solo di fermare sul piano giuridico un’iniziativa improvvida, ma anche di indicare un nuovo orizzonte politico-culturale, ovvero la progettazione condivisa di un’inedita, realistica e proficua maggiore autonomia per una Regione che si deve attrezzare per esercitarla, chiudendo la stagione della predicazione e del velleitarismo sterili.
Il senso di Bettiza per la libertà non tramonterà
Nel giorno della dipartita, pubblico una sua intervista di qualche tempo fa in cui ci regala una personalissima capacità di illuminare le oscurità della storia che ha attraversato presidiando la propria identità e indicando a tutti noi una testimonianza di stile, orgoglio, sincerità
di ANTONIO GNOLI – 4 gennaio 2015 –
Enzo Bettiza: “Vengo da un mondo che non c’è più, con la parola ho difeso la mia identità”
Esule, sopravvissuto, pittore mancato, è stato contrabbandiere e venditore di libri. Poi sono arrivati i romanzi, il giornalismo e la politica. Insieme a un’ossessione: fermare il comunismo
NONOSTANTE viva nella fluviale evocazione di un passato che non passa, Enzo Bettiza, classe 1927, dice di fregarsene dell’anima slava. E io che gli siedo di fronte penso che sia vero e che in lui non ci sia nulla di dissipativo, di incauto, di nostalgico. I suoi pensieri sembrano uscire da qualche porta laterale della Mitteleuropa. Mi ricordano quei personaggi dostoevskiani ammaestrati da una sobria e distaccata vecchiaia. Come quella di Peter Jarkovic, protagonista del suo ultimo romanzo: La distrazione, dove ancora una volta egli rilegge il secolo che si è chiuso: “Come fosse un dono, una tragedia, un’ossessione da ripercorrere con la parola scritta”, precisa con voce scandita.
Una parola scritta e divisa tra romanzo e giornalismo. Quale ha contato di più?
“Non farei una distinzione, se non di genere. Per un esule, quale sono stato, la parola era il solo modo per difendere la mia identità. Sono nato a Spalato. Ho avuto un’infanzia privilegiata. La famiglia era ricca. Un nonno industriale del cemento. Poi la guerra. I rivolgimenti. La rapida fine di un mondo. Il mio mondo. Conoscevo il tedesco, il croato, l’italiano. In casa si parlava veneto. La Dalmazia aveva avuto una lunga storia con Venezia. La marina della Serenissima era composta di istriani e dalmati. Mi affascinavano le mescolanze di lingue, di storie e di uomini. Poi la felicità venne meno. Mi ammalai. Scoprendo, improvvisamente, il senso della precarietà“.
Ti ammalasti di cosa?
“Polmoni. Restai a letto durante tutta la primavera e l’estate del 1942. Tra la vita e la morte. Avevo 15 anni. Lessi Delitto e castigo . La febbre mi divorava. Alla fine il dottor Janovic riuscì a curare la pleurite. L’ultima volta che lo vidi mi disse: dovresti leggere Tolstoj. Lascia Dostoevskij ai desideri più complicati. Avrei scoperto in seguito il senso di quella frase “.
Avevi una vocazione letteraria?
“Non so cosa avessi. Sentivo che la morte mi aveva sfiorato. Ero un sopravvissuto. Altre prove sarebbero giunte negli anni successivi“.
Quali?
“La guerra in un miscuglio di orrori aveva travolto villaggi e città. Portammo le nostre cose, quel poco che restava della florida attività imprenditoriale, fuori dall’influenza comunista. E di Tito. Furono mio padre e mio fratello a prendere la decisione di trasferirsi in Italia. Mia madre e mia sorella si adeguarono. A me, sinceramente, non interessava impegnarmi nel loro lavoro. Vidi nella mia famiglia, che era stata per lungo tempo importante, i rovesci della fortuna e i tratti del fallimento“.
Cosa facesti?
“Il mio sogno era dipingere, disegnare. Mi ero messo in testa di voler conoscere De Chirico, anche lui, a suo modo, un esule. Arrivammo a Bari. Ci misero in un campo profughi allestito dagli inglesi. Fu dura. E quando da Bari mi trasferii a Roma riuscii a iscrivermi all’Accademia delle Belle Arti. In quel primo anno di frequentazione notai una figura femminile piuttosto procace. Una bellezza pop con un codazzo di giovani appresso. Seppi in seguito che era Gina Lollobrigida“.
Tentasti qualche approccio?
“No, la mia vita si stava avvitando dentro altri problemi. Quegli anni sono stati insieme avvilenti ed esaltanti. Vivevo di espedienti. Risalii verso il Nord. Ho fatto di tutto per sopravvivere. Sono stato contrabbandiere e venditore di libri a rate. Divenni perfino comunista. Da quell’esperienza trassi il mio primo romanzo La campagna elettorale. Fu accolto in maniera contrastata. Remo Cantoni, Dino Buzzati, e lo stesso Franco Fortini, per ragioni diverse, ne furono entusiasti. Giacomo Debenedetti ne parlò malissimo. Vittorini fu incerto“.
Che anno era?
“Gli inizi dei Cinquanta. Mi ero trasferito a Milano dopo un breve periodo trascorso a Trieste. Nel 1953 morì Stalin e quell’anno entrai a lavorare a Epoca. L’anno dopo passai a La Stampa : non fu una cosa semplice perché tutt’altro che semplice si rivelò il suo direttore“.
Chi?
“Giulio De Benedetti. Un uomo di talento. Di grande intuito e dal giudizio impietoso. A me ricordava certi autocrati blindati da un’intelligenza scarna e diffidente. Sapeva essere sarcastico come pochi. La volta che mi spedì un telegramma, per aver io ritardato la trasmissione di un pezzo da Vienna dove ero corrispondente, ne ebbi la conferma“.
Cosa diceva?
“Lei non solo non sa scrivere, non sa neppure telefonare. La prego da ora in poi di inviare per posta i prossimi servizi “.
E tu?
“Incassai e mi attenni alle direttive. Dopo un po’ fui spedito a Mosca come corrispondente. Ci rimasi quattro anni. De Benedetti insistette che prolungassi la permanenza. Gli risposi che volevo cambiare aria. Mi licenziò. Per fortuna che Alfio Russo, direttore del Corriere della Sera, si era interessato al mio lavoro di inviato. Uomo affabile, Russo. All’opposto di De Benedetti“.
De Benedetti ebbe fama di essere stato un grande direttore.
“Lo era. Chi può contestarlo? Fu incalzante e spietato. Riuscì a far piangere un uomo tutt’altro che lacrimevole come Enzo Biagi. E quando troncò il rapporto con me provai un certo smarrimento“.
Che superasti in che modo?
“La vita a Mosca aveva i suoi lati piacevoli. Conoscevo artisti, pittori, poeti. Frequentavo quel sottobosco aristocratico che era sopravvissuto alle ingiurie della storia. Essendomi stato tagliato lo stipendio finii per un breve periodo in una casa, un tempo fastosa, abitata da una ex contessa e da sua figlia“.
Si dice che tu fossi prodigo di attenzioni per entrambe.
“Non so chi abbia messo in giro questa voce. Ma è infondata. Ricordo solo il clima plumbeo della città. Krusciov stava per saltare e avremmo detto addio a qualunque apertura. Rammento la triste atmosfera in casa del pittore Ilya Glazunov la sera prima della partenza. Qui per tanto tempo si era svolta la parte interessante della vita moscovita. Gli incontri con intellettuali e donne fascinose. Fu in una di quelle sere che il mio amico Frane Barbieri si invaghì di una donna bellissima che sarebbe diventata sua moglie“.
Barbieri era un dalmata come te.
“Sì, di famiglia aristocratica. Ci conoscemmo proprio a Mosca. Frane è stato uno dei più grandi esperti del comunismo internazionale“.
A quale scuola apparteneva?
“Ti risponderei alla scuola della vita. Ma poi c’era l’intreccio di amicizie e conoscenze. Fejto, il grande giornalista e storico ungherese. Aron con le sue lucide analisi. Revel con il suo afflato umanistico“.
È l’identikit del conservatore illuminato. Quanto ti riconosci?
“Pienamente. Ma dovrei aggiungervi gli amici di strada: Piovene, Buzzati, l’esperienza con Tempo presente alla cui direzione ci furono Nicola Chiaromonte e Ignazio Silone“.
Due figure straordinarie ma assai diverse. Non trovi?
“Chiaromonte era di una severa onestà. Non l’ho mai visto abbandonarsi a nessun trucco falsificante. Silone era molto più enigmatico. Più nell’ombra“.
Cosa pensi dell’accusa di Silone spia dei fascisti?
“Penso che fu una persona profondamente onesta, ma anche turbata dai fatti che toccarono la sua famiglia. In particolare la morte del fratello – più giovane e adorato – in un carcere fascista, fu un dolore vissuto come una colpa, che non riuscì mai a superare. Non credo che con queste premesse potesse essere un collaboratore dell’Ovra. Semmai un “doppiogiochista” come disse Fejto“.
Non hai mai citato Montanelli.
“È stata una parte della mia vita. Si conosce tutto del nostro rapporto professionale: il Corriere, l’avventura al Giornale , il nostro divorzio. La riappacificazione“.
Privatamente e umanamente che giudizio dai di lui?
“Nei rapporti umani Indro sapeva essere gradevole, multiforme, mercuriale e forse proprio per questo bugiardo e sfuggente nell’intimo dei suoi pensieri“.
Un pregio o un difetto?
“Non lo definirei un pregio. Per tutta la vita ho sempre cercato di combattere ciò che snaturava l’anima, fosse di un giornale o di una persona“.
Alludi al tuo distacco traumatico dal Corriere?
“Una vicenda particolarmente dolorosa ma necessaria. Piero Ottone – come ho più volte ripetuto – aveva “corrotto” l’anima del Corriere accettando e tollerando le infiltrazioni comuniste“.
Non è stata un’ossessione il tuo anticomunismo?
“Bisognava combattere il comunismo come il peggiore dei mali politici. Ne conoscevo i meccanismi, vi aderii e me ne distaccai prevedendone gli effetti“.
Cosa ti aveva sedotto?
“L’idea che si potesse dominare la realtà con ogni mezzo, anche il più crudele, e al tempo stesso trasformare tutto questo in una grande utopia. C’era forse menzogna peggiore? Follia più grande? Delusione più cocente?”
Hai usato l’aggettivo “crudele” pensavi a qualcosa o a qualcuno in particolare?
“Al fanatismo, alla ferocia e al sarcasmo di certi leader comunisti“.
Chi?
“Giancarlo Pajetta. Apparteneva all’aristocrazia dei capi. Senza mai un dubbio, un’incertezza, una fragilità. Per il tempo che rimasi nel Pci fu lui a iniziarmi ai riti del comunismo. Lo rividi quarant’anni dopo. Alla vigilia del grande crollo. C’era qualcosa di patetico in quello che fu definito il “ragazzo rosso”. Il mondo nel quale aveva creduto ciecamente e per il quale aveva combattuto contro la miriade di infedeli, si stava decomponendo. Ne prese atto con dolore. Ma anche con impotenza. E rabbia“.
Dove vi vedeste?
“Eravamo casualmente entrambi a Mosca alla vigilia del 1989. Prendevamo parte a un incontro internazionale dove, in qualità di deputato europeo, avrei dovuto consegnare una lettera per Gorbaciov. Le delegazioni furono ricevute al Cremlino davanti al Soviet supremo. Colsi immediatamente il disagio di Pajetta. Il balbettio del suo intervento, lasciò nello sconcerto i sovietici. Era irriconoscibile. Non c’era più traccia dell’eccelso comiziante di una volta“.
Sconcerto provocato da cosa?
“Dalle sue accuse verso il nuovo corso e il disprezzo con cui guardava a ciò che succedeva. Era un mondo che stava finendo. Anzi era già finito. Se ne andò schifato. Stravolto. Costernato. Tornò in anticipo in Italia. Pajetta morì l’anno dopo“.
Che sensazione hai quando una cosa finisce?
“Che è finita. Cosa aggiungere?”.
Ho l’impressione che per tutta la vita tu abbia lottato con l’idea del tramonto.
“Provengo da un mondo che è tramontato. Forse fu quella lettura adolescenziale di Dostoevskij a risvegliarmi dall’ipnosi. Da qualche parte il male deve esserci“.
E si combatte?
“Si combatte sì. Ci si prova“.
Che stagione stai vivendo?
“Acciacchi e decadenza. Tutto nella norma. Poi c’è la prudenza intellettuale“.
Alla tua età che importa essere prudente?
“Voglia di evitare eccessi interpretativi. Il mondo sta cambiando a una velocità impressionante“.
Come ti ci trovi?
“Distanziato, mi ritrovo. Non da colui che corre, ma da me che lo guardo correre“.
Improvvisamente sembri uno spettatore in difesa.
“Non ho nulla da difendere. Non ho peccati mortali. Non ho la coscienza ammorbata da fatti di cui mi debba giustificare. La mia vita è stata ricca di eventi e di possibilità non tutte realizzate. Ma non è stata una vita dispersiva e minacciata dall’attrazione del vuoto“.
Ancora Dostoevskij?
“All’inizio mi affascinava il suo nichilismo. Ma vivendo ho capito cosa voleva dirmi il medico che mi ebbe in cura. Compresi che era meglio l’opportunismo agnostico di Tolstoj “.
Il potere genera opportunismo?
“L’opportunismo consolida il potere“.
Hai avuto molte frequentazioni con il potere?
“Abbastanza“.
La più importante?
“Quella con Bettino Craxi. Gli sono stato vicino al punto che mi telefonava per informarmi delle sue battaglie nel partito“.
Un giornalista può permettersi di essere così intimo con il potere?
“Non volendo nulla dal potere e non potendo cedere nulla al potere posso dire di essere stato libero da questa ossessione. E poi chi ha avuto alle spalle una nascita dinastica più che comunemente familiare non può ritenere il potere una forma di seduzione“.
Ti hanno sedotto più le donne?
“La vita è stata lunga. Molte donne e pochi matrimoni. Non ho esagerato sul piano istituzionale“.
L’anima slava?
“È un mito, con qualche vago fondamento. Ma ne sono rimasto immune. Non ho mai vissuto tragedie d’amore. Non ho avuto scontri veri. Mi sono sempre difeso e salvato “.
Hai portato a casa la tua vecchiaia.
“Già, come si porta a casa la pelle dopo una guerra. Molti pensano che la vecchiaia sia una specie di salvadanaio da cui prendere le ultime monete di scambio con la vita. Per come la vedo io essa èla stagione che ci prepara all’incontro con il nulla. I mille perché della vita finiscono lì. In quell’appuntamento. Non sai cosa c’è. Non sai chi arriva. Ecco, se penso alla mia scrittura, ai miei romanzi, alle mie storie, so che tutto è nato da questo enigma“.
FAKE REFERENDUM: nostalgia, vaniloquio, dilettantismo
Il Federalismo veneto bruciato sul tavolo da poker
Come era ampiamente prevedibile il referendum veneto per l’autonomia sta diventando l’occasione per una spudorata e menzognera campagna di propaganda politico-elettorale del Presidente Zaia, finalizzata – con la sistematica banalizzazione del suo significato e del suo impatto – a bypassare il vincolo procedurale sia del corretto confronto con l’Opposizione in Consiglio Regionale che, ancor più grave, del negoziato sui contenuti dell’effettivo-praticabile aumento di responsabilità regionali indicato e ripetutamente proposto dal Governo, in coerenza ed applicazione dell’art. 116. 3 della Costituzione.
Ho avuto modo di denunciare la strategia della zaiazione (neologismo di cui siamo debitori a Francesco Maino) in corso e della desolante perdita di memoria storica del Veneto cresciuto in-con-per l’Italia: per arrestare il processo degenerativo provocato dalla manipolazione di uno strumento di partecipazione democratica, ho inoltrato – unitamente all’amico Marcello Degni – al TAR del Veneto ed al Tribunale Civile di Venezia il ricorso:
“PER L’ANNULLAMENTO, PREVIA SOSPENSIONE DELL’EFFICACIA,
del Decreto del Presidente della Giunta regionale n. 50 del 24.4.2017, pubblicato sul BUR del Veneto n. 52 del 26.5.2017, di indizione del referendum consultivo di cui alla legge regionale 19 giugno 2014, n. 15 “Referendum consultivo sull’autonomia del Veneto”; nonché, per quanto occorrer possa, della Deliberazione della Giunta regionale del Veneto n. 315 del 15.3.2016, di avvio del negoziato con il Governo al fine del referendum regionale per il riconoscimento di ulteriori forme di autonomia della Regione Veneto”
Ho ben presente il sofferto dibattito politico in corso sul SI-NO-MA-FORSE-astensione, ma avendo dedicato tutta la mia vita di impegno sociale, professionale, culturale (circa 45 anni) al progetto federalista fondato su sussidiarietà-responsabilità-solidarietà, mi è impossibile tollerare l’imbroglio che è stato ordito ai danni dei miei concittadini veneti che sono “italiani esigenti, ma non renitenti” e meritano di essere coinvolti in un processo decisionale nel quale sono chiare, definite, concrete le poste in gioco nel negoziato leale e rigoroso che deve essere avviato tra Regione e Governo nazionale senza bluff.
Pubblico quindi di seguito il testo del ricorso che, al di là degli effetti che si prefigge, focalizzando i vizi, le storture e le contraddizioni sul piano giuridico, rappresenta anche un documento che smaschera ed illustra la colossale truffa in gestazione: su di essa ovviamente il tempo a venire sarà utile per realizzare un serrato confronto ed una fondamentale attività di informazione per migliorare non solo la consapevolezza dei veneti rispetto alla sfida federalistala, ma soprattutto a focalizzare il percorso più appropriato ed efficace per vincerla.
Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto
RICORSO
dei sigg.ri Dino Bertocco (c.f. BRTDNI50D07B564Y), residente a Padova, via Timavo, 7/a e Marcello Degni (c.f. DGNMCL56R20H501H), residente a Venezia, Dorsoduro 880, entrambi rappresentati e difesi, giusta delega in calce, dagli avv.ti Prof. Raffaele Bifulco ((BFLRFL62S13F839F – raffaelebifulco@ordineavvocatiroma.org), Carlo Contaldi La Grotteria (CNTCRL74B03H501X – c.contaldi@cnfpec.it), Prof.ssa Elisa Scotti (SCTLSE71A51H501V – elisascotti@ordineavvocatiroma.org), Michela Urbani (RBNMHL82T58H282X – michela.urbani@pec.it), e con loro elettivamente domiciliati presso la segreteria di codesto Tribunale Amministrativo Regionale
contro
la Regione Veneto, in persona del legale rappresentante p.t.
per l’annullamento,
previa sospensione dell’efficacia,
del Decreto del Presidente della Giunta regionale n. 50 del 24.4.2017, pubblicato sul BUR del Veneto n. 52 del 26.5.2017, di indizione del referendum consultivo di cui alla legge regionale 19 giugno 2014, n. 15 “Referendum consultivo sull’autonomia del Veneto” (doc.1); nonché, per quanto occorrer possa, della Deliberazione della Giunta regionale del Veneto n. 315 del 15.3.2016, di avvio del negoziato con il Governo al fine del referendum regionale per il riconoscimento di ulteriori forme di autonomia della Regione Veneto (doc.2).
FATTO
1. I ricorrenti.
I singoli cittadini ricorrenti sono tutti iscritti nelle liste elettorali di Comuni della Regione Veneto (cfr. certificati elettorali, doc.7).
2. La Legge regionale n. 15 del 2014.
A monte del decreto impugnato si pone la legge regionale n. 15 del 2014 che prevede quanto segue:
• il Presidente è autorizzato ad instaurare un negoziato con il Governo, «volto a definire il contenuto di un referendum consultivo finalizzato a conoscere la volontà degli elettori del Veneto circa il conseguimento di ulteriori forme di autonomia della Regione del Veneto» (art. 1, co.1);
• al termine del negoziato, il Presidente deve riferire al Consiglio circa il suo esito (art. 1, co.2);
• in caso di esito negativo, il Presidente è autorizzato a indire un referendum consultivo sul seguente quesito: “Vuoi che alla Regione Veneto siano attribuite ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia?” (art. 1, co.3, e art. 2, co.1);
• il referendum è disciplinato dagli artt. 15, 17, 18, 19 e 20 della L.Regionale n. 1 del 1973 (art. 3, co.1);
• la Giunta regionale è autorizzata ad attivare iniziative di comunicazione e informazione in ordine al quesito referendario (art. 3bis, co.1), secondo un piano di comunicazione sottoposto al parere della commissione consiliare competente (art. 3bis, co.2).
La legge in questione è stata oggetto di due interventi modificativi. Il primo è stato realizzato con la L.r. 7/2016; il secondo, con la L.r. 7/2017. Come è ben noto, il Governo ha impugnato la prima versione di questa legge regionale e la Corte Costituzionale ne ha dichiarato la parziale illegittimità costituzionale con sent. n. 118 del 2015.
Sul contenuto di tale sentenza si tornerà infra.
3. I negoziati Regione/Governo.
Con la DGR n. 315 del 2016 (impugnata), la Giunta ha avviato il procedimento di “negoziato” con il Governo, approvando un corposo articolato contenente la proposta della Regione “per il conseguimento di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia” (doc.2).
In data 17.3.2016 tale delibera veniva trasmessa al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro per gli Affari Regionali, con nota a firma del Presidente della Giunta regionale (doc.3); ad essa era dato riscontro il successivo 16.5.2016 da parte del suddetto Ministro, che dichiarava la disponibilità ad avviare la procedura negoziale (doc.4).
A questa nota del Governo non veniva dato riscontro da parte della Regione.
Il successivo 17.2.2017 il Governo: a) confermava la propria disponibilità al negoziato; b) informava la Regione della circostanza che il Governo aveva “provveduto a trasmettere alle singole amministrazioni le proposte a suo tempo fatte pervenire dalla Regione Veneto” ed aveva “successivamente riunito i rappresentanti delle stesse amministrazioni, con i quali abbiamo individuato le opportune modalità con cui sviluppare il rapporto con la Regione”; c) dichiarava, quindi, che ci sono “le condizioni per un incontro proficuo in tempi brevi”; d) chiedeva al Presidente della Giunta di indicare una data per tale incontro (nota dell’11.2.2017, doc.5).
In risposta a tale comunicazione la Regione, richiamando un incontro non istituzionale svoltosi il 3.2.2107 (e quindi in data precedente rispetto alla nota del Governo di cui ora si è dato conto), con nota del 15.3.2017, mutava improvvisamente orientamento ed affermava che il negoziato si sarebbe potuto svolgere solo dopo aver celebrato il referendum (“La Regione Veneto è pronta ad accogliere, mio tramite, la Sua proposta solo dopo aver celebrato il referendum”, doc.6).
4. L’atto impugnato.
Con il Decreto impugnato, la Regione Veneto ha, infine, indetto il referendum consultivo.
Nelle premesse viene richiamata la nota del Governo del 16.5.2016 (doc.4) – e non anche la successiva del 17.2.2017 (doc.5) – ed a tale nota si ricollega un inesistente diniego da parte del Governo di negoziare il contenuto del referendum (“preso atto, pertanto, della posizione in tal modo assunta dal Governo di diniego della possibilità di concordare il contenuto del referendum”, doc.1).
Al “presunto” diniego l’atto impugnato fa seguire le conseguenze di cui agli artt. 1, co. 3, e 2, co. 1, della L.R. n. 15 del 2014 e così viene indetto il referendum sul quesito sopra riportato.
Tale atto è illegittimo e lesivo dei diritti ed interessi dei ricorrenti per i seguenti motivi di
DIRITTO
(1)
Violazione degli artt. 26 e 27 dello Statuto della Regione Veneto.
Il referendum indetto dal Presidente della Regione Veneto è in palese contrasto con le norme statutarie e costituzionali in materia di quesiti referendari.
Anticipiamo subito che rispetto a tale quadro normativo il quesito che la Regione Veneto intende sottoporre al proprio corpo elettorale è privo dei requisiti di ammissibilità perché evidentemente carente dei caratteri di omogeneità e chiarezza. Nel decreto di indizione è infatti previsto che il referendum è indetto in ordine al seguente quesito: “Vuoi che alla Regione del Veneto siano attribuite ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia?”. Esso fa implicitamente riferimento all’art. 116, co.3, Cost., ove si stabilisce che mediante la procedura ivi prevista, le Regioni ordinarie possono ottenere ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia in una serie di materie indicate dalla stessa disposizione costituzionale.
Per apprezzare meglio il profilo di illegittimità in esame, è opportuno ricostruire la disciplina statutaria e la giurisprudenza costituzionale (per quanto in questa sede rilevante) in materia di referendum.
Ora, lo Statuto veneto del 2012 si pronuncia in materia negli art. 26 e 27 con cristallina chiarezza. L’art. 27, co. 3, stabilisce infatti che il referendum consultivo incontra i medesimi limiti cui è assoggettato il referendum abrogativo “di una legge o di un regolamento o di un atto amministrativo” regionale previsto dall’art. 26 Statuto (“Non è ammesso referendum consultivo nei casi previsti dall’articolo 26, commi 4 e 5.”). E le disposizioni da ultimo citate, in particolare il comma 5, prevedono che per il referendum abrogativo regionale (e quindi per il referendum consultivo) valga comunque la seguente regola generale: “Sono comunque inammissibili le richieste di referendum aventi quesiti non omogenei”.2
A sua volta, l’art. 26, co.5, Stat. Ven., nel vietare quesiti referendari non omogenei, riprende un principio elaborato dalla giurisprudenza costituzionale per i referendum abrogativi di legge statale che ha la portata di un principio generale dell’ordinamento giuridico (ex plurimis, sentenze della Corte costituzionale n. 16 del 1978, n. 29 del 1987, n. 47 del 1991, n. 5 del 1995, n. 6 del 2015, n. 17 del 2016).
La questione consiste, dunque, nell’esaminare se nel referendum consultivo qui in discussione il quesito referendario possegga o meno il carattere dell’omogeneità che il diritto costituzionale italiano e lo Statuto Veneto richiedono. Ora, è ben vero che esiste un elemento “omogeneizzante” del quesito referendario, rappresentato dal riferimento all’art. 116, co.3, Cost., vale a dire dalla procedura volta a riconoscere alle Regioni ordinarie ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia. Tuttavia, a ben vedere, proprio tale riferimento vale a rendere non omogeneo il quesito referendario, il quale si riferisce, potenzialmente, a tutte le materie cui l’art. 116, co.3, Cost., fa riferimento, che includono, come è noto, tutte le materie di competenza legislativa concorrente e tre materie di competenza legislativa esclusiva statale.
Il quesito, pertanto, si rivela radicalmente disomogeneo: esso, infatti, chiede all’elettorato di pronunciarsi sull’incremento dell’autonomia regionale in svariate materie, fra loro molto diverse, accomunate dall’unico elemento di essere assoggettabili alla concessione alle Regioni ordinarie di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, ma fra loro distanti come possono esserlo la giustizia di pace e le norme generali sull’istruzione, la produzione, distribuzione e trasporto nazionale dell’energia e la tutela della salute, ecc.
Alla stregua di quanto detto, il quesito sottoposto al corpo elettorale regionale deve pertanto ritenersi privo di quella «matrice razionalmente unitaria» (ex multis, sentenze n. 16 del 1978 e n. 25 del 1981), che una consolidata giurisprudenza costituzionale ha posto a fondamento dell’ammissibilità della domanda rivolta agli elettori (sentenze n. 28, n. 26 e n. 22 del 1981; n. 65, n. 64 e n. 63 del 1990; n. 47 del 1991).
Ne consegue che la rilevata disomogeneità del quesito si traduce in una violazione della libertà dell’elettore (sent. 16/1978), il quale ben potrebbe essere favorevole all’ampliamento dell’autonomia regionale su uno di tali settori ma non su altri: il che appare verosimile, data la varietà delle materie coinvolte.
In effetti, tale varietà è talmente estesa che essa ricorda proprio il caso a partire dal quale la Corte costituzionale elaborò il criterio dell’omogeneità del quesito referendario, vale a dire la richiesta di abrogazione dell’intero libro I del Codice penale (sent. n. 16/1978).
Alla mancanza di omogeneità del quesito referendario, si aggiunge la mancanza di chiarezza dello stesso. Il requisito della “chiarezza” del quesito è stato anch’esso elaborato dalla giurisprudenza costituzionale e, pur se non formalmente previsto come limite per i referendum nello Statuto veneto, deve ritenersi operante anche in questo caso, trattandosi di un principio generale dell’ordinamento giuridico, che può incontrare deroghe solo in norme di rango costituzionale.
Il quesito relativo all’ottenimento di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia non è chiaro perché le materie sulle quali la Regione intende conseguire maggiore autonomia non sono definite nel quesito stesso, né sono individuabili per relationem: esse, in astratto, potrebbero essere tutte quelle indicate nell’art. 116, co.3, oppure solo alcune di esse o anche una sola. Ma all’elettore veneto il quesito referendario chiede di pronunciarsi a prescindere dalla previa indicazione delle materie su cui la Regione intenda chiedere al Governo un ampliamento della sua sfera di autonomia. Si tratta dunque di un quesito referendario ad oggetto indeterminato.
A queste censure sarebbe inutile obiettare che il quesito è fornito di tutti i requisiti necessari perché sul punto si sarebbe già pronunciata la Corte costituzionale con la sent.118/2015. Più precisamente si potrebbe sostenere che la Corte costituzionale, nel dichiarare costituzionalmente illegittimi gli altri quesiti referendari indicati dalla legge regionale del Veneto n. 15/2014, abbia “salvato” tale quesito, nonostante che il Governo nazionale lo avesse fatto oggetto di ricorso in via principale.
La Corte, tuttavia, ha giudicato di tale quesito solo da due punti di vista (quelli dedotti nel ricorso statale): a) da un lato la mancata precisazione nella legge reg. n. 15/2014 che le ulteriori forme e condizioni di autonomia sono solo quelle relative alle materie indicate nell’art. 116, co.3; b) dall’altro la mancata previsione nell’art. 116, co.3, della possibilità di indire un referendum regionale.
La Corte ha ritenuto, da un lato, che il riferimento alle materie dell’art. 116, co.3, fosse desumibile dal riferimento alle ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, che possono essere ottenute solo in tali materie; e dall’altro che il referendum in questione sarebbe legittimo in quanto esso resterebbe esterno al procedimento di cui all’art. 116, co.3, Cost., con le cui regole, pertanto, esso non potrebbe entrare in contrasto.
Il Giudice delle leggi non ha però mancato di premettere, significativamente, che «manca nel quesito qualsiasi precisazione in merito agli ambiti di ampliamento dell’autonomia regionale su cui si intende interrogare gli elettori»
Conclusivamente può osservarsi che la Corte, con la sent. 118/2015, si è pronunciata esclusivamente sul contrasto eventuale tra il referendum consultivo, configurato nel quesito di cui al punto 1 della legge regionale, e i parametri costituzionali invocati dall’Avvocatura dello Stato. Tra questi non v’era l’art.75 Cost. e non vi erano, soprattutto, i limiti di ammissibilità derivanti dalla struttura del quesito medesimo. La Corte si è pronunciata, in altri termini, sull’an, non certo sul quid dell’eventuale referendum, ben sapendo che l’ammissibilità del quesito di un referendum regionale è questione che pertiene alla Regione e ai suoi organi, non alla Corte.
Si deve inoltre osservare che nella stessa sentenza n. 118 del 2015 e nella sua giurisprudenza precedente la Corte costituzionale ha ripetutamente affermato che le forme di esercizio del referendum regionale incontrano il limite invalicabile del principio unitario; di talché non sono consentiti quesiti privi della necessaria matrice razionalmente unitaria che potrebbero produrre un inammissibile frammentazione dell’ordinamento (sentenze n. 496 del 2000 e n. 118 del 2015).
Tale disomogeneità della domanda rivolta al corpo elettorale Veneto nel caso di specie ridonda nella violazione degli artt. 26 e 27 dello Statuto regionale di autonomia così rendendo illegittimo l’atto di indizione dei comizi elettorali.
(2)
Violazione dell’art. 1, commi 2 e 3, nonché dell’art. 3, comma 1, della L.R. Veneto n. 15 del 2014. Eccesso di potere per difetto di motivazione, travisamento dei fatti e sviamento.
1.1. La piana ricostruzione dei contenuti della legge regionale e il documentato svolgersi degli eventi pongono i seguenti punti fermi:
• la legge regionale conferisce al Presidente il potere di avviare un negoziato volto a fissare il contenuto dei quesiti del referendum consultivo (art. 1, co.1);
• il negoziato è stato avviato dalla Regione (doc.3) ed il Governo ha attivato l’istruttoria, manifestando l’invito ad un incontro (doc.4);
• la Regione ha deciso, però, di fare retromarcia, affermando che il negoziato ci potrà essere solo dopo il referendum (doc.1).
Da ciò discendono i due profili di illegittimità indicati in rubrica.
In primo luogo, rileva la violazione della norma regionale, a mente della quale l’indizione del referendum sul quesito di cui all’art. 2, comma 1, n. 1), è subordinata all’avverarsi di una ben precisa condizione: “qualora il negoziato non giunga a buon fine”.
La condizione non si è avverata, perché:
a. il negoziato non c’è proprio stato, dal momento che la Regione, dopo aver inviato la propria proposta, non ha voluto neppure ascoltare le osservazioni del Governo;
b. il Presidente della Giunta ha violato apertamente la norma regionale, affermando che era disposto a negoziare solo dopo il referendum (e non prima, come imposto dalla legge regionale).
Operano, allora, le ordinarie norme relative all’indizione dei referendum consultivi (nel caso in esame non seguite) e non certo la legge n. 15 del 2014, che prevede un iter “speciale”.
In secondo luogo, al fine – evidente – di beneficiare dell’iter disegnato dalla l. n. 15 del 2014, l’atto impugnato, da un lato non dà conto delle ultime due comunicazioni (doc.5), dall’altro lato adduce l’esistenza di un – inesistente – diniego del Governo.
Il ‘carteggio’ mostra un comportamento dell’Esecutivo regionale quanto mai contraddittorio. Ne è prova piena l’affermazione del Presidente della Regione secondo cui «La Regione Veneto è pronta ad accogliere, mio tramite, la Sua proposta solo dopo aver celebrato il referendum» (doc.6): affermazione che espressamente ammette che il Governo ha mostrato una disponibilità al negoziato che la Regione Veneto lascia completamente cadere, in nome dell’esigenza di svolgere un referendum che, per legge, dovrebbe aver luogo solo in caso di fallimento. Come se non bastasse, però, la Regione, stravolgendo completamente la realtà e dimostrando un totale disprezzo per il principio costituzionale di leale collaborazione, giunge ad affermare, nel provvedimento impugnato, “preso atto, pertanto, della posizione in tal modo assunta dal Governo di diniego della possibilità di concordare il contenuto del referendum”, doc.1).
Conclusivamente, non può non sottolinearsi l’eccesso di potere, nelle forme sintomatiche indicate in rubrica, in cui è incorsa la Regione.
1.2. Il procedimento di indizione del referendum presenta un ulteriore vizio procedimentale.
Infatti, come sopra si è riportato, il Presidente della Giunta avrebbe dovuto riferire al Consiglio regionale l’esito del negoziato con il Governo.
Nelle premesse dell’atto impugnato non si dà conto di questo passaggio.
Inoltre, come si è detto, le premesse dell’atto di indizione del referendum non riportano l’intero scambio di corrispondenza tra il Governo ed il Presidente della Giunta.
Quindi, non solo quest’ultimo non ha riferito al Consiglio, ma addirittura, nell’esercitare il potere di indizione della consultazione, ha fornito una rappresentazione della realtà priva di alcuni elementi, peraltro fondamentali.
(3)
Violazione degli artt. 25, co.1, e 62 dello Statuto della Regione Veneto.
L’art. 25 dello Statuto prevede che i limiti di ammissibilità del referendum sono fissati dalla legge regionale. Lo Statuto fissa, comunque, un limite nella necessaria omogeneità del quesito (art. 27, co.3).
La legge regionale n. 1 del 1973 si occupa del referendum consultivo, disciplinando la modalità di indizione (art. 24) e rinviando, per lo svolgimento delle operazioni, ad una serie di disposizioni relative al referendum abrogativo (art. 26).
Tali disposizioni sono:
• art. 15 co. 2 bis, 2 ter, 2 quater, che contengono disposizioni di dettaglio sugli orari del voto, sulle operazioni di scrutinio, e sull’onorario degli scrutatori
• art. 17, che detta disposizioni di dettaglio sullo svolgimento delle operazioni di voto e sulle competenze “operative” dei vari organi coinvolti;
• art. 18, che disciplina la forma delle schede;
• art. 19, che prevede le modalità di computo del numero dei votanti e la loro verbalizzazione
• art. 20, che regola la operazioni conclusive e la proclamazione dell’esito.
Nella legge, quindi, non ci sono norme che disciplinano i requisiti di ammissibilità e il procedimento di verifica dell’ammissibilità stessa.
È, ancora, lo Statuto, che disciplina, infatti, il giudizio di ammissibilità e ricevibilità della richiesta di referendum, affidandolo alla Commissione di garanzia statutaria (art. 25, co.1, dello Statuto), che è organo di “consulenza e garanzia”, composto da esperti di fama nazionale e regionale di diritto costituzionale o amministrativo o regionale (art. 62).
L’attuazione di tale disposizione è delegata ad una legge regionale, chiamata a stabilire la durata della carica di Commissario, le modalità di funzionamento, i limiti dell’autonomia regolamentare e funzionale, nonché il trattamento economico dei componenti.
A tutt’oggi tale organo, fondamentale perché dotato del potere di pronunciarsi sull’ammissibilità del quesito, non è stato istituito.
Il procedimento referendario, quindi, è carente di un passaggio indispensabile, che, oltre a rendere l’atto impugnato insanabilmente viziato dal punto di vista procedimentale, influisce sui requisiti del quesito referendario.
(4)
Violazione dell’art. 25, co. 2, dello Statuto della Regione Veneto. – Illegittimità costituzionale dell’art.3-bis legge della Regione Veneto 15/2014
L’esternazione solo parziale dello scambio di lettere tra il Governo e la Regione, se vista in uno con il quesito, svolge una ulteriore azione decettiva.
Infatti, dalla lettura del provvedimento impugnato appare che l’esito negativo del negoziato sia da addebitarsi al Governo; al contrario, come sopra si è detto e documentato, è stata la Regione a decidere di interrompere il negoziato, senza aver neppure ascoltato la proposta del Governo centrale.
Questo ribaltamento della responsabilità dell’esito negativo appare finalizzata a porre in cattiva luce l’operato del Governo, quasi che questo non volesse concedere ulteriori forme di autonomia alla Regione. Così facendo, si compie – illegittimamente, considerata la sede – un primo atto della campagna di informazione, trasformando le – legittime – aspettative di maggiori autonomie della popolazione del Veneto, in uno scontro con lo Stato centrale.
Veniamo così all’ultimo profilo di illegittimità dell’atto impugnato.
Lo Statuto affida alla legge elettorale il compito di garantire che l’informazione sui referendum sia tale da assicurare un’adeguata attività di comunicazione ai favorevoli ed ai contrari al quesito (art. 25, co. 2, dello Statuto).
La legge regionale n. 1 del 1973 (art. 30) opera, sul punto, un rinvio (fisso) alla l. n. 352 del 1970: “Per tutto quanto non previsto nella presente legge, ed in particolare per la disciplina della propaganda relativa allo svolgimento dei referendum e per le disposizioni penali, si fa riferimento, in quanto applicabili, alle norme contenute nella legge statale 25 maggio 1970, n. 352”.
La L. n. 352 del 1970 contiene le disposizioni sull’uso degli spazi per propaganda elettorale.
Infine rileva la L. n. 28 del 2000 che detta le garanzie perché sia assicurata la parità di accesso ai mezzi di informazione durante le campagne referendarie, ed individua tra i soggetti che vi possono accedere “tutti i soggetti politici”. Nell’ambito di una campagna di informazione referendaria i “soggetti politici” principali sono fondamentalmente due: i promotori e i cd. “comitati per il no”.
In questa cornice, che costituisce diretta applicazione delle norme costituzionali sulla libertà di espressione, sulla formazione delle opinioni politiche e sulla parità di trattamento, si innestano le disposizioni della legge regionale n. 15 del 2014 che, all’art. 3bis introdotto con la L.r. 7/2017, prevedono – o paiono prevedere – un unico attore della campagna di informazione: la Giunta regionale.
Così, è chiaro, non può essere, in considerazione: a) del fatto che la Giunta è anche il soggetto che propone il referendum; b) della necessità, portato delle disposizioni e dei principi sopra citati, che in ogni campagna elettorale sia garantito il rispetto della par condicio; c) della circostanza che già le prime informazioni fornite dagli organi della Regione (id est, la parte motiva del provvedimento impugnato) sono permeate da errori ed inesattezze.
Si noti che l’art.3bis è stato introdotto dalla l.r.7/2017 sicché su di esso non vi è stato giudizio da parte della Corte costituzionale.
Ciò detto, è evidente che la Giunta regionale – in quanto organo, indipendentemente dalla specifica composizione che essa presenta in un dato momento storico – non presenta i requisiti di imparzialità politica che sono necessari per il corretto svolgimento di siffatta funzione: essa è, anzi, “parte” coinvolta nel confronto che il referendum intende instaurare.
La dialettica che il quesito referendario intende attivare, sia pur solo sul piano politico, contrappone la comunità regionale allo Stato. La Giunta regionale, in quanto ente esponenziale della comunità regionale, ed in quanto espressione della sola maggioranza politica esistente a livello regionale, è intrinsecamente un attore, e non un garante della dialettica referendaria. Ne segue che il potere di intervento e di regolazione, che il comma in esame le attribuirebbe, equivale a trasformare la competizione referendaria in una competizione “truccata”, nella quale uno dei “giocatori” viene elevato abusivamente al ruolo di arbitro, o quantomeno di informatore asseritamente imparziale, pur se congenitamente parziale.
La lesione del principio della par condicio nelle campagne elettorali e referendarie – che di tali campagne costituisce il principio guida, implicitamente ricavabile dall’art. 3 della Costituzione e dal principio costituzionale di eguaglianza – non potrebbe essere più evidente e non si può certo ritenere sufficiente ad escludere tale lesione il vago riferimento, contenuto nell’art. 3-bis, al “rispetto della vigente normativa”.
Delle due l’una, infatti: o è alla vigente normativa che occorre fare riferimento, e allora il comma in esame è del tutto inutile; oppure la disposizione incrementa i “poteri informativi” della Giunta regionale, abilitandola a svolgere un’azione propagandistica a carico del bilancio pubblico, in forme quantomeno anomale rispetto ai principi della par condicio nelle campagne referendarie, con conseguente incostituzionalità della disposizione in parola.
Se la seconda lettura ora proposta fosse quella da seguire, allora si prospetta l’illegittimità costituzionale della legge regionale 15/2014.
*
Richiesta di misure cautelari.
Come narrato in fatto, i comizi elettorali si svolgeranno il giorno 22 ottobre 2017. Sicché, ferma la fondatezza del presente ricorso, appare assolutamente urgente l’adozione, da parte dell’Ecc.mo Giudice, di un’ordinanza di sospensione dell’efficacia del decreto di indizione impugnato in questa sede. Non vi sarebbe infatti altra misura in grado di evitare lo svolgimento delle votazioni.
*
Tutto ciò premesso, i ricorrenti
CHIEDONO
che l’ecc.mo Tribunale voglia:
annullare e/o dichiarare nulli, previa sospensione, gli atti impugnati con ogni conseguenza di legge e, ove occorra, anche previa rimessione alla Corte costituzionale, ai sensi dell’art.23 l.87/1953, della questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 1, 48 e 21 Cost. dell’art.3-bis della legge della Regione Veneto n. 15/2014, nella parte in cui attribuisce alla sola Giunta regionale i poteri informativi in ordine al quesito referendario e allo svolgimento del referendum, escludendo così la partecipazione di ogni altro soggetto politico.
Spese protestate.
Si allegano i documenti indicati nel ricorso.
Ai fini del contributo unificato di iscrizione a ruolo, si dichiara che il valore della presente controversia è indeterminabile.
Roma, 24 luglio 2017
Prof.Avv. Raffaele Bifulco
Avv. Carlo Contaldi La Grotteria
Prof.Avv.Elisa Scotti
Avv. Michela Urbani
Un nuovo ordine digitale mondiale
L’Europa si candida a diventare il laboratorio per la rete del futuro: reinventata per essere davvero a misura d’uomo
Guido Romeo – NOVA24 – 23 Luglio 2017 -Il Sole 24 Ore
«Internet è rotta», ha osservato qualche settimana fa il fondatore di Twitter Evan Williams. L’ironia, e il problema, è che se anche la rete ha ormai da tempo tradito la neutralità, la libertà e la trasparenza che erano stati i suoi valori fondativi, non è mai stata così centrale e importante per le nostre vite. Gli utenti di Facebook sono ormai due miliardi e ci sono poco meno di un miliardo di siti online, mentre ogni minuto circolano 400mila tweet e 3,5 milioni di ricerche su Google; 200 milioni di video scorrono su YouTube e 260 milioni di email arrivano nelle nostre caselle di posta. Per non parlare di quella valanga di dati che animano app e altri servizi e senza le quali la nostra vita quotidiana sarebbe probabilmente paralizzata.
«Internet è talmente importante che non possiamo più considerarla una semplice rete informatica – ha osservato Roberto Viola, direttore generale di DG Communications Networks, Content and Technology della Commissione europea, durante la sua Bruno Kessler Lecture a Trento –: è un motore che sta rapidamente modellando l’economia e la nostra vita quotidiana. Questi mutamenti sollevano questioni fondamentali: la Rete così come la conosciamo oggi risponde alle esigenze dei cittadini? A quale Internet vogliamo collegarci tra dieci anni? Qual è il ruolo della politica nel delineare l’evoluzione di Internet?».
La discussione sulla governance della rete non è solo un tema del Vecchio Continente. «Possiamo pensare alla rete come sostanzialmente fatta di tre livelli – ha recentemente osservato Fadi Chehadé, l’ex Ceo di Icann, l’organizzazione responsabile per l’assegnazione di nomi e domini online ora docente ad Harvard e senior advisor del World Economic Forum –: il primo è quello dell’infrastruttura, governata da standard e regole. Il secondo è quello della logica, quello dell’Icann per intenderci, che permette alle 80mila diverse reti di venire percepite come un unico network. Il terzo è quello dei diritti umani, delle intelligenze artificiali e degli standard di sicurezza nel quale oggi non c’è ordine».
Oggi molti capi di stato e top manager di aziende globali si stanno confrontando su cosa fare su questo fronte. «Non è un caso che ad ogni meeting internazionale il tema della cyberguerra sia una priorità – continua Chehadé – perché tutti stanno cercando di aumentare la propria capacità “militare” digitale e la bassa sicurezza del web crea grandi problemi. Credo che vedremo succedere qualche cosa proprio nelle prossime settimane, prima dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite di settembre, perché è troppo pericoloso continuare così. Il mese scorso il presidente di Microsoft Brad Smith ha scritto una cosa molto importante nel suo blog: “Abbiamo bisogno di regole”. È la prima volta che una grande azienda digitale chiede delle regole e solo un anno fa una richiesta del genere sarebbe stata impensabile».
Allo stesso tempo c’è una forte resistenza da parte degli stati nazionali. Una recente indagine del Carnegie Endowment for International Peace di Washington DC ha mostrato che nessuno dei governi di paesi con armamenti nucleari si dichiara interessato a sottoscrivere un trattato di non proliferazione sulle cyber armi. Nella sfera politica i più attenti a questo nuovo clima si stanno dimostrando i tre commissari europei per la ricerca, per il mercato unico digitale e per la legislazione e i diritti fondamentali che si sono recentemente espressi con molta decisione sulle sfide e le opportunità che le “Next generation internet technologies” pongono per la nostra società (di fianco il suo discorso integrale al Next Generation Internet Summit, ndr) candidando l’Europa a diventare il laboratorio per lo sviluppo di un Internet del futuro a misura d’uomo.
«Il nostro sistema democratico può funzionare solo se possiamo garantire che nessuno venga lasciato indietro – sottolinea Frans Timmermans, primo vicepresidente della Commissione oltre che commissiario per i Diritti fondamentali, che sottolinea come proprio la rete sia lo spazio dove contrastare le forze dell’illiberalismo e della xenofobia che si nutrono delle crisi e delle nuove paure come quelle di una nuova disoccupazione indotta dalle tecnologie dell’intelligenza artificiale pensando anche a misure come il reddito di cittadinanza.
«Il World Wide Web è nato grazie ad un promemoria visionario inviato da Tim Berners-Lee quasi 30 anni nel 1989, lo stesso anno della caduta del muro di Berlino – osserva il Commissario per il digitale Andrus Ansip – e oggi dobbiamo rilanciare con una nuova agenda, che metta l’Europa al centro degli sviluppi tecnologici e che aumenti la fiducia dei cittadini nell’ambiente online». «Siamo già sulla soglia di questa nuova fase di Internet. È già qui che noi ci sentiamo pronti o meno», osserva Carlos Moedas, commissiario per la ricerca, la scienza e l’innovazione indicando proprio nell’Internet del futuro una missione collettiva di importanza analoga a quelle che hanno portato l’uomo sulla Luna o all’eradicazione della poliomelite.
“Dal potere di Pechino si può salvare solo chi fugge”
L’intervista. Il Nobel per la letteratura Gao Xingjiang e la battaglia degli intellettuali: “Un cambiamento è lontano”
PAOLO GRISERI – Repubblica – 16.7.17
Come si combatte il potere?
«Si combatte uscendo dalla logica del potere. È una battaglia innanzitutto interiore ».
Tre giorni dopo la morte di Liu Xiaobo, premio Nobel per la pace 2010, un altro premio Nobel cinese, lo scrittore Gao Xingjiang, ospite al Festival Collisioni di Barolo, invita a «trovare ciascuno dentro di sé la strada per fuggire dalle costrizioni dei regimi».
Conosceva Liu Xiaobo?
«Non l’ho mai conosciuto personalmente. Non posso esprimermi sulla sua vicenda. Abito a Parigi, non vivo in Cina dalla fine degli anni ‘80. So che era molto malato. È morto mentre ero in volo verso l’Europa, non conosco le circostanze esatte».
Come giudica il potere in Cina?
«Il problema del potere è uguale in tutto il mondo. È un problema storico e antropologico. Si presenta in tutti i tipi di società ad eccezione di quelle matriarcali. Il potere tutela interessi e finisce per generare lotte tra interessi diversi. Io ho imparato a fuggire da tutto questo. Ho lasciato la Cina perché quel tipo di logica, la battaglia di un potere contro l’altro, non mi interessava più. Da quel momento ho deciso che diventavo cittadino del mondo. E soprattutto ho scelto di uscire dalla logica del Novecento, dall’idea che un individuo può cambiare i destini dell’umanità. Questa è una falsa presunzione, frutto dell’ideologia marxista, che io ho imparato a conoscere bene fin da giovane».
Insomma non la colpisce che ancora oggi in un grande Paese come la Cina si possa essere imprigionati per le proprie idee?
«Certo che mi colpisce. Ma oggi la Cina è questa. In tutto il mondo i regimi negano la libertà degli intellettuali, li mettono in prigione, impediscono la pubblicazione dei loro libri. Illudersi di poter cambiare questo, sperare che un individuo possa cambiare questo stato di cose, è assurdo».
Per le sue idee e per i suoi scritti lei è stato imprigionato, condannato al lavoro nei campi. Anche il problema della libertà è un problema del Novecento?
«Quello della libertà è un problema che ciascuno ha innanzitutto al suo interno. Il caos originario è dentro di noi. Nel mio libro “Le montagne dell’anima” ho raccontato il viaggio di tre soggetti ai quali non ho dato un nome proprio ma un soprannome: io, tu, loro. Sono, in realtà, le tre parti che ciascuno di noi ha dentro. Trovare un senso, un legame, tra queste tre parti, serve a capire quali sono gli spazi della propria libertà».
Lei combatte da tempo la sua battaglia contro le ideologie: fascismo, comunismo, ecc. Ma le religioni non sono altrettante ideologie?
«Se la religione è una fede, allora è una cosa buona: ciascuno ha fede, ha fiducia in un Dio e questo è positivo. Lei invece fa riferimento ai casi in cui le religioni diventano un potere, si arrogano il diritto di decidere le scelte delle persone. In quel caso anche le religioni diventano una forma del potere e vale quel che abbiamo detto prima».
Se dovessimo usare una categoria del Novecento si potrebbe dire che lei è nichilista…
«Ah certo. Ma come vede io sono fuori da quelle categorie. Io sono fuori dalla Cina. Non sono più in quella realtà. E penso che ci siano miliardi di posti nel mondo dove sia possibile esercitare la propria libertà intellettuale».
Perdoni, può permettersi di vivere fuori dalla Cina perché è un intellettuale, un premio Nobel. Ma i contadini delle campagne cinesi come possono sperare un giorno di avere libertà?
«Ecco una domanda tipica degli occidentali del Novecento. Io li ho conosciuti i contadini cinesi. Sono stato costretto. Sono andato a lavorare nei campi come punizione per le mie idee. E sa che cosa le dico? Che per i contadini cinesi il problema non è la libertà. È invece la fame. Come nutrirsi e soprattutto come nutrire i loro figli ».
Ma anche per loro sapere che possono leggere solo alcuni libri e non altri, come ad esempio i suoi, non è un problema?
«Le posso garantire che non lo è. In Cina i contadini non leggono, lavorano e basta».
E tutto questo non potrà mai cambiare?
«Non lo so. Certo pensare che dei semplici individui o degli intellettuali possano provocare il cambiamento politico è un’idea falsa e sbagliata».
La montagna sfiancata
Business contro natura. Il vincitore del premio Strega difende la bellezza del Monte Rosa a rischio per una nuova funivia
Testo di Paolo Cognetti
Repubblica ROBINSON – 16 luglio 2017
C’è un ultimo vallone selvaggio ai piedi del Monte Rosa, esiste da sempre e tra poco non esisterà più. Ora che sono lontano, su un treno che attraversa una pianura che non so guardare, posso chiudere gli occhi e ritrovarmi nel paese di Saint-Jacques, in fondo alla Val d’Ayas, dove l’Evançon è ancora torrentizio, tumultuoso, l’acqua grigia e verde di ghiacciaio. Lassù un ponte di tavole attraversa il fiume e una mulattiera sale nel bosco tra le radici dei larici. Supera un albergo d’inizio Novecento, lusso di poeti e regine, chiuso per sempre col suo secolo glorioso; una colonia dai muri in sasso grigio, dove nessun ragazzo da tempo è stato più visto giocare; una stalla in cui i pastori dell’est accudiscono le bestie d’altri. Ma le cose degli uomini non mi commuovono quanto quelle della montagna, s’imprimono con tanta forza nella memoria: poco più su il bosco finisce e il sentiero sbuca in una conca che è un piccolo gioiello segreto. Vedo i pascoli del Pian di Tzére (il modo in cui un torrente rallenta e s’incurva in un prato, le sue anse sabbiose, la parola ruscello a cui si concede, prima che un salto di roccia lo renda di nuovo torrente, acqua bianca di schiuma che precipita giù), la pietraia di grandi lastre piatte che una volta ho risalito col mio amico montanaro, ognuno per la sua strada fino alla cascata (qualcosa ci aveva divisi e quel giorno non parlavamo, camminavamo lontani, forse entrambi speravamo che la montagna risolvesse le cose al posto nostro), il ghiacciaio che in alto sporge dagli strapiombi, bianco lucente sulla roccia nera e marcia, con i blocchi che nel pomeriggio si staccano e si schiantano di sotto (il ritardo del rumore per la distanza: vedere prima il bagliore del ghiaccio che cade, come un lampo, e poi sentire il brontolio del tuono). Ricordi che d’inverno tornano nei miei sogni di città: le torbiere intrise d’acqua di fusione e il sentiero che s’impantana, la montagna che verso i tremila metri è tutta gobbe morbide, morene, avvallamenti. Ho sognato le distese di erioforo in agosto, i fiocchi bianchi che ondeggiano sull’acquitrino come campi di cotone selvatico, e poi il gran lago cupo, nero di nuvole e verde di silice, il verso stridulo dei gracchi nel vento. In riva al lago ho scritto una scena sul mio quaderno, quella in cui Bruno grida alla montagna che lui se ne andrà di lì: l’ho fatto anch’io per sentire come suonava, ho ricevuto l’eco del mio grido e ho visto i camosci fuggire spaventati oltre il colle delle Cime Bianche.
Ora tutto questo non esisterà più perché il vallone, che prende nome proprio da quel colle, sarà sacrificato come tutto il Monte Rosa allo sci di discesa. In effetti è un miracolo che esista ancora perché appena al di là, oltre la cresta da cui ho visto i camosci scappare, c’è Cervinia con i suoi impianti e i suoi alberghi, e di qua comincia un comprensorio che unisce Ayas, Gressoney e Alagna: valli che furono un crocevia di lingue e popoli, dove oltre al piemontese e al patois valdostano si parla il titsch dei walser che nel Trecento emigrarono a sud del Monte Rosa in cerca di terre coltivabili. Valli di pastori e contadini che cominciarono ad arricchirsi quando, nel Novecento, la villeggiatura in montagna divenne cosa da signori, e lo sci una moda sempre più popolare. Ora per quei villaggi a duemila metri, accanto alle case di legno e pietra dei walser, passano le piste di due grandi aziende della neve, un’industria turistica da milioni di clienti all’anno, separate solo da questo angolo selvaggio di mondo. Grazie a quella funivia si fonderanno e forse clientela e fatturato cresceranno ancora. Ci credono i politici e gli amministratori locali, ci puntano gli imprenditori, ci sperano i miei amici montanari che hanno un bar o qualche stanza da affittare, o fanno i maestri di sci, o lavorano come operai agli impianti. Questa per me è la parte più dolorosa della storia, perché non c’è un grande nemico, non uno stato o una multinazionale contro cui battermi, ma i miei amici e vicini di casa, il loro lavoro, la loro idea di futuro.
Poi ci sono gli sciatori, che qui da noi sono numeri e nient’altro: ogni giornata di ognuno di loro vale una certa somma, perciò basta contarli quando imboccano la valle e fare il calcolo, e così si sa quanti soldi portano alla montagna. Ma lo sanno gli sciatori come si fa una pista da sci? Io credo di no, perché altrimenti molti di loro non sosterrebbero di amare la montagna mentre la violentano. Una pista si fa così: si prende un versante della montagna che viene disboscato se è un bosco, spietrato se è una pietraia, prosciugato se è un acquitrino; i torrenti vengono deviati o incanalati, le rocce fatte saltare, i buchi riempiti di terra; e si va avanti a scavare, estirpare e spianare finché quel versante della montagna assomiglia soltanto a uno scivolo dritto e senza ostacoli. Poi lo scivolo va innevato, perché è ormai impossibile affrontare l’inverno senza neve artificiale: a monte della pista viene scavato un enorme bacino, riempito con l’acqua dei torrenti d’alta quota e con quella dei fiumi pompata dal fondovalle, e lungo l’intero pendio vengono posate condutture elettriche e idrauliche, per alimentare i cannoni piantati a bordo pista ogni cento metri. Intanto decine di blocchi di cemento vengono interrati; nei blocchi conficcati piloni e tra un pilone e l’altro tirati cavi d’acciaio; all’inizio e alla fine del cavo costruite stazioni di partenza e d’arrivo dotate di motori: questa è la funivia. Mancano solo i bar e i ristoranti lungo il percorso, e una strada per servire tutto quanto. I camion e le ruspe e i fuoristrada. Infine una mattina arrivano gli sciatori, gli amanti della montagna. Davvero non lo sanno? Non vedono che non c’è più un animale né un fiore, non un torrente né un lago né un bosco, e non resta nulla del paesaggio di montagna dove passano loro? Chi non mi crede o pensa che io stia esagerando faccia un giro intorno al Monte Rosa in estate: sciolta la neve artificiale le piste sembrano autostrade dai perenni cantieri, circondate da rottami, edifici obsoleti, ruderi industriali, devastazioni di cui noi stessi malediciamo i padri.
Ora, lo scambio per i montanari è chiaro. I soldi dello sci e del cemento, o l’integrità dal valore incerto del paesaggio di montagna? È almeno dagli anni Venti del Novecento che sulle Alpi abbiamo scelto: da un secolo preferiamo i soldi, seguendo un modello economico che bada al presente e trascura il futuro, perché ormai sappiamo tutti — questa è la differenza tra noi e i pionieri, loro potevano essere in buona fede e noi no — che tra altri cent’anni la vera ricchezza non saranno le piste che abbiamo costruito, ma la montagna che abbiamo lasciata intatta. Ne ho la prova ogni volta che accompagno nei luoghi del mio romanzo i giornalisti stranieri, esterrefatti che nel cuore dell’Europa possa esistere un mondo selvaggio di tale bellezza, e sono certo che verrebbero in tanti ad ammirarlo, se fosse un parco. Lo dico con affetto ai miei amici montanari: fermatevi, pensate ai figli. L’integrità di quel vallone per loro varrà mille volte di più di qualsiasi pista costruirete, quella è la vera eredità che gli spetta, il patrimonio che gli state portando via: vorranno sapere che cos’era un torrente, un lago, una distesa di erioforo, che rumore faceva un blocco di ghiaccio quando cadeva dallo strapiombo per schiantarsi sulle rocce. Da quei figli non sarete ricordati come portatori di prosperità e progresso, sarete ricordati come i distruttori. Chiedetevi se è questa la memoria di voi che volete lasciare.
L’uomo che riscrisse la storia d’Italia
Lo studioso inglese, Denis Mack Smith, autore di saggi fondamentali dedicati al nostro Paese, è morto a 97 anni
SIMONETTA FIORI – Repubblica CULTURA – 13.7.17
I suoi avversari — molti — malignavano che lo straordinario successo di Denis Mack Smith fosse dovuto a una circostanza semplice: aveva raccontato gli italiani con la stessa scettica acutezza con cui siamo soliti guardare a noi stessi. Senza sconti. Anzi, con quel piglio fustigatore che piace tanto a un popolo dedito alla perpetua autodemolizione. Se n’è andato all’età di 97 anni il decano degli studiosi inglesi animati da passione per l’Italia. La coscienza critica della nostra storia nazionale. E l’inventore di un genere storiografico che avrebbe dato una scossa anche alla prosa paludata degli accademici italiani. Figura slanciata e aplomb tipicamente anglosassone,
ricchissimo il medagliere accademico – la British Academy, il Wolfson College di Cambridge, l’All Souls College di Oxford, l’American Academy of Arts and Sciences – sembrava il figlio del più esclusivo ceto intellettuale londinese. In realtà il padre aveva fatto l’ispettore delle tasse a Bristol e Denis fu il primo della famiglia a prendere la laurea. Per la tesi scelse il nostro Risorgimento, assecondando quell’interesse per l’Italia nato fin dai banchi del liceo. Alla fine della guerra, appena ventiseienne, s’era affrettato nel Paese di Cavour e Garibaldi. Con una borsa di studio di poche sterline, trascorse un anno tra gli archivi, divorando libri e poco altro. «Ricordo ancora la fame e il silenzio», ci raccontò una volta nel suo villino bianco di Headington, a Oxford. «Mi muovevo in un’atmosfera strana, difficile da decifrare. Il Paese era ancora scosso dalla guerra». A Napoli l’incontro destinato a segnare la sua vita: Benedetto Croce gli aprì biblioteche ed amicizie importanti. «L’unico problema era il suo accento: non capivo una parola del suo italiano! ».
Tredici anni più tardi nasce in Italia il “caso Mack Smith”: l’editore Vito Laterza lo convince a pubblicare La storia d’Italia, il libro che gli procura enorme popolarità tra i lettori non specialisti (oltre 150 mila copie) e altrettanta animosità nella cittadella aristocratica della storiografia. Le ragioni dello scandalo? Un eccesso di semplificazione, lamentano gli accademici. La storia italiana viene ridotta a un piano inclinato, in cui gli accadimenti scorrono fin troppo speditamente. Da Cavour a Mussolini e alla successiva democrazia trasformista, tutto si tiene in un racconto forse eccessivamente consequenziale. Un racconto spietato che rivela ottusità, cinismi e compromessi delle nostre classi dirigenti. In realtà non era stato scritto per un pubblico italiano. L’opera nasceva dal “bisogno inconscio” di spiegare agli inglesi perché il nostro Paese fosse stato capace di inventare il fascismo, esportandolo nel mondo. Così lo studioso era andato alla ricerca delle nostre antiche debolezze, trovandole tra le pieghe del processo risorgimentale. «Sia Gaetano Salvemini che Federico Chabod mi avevano dissuaso dal farlo, ma l’editore Laterza si mostrò deciso, anche perché voleva suscitare una discussione. Io non ero sicuro di tutti i miei giudizi, disponibile dunque a una correzione. L’editore però non volle modificare una riga ». Il più sprezzante si mostrò Rosario Romeo, suo antagonista anche nel campo degli studi cavourriani. Di profilo intellettuale sideralmente distante – assai dotto ed elitario Romeo, più sensibile alla divulgazione Mack Smith – lo studioso siciliano liquidò la Storia come uno “sciocco libello”, e il suo giudizio non sarebbe stato più temperato per i saggi di Mack Smith su Cavour e Garibaldi. «Ogni riferimento a fatti realmente accaduti è puramente casuale », annotò Romeo a proposito delle ricerche del collega inglese. Veleno puro. Romeo era un gigante, e certo maneggiava l’argomento con una ricchezza superiore a quella del professore di Oxford. Ma la sua pungente intolleranza tradiva qualcos’altro, che Mack Smith rintuzzava con distacco. «Romeo era animato da invidia e da risentimento. Un giorno si rifiutò perfino di stringermi la mano, very unpolite.
Pensava che i miei saggi facessero male ai lettori italiani». In realtà venivano divorati dai lettori italiani, e questo a Mack Smith non fu mai perdonato. I suoi libri rappresentavano una novità anche per la scrittura. I giudizi lepidi e i ritratti sulfurei spazzavano via le dita di polvere della nostra accademia. Garibaldi? Un cavaliere generoso, peccato che non capisse nulla di politica. Cavour? Un tessitore spregiudicato, disposto a tutto pur di raggiungere i suoi obiettivi. E Vittorio Emanuele II, il re galantuomo? Macché. Era un personaggio volgare e incolto, gran puttaniere e scialacquatore di denaro pubblico. Un altro piccolo scandalo esplose con Casa Savoia, ma a difendere il suo piglio aneddotico intervenne Enzo Forcella: quando si tratta di mettere a fuoco personalità cruciali, scrisse il giornalista, anche le annotazioni psicologiche sono importanti. E il merito di Mack Smith era stato quello di rovesciare gli stereotipi più corrivi di una storiografia di corte, rivelando il profilo semifeudale di una monarchia formalmente liberale e costituzionale.
Non fu facile la convivenza neppure con un altro maestro italiano, Renzo De Felice, assai critico verso i suoi studi sul capo del fascismo (tanti i saggi dedicati al dittatore, Mussolini, Le guerre del duce, A proposito di Mussolini, La storia manipolata). Nella sua miseria e nobiltà, l’Italia fu il grande amore della vita. Una passione che sembrava indebolita nella stagione della vecchiaia. Quando l’andammo a trovare per i novant’anni nel villino di White Lodge, Mack Smith appariva distante. Il ruolo del brillante fustigatore non gli apparteneva più, un po’ per stanchezza, un po’ perché l’Italia sedotta da Silvio Berlusconi era troppo anche per un italofilo come lui. In realtà quel Paese era lo sbocco naturale della trama di populismo, sovversivismo, assenza di regole che Mack Smith ci aveva raccontato per quasi mezzo secolo. La storia gli aveva dato ragione, ma lui sceglieva di porgere le sue scuse postume a Romeo: «Probabilmente Romeo non aveva torto: nel rintracciare le cause della fragilità italiana, su Cavour ho esagerato un po’». Poi un lampo di malizia: «Mi sarebbe piaciuto leggere un bel libro di storia inglese scritto da uno studioso italiano. Ma è davvero raro, mi creda».
Guardava oltre il giardino, Mack Smith. La sua Italia era quella raffigurata sulle pareti di casa, il ritratto di Garibaldi acquistato da un libraio di Cambridge o la ceramica di Vittorio Emanuele a cavallo. Era la lingua che aveva condiviso con il suo vicino di casa Isaiah Berlin, che parlava italiano così spedito tanto da non riuscire a stargli appresso. Un Paese, una comunità culturale, un’idea dell’Italia che in quello scorcio del nuovo secolo non esisteva più. «Ora che ho ceduto alla biblioteca di Oxford i miei diecimila volumi di storia italiana mi sento meglio, più leggero». Gli chiedemmo se condivideva il giudizio del suo allievo Christopher Duggan: l’Italia come un’idea troppo malcerta e contestata per poter fornire il nucleo emotivo di una nazione, almeno di una nazione in pace con se stessa. Un lungo silenzio, forse tanti ricordi. «Uno storico non può accomiatarsi dai suoi lettori con accenti apocalittici. Ci saranno pure delle incompiutezze nazionali, ma non bisogna esagerare nel disfattismo. Anzi, abbiamo il dovere di essere ottimisti». Sempre molto british, anche nell’addio.
La natura complicata di una nazione
Il saggio di Guido Pescosolido ricostruisce il percorso dell’Italia fino all’indebolimento di oggi
UMBERTO GENTILONI – Repubblica Cultura – 12.7.17
Dove inizia il cammino della nazione italiana e quali tasselli ne definiscono il percorso? Che rapporto esiste tra uno Stato e una nazione, chi precede cosa? Temi antichi e irrisolti, interrogativi che accompagnano anniversari e confronti che dal passato rimbalzano fino al nostro tempo alla ricerca di conferme o nuovi itinerari possibili. La storia può essere un utile compagno di strada a patto che non prevalga quella carica distruttrice, quella spinta da nuovo inizio che punta a fare tabula rasa della zavorra del passato pensando così di avere vantaggi o benefici in un cammino semplificato e sgombro segnato da rimozioni e oblio. Una scorciatoia a portata di mano, semplice persino scontata che tuttavia non aiuta, non permette passi avanti, non lascia eredità e insegnamenti nell’itinerario complesso di una comunità nazionale. Un volume fresco di stampa mette insieme grandi interrogativi della storiografia sulla nazione italiana semplificandoli attorno a un percorso possibile, una chiave lettura che possa orientare studiosi e lettori (Guido Pescosolido, Nazione, sviluppo economico e questione meridionale in Italia, Rubbettino, pagg. 320, euro 18).
Lo sguardo acuto di uno storico che prende le mosse dalla convinzione che «pur nell’ampia varietà dei significati assunti dal termine Nazione nel corso della storia occidentale, sia rimasta prevalente la definizione di Nazione moderna, ossia illuministica e/o postrivoluzione francese, elaborata nel dibattito degli anni Ottanta – Novanta del secolo scorso, ossia di una comunità di individui che abbiano la volontà di condividere un comune destino civile e politico in uno Stato sovrano, aperto e inclusivo che tenda a riconoscere a tutti la piena cittadinanza di uno Stato di diritto, anche, al limite, a prescindere dall’omogeneità religiosa, linguistica, culturale o di altro genere». È la natura della nazione, la sua costruzione storica che definisce il perimetro della questione italiana, i suoi tanti passi avanti e le numerose battute d’arresto. Le radici del Risorgimento nelle premesse di una stagione fondante: «Il movimento nazionale italiano – sostiene l’autore riprendendo e aggiornando l’ispirazione del suo maestro Rosario Romeo – divenne quindi Nazione moderna prima ancora che nel 1861 nascesse lo Stato unitario nel quale si realizzò l’unità della Nazione politico istituzionale con quella linguistico culturale della maggior parte della penisola e delle Isole». Un cammino faticoso, un patrimonio di conquiste e traguardi, un orizzonte collettivo che poggia su due pilastri: lo Stato unitario che nella sua costruzione articolata «nonostante manchevolezze e difetti innegabili, rappresenta nel suo insieme il fattore più importante nell’avvio del processo di industrializzazione » e lo sviluppo economico come asse centrale per seguire gli effetti della trasformazione sociale e più in generale della modernizzazione e crescita complessiva del sistema Paese. Il bilancio è articolato, impegnativo: nei primi centoventi anni di vita l’Italia unita non ha corrisposto alle aspirazioni di potenza politica e militare sognate dai padri del Risorgimento, mentre nel primo ventennio del secondo dopoguerra l’ingresso tra i cinque-sei paesi più industrializzati del pianeta sembrava chiudere positivamente quella parabola «oggi seriamente compromessa».
Quali le ragioni dell’indebolimento progressivo di un tragitto nazionale? L’autore sceglie tre ambiti che hanno accompagnato e segnato il dibattito degli ultimi decenni: la base ristretta che sostiene la nazione, la bassa partecipazione delle masse alla vita politica attiva allontana l’obiettivo prioritario di «includere tutti i cittadini nell’esercizio dei pubblici poteri, abbattendo le barriere del privilegio sociale e dell’esclusivismo politico e istituzionale»; il peso e il condizionamento della questione romana causato dal mancato riconoscimento del nuovo Stato da parte del papato e del mondo cattolico e soprattutto il permanere in forme vecchie e nuove della questione meridionale «nel senso se non dell’annullamento, almeno di una riduzione del divario territoriale tra Nord e Sud entro dimensioni coerenti con l’appartenenza alla stessa comunità nazionale, questo obiettivo non ha ancora trovato né soluzione né speranza di soluzione, stando alla tendenza registrata negli ultimi venti anni».
Vittorio Gregotti “L’architettura non interessa più a nessuno”
Il grande progettista si racconta alla vigilia dei novant’anni “Tutto è cambiato. Chiudo lo studio”
FRANCESCO ERBANI – Repubblica Cultura – 12.7.17
Vittorio Gregotti ha chiuso il suo studio d’architetto. Il 10 agosto compie novant’anni, ma il motivo non è solo anagrafico. «L’architettura non interessa più», dice persino sorridendo nel salotto della sua casa milanese – Casa Candiani, un edificio eclettico di fine Ottocento, un po’ neogotico, un po’ neorinascimentale, fra San Vittore e Santa Maria delle Grazie. Fino a qualche mese fa al pianterreno c’era la Gregotti Associati, fondata nel 1974, lavori in Italia e nel mondo, dalla Germania al Portogallo alla Cina. Ora, di là dal vetro, si scorgono scaffali vuoti e la luce spenta. «Abbiamo tre progetti ancora in piedi, ad Algeri, in Cina e poi a Livorno, dove facciamo il piano regolatore. Li cura il mio socio Augusto Cagnardi».
E niente più?
«Niente più. D’altronde compio novant’anni, ma cosa sta succedendo nel nostro mondo? Una società immobiliare decide se, con i soldi dell’Arabia Saudita, investire a Berlino, a Shanghai o a Milano, a seconda delle convenienze. Stabilisce il costo economico, compie un’analisi di mercato, fissa le destinazioni. E alla fine arriva l’architetto, a volte à la mode, al quale si chiede di confezionare l’immagine».
Lei fa questo mestiere dall’inizio degli anni Cinquanta: ne avrà visti di periodi bui. O no?
«Certo. Ma non è un caso che nella mia vita sia stato amico più di letterati, di artisti e di musicisti che di architetti. Da Emilio Tadini a Elio Vittorini, da Umberto Eco a Luciano Berio. E poi ho sempre concepito l’architettura come un prodotto collettivo: un valore che si è perso».
Dove l’ha appreso?
«Lavorando da operaio in uno stabilimento di proprietà della mia famiglia, a Novara ».
Lei si è occupato tanto di letteratura, di filosofia, di musica. Ha fatto il conservatorio. Eppure lamenta che i suoi colleghi oscillano dall’iperspecialismo alla tuttologia.
«Ma mantenere relazioni fra filosofia, letteratura e architettura non è tuttologia. I miei modelli sono il capomastro medievale e il suo sguardo d’insieme. Capii questo a Parigi, nel 1947, dove lavorai nello studio di Auguste Perret. Dovunque girassi incontravo intellettuali che incrociavano le diverse competenze. Tornato a Milano, appena le lezioni del Politecnico me lo consentivano, andavo a sentire Enzo Paci che parlava di filosofia teoretica».
Studiava architettura, ma non le bastava.
«La svolta fu nel 1951, quando partecipai a Hoddesdon al convegno dei Ciam, il Comitato internazionale per l’architettura moderna. C’erano Le Corbusier e Gropius. Si rifletteva sul rapporto con la storia e il contesto. E a chi insisteva che il contenuto del nostro futuro sarebbe stato la tecnologia, si contrapponeva la dialettica con il passato, con i luoghi in cui si realizzava un’architettura. Ciò che preesisteva non andava ignorato, anche nel caso in cui il nuovo fosse un’eccezione».
E i rapporti con gli scrittori?
«Rimasero intensi. Ho anche partecipato al gruppo 63: si ragionava su come vivere il tempo libero senza finire preda del mercato, una questione cruciale per un architetto».
Comunque sempre pochi architetti.
«Gli architetti erano divisi in due categorie. Una prediligeva la natura d’artista e considerava la letteratura o la filosofia discipline distanti. L’altra era quella dei professionisti, che interpretavano il mestiere onorevolmente, ma che non andavano al di là del dato tecnico».
Comunque sia, lei ha sostenuto che allora ci si confrontava con una società in cui prevaleva l’industria. E che oggi, invece, poco ci si rapporta con quella post industriale.
«Oggi non ci si preoccupa di rappresentare una condizione sociale collettiva. È andato smarrendosi il disegno complessivo della città, che viene progettata per pezzi incoerenti, troppo regolata da interessi».
Questo è dovuto all’irruzione del postmoderno?
«Il postmoderno è un’ideologia tramontata. Ma ha avuto effetti significativi. Si è interpretato in modo ingenuo il rapporto con la storia, non ponendosi nei suoi confronti in termini dialettici, ma adottandone lo stile. E l’involucro è stato considerato indipendente dalla funzione di un edificio. Poi il postmoderno ha incrociato il capitalismo globale».
E che cosa è successo?
«Sono saltate le differenze fra culture. Ora ovunque si distribuiscono prodotti uguali. Prevale il riferimento a un contesto globale, che diventa moda, più che a un contesto specifico. Avanzano lo spettacolo, l’esibizione, l’ossessione per la comunicazione».
Mi fa un esempio?
( Sul tavolo davanti al divano pesca una rivista, c’è la foto di un edificio che sembra accartocciato) «Guardi, questo è il centro di ricerca progettato a Las Vegas da Frank Gehry. Gehry è un mio amico, ma ha superato ogni limite nel rapporto fra contenuto e contenitore. È l’ammissione che l’architettura è sfascio».
Le piace la Nuvola di Fuksas?
«Assolutamente no».
E il Maxxi di Zaha Hadid?
«Il suo fine è la trovata, la calligrafia, senza rapporto con la funzione. Queste sono architetture popolari, d’altronde se non fossero popolari non potrebbero esistere. Contengono un messaggio pubblicitario. Anche nel Seicento le facciate barocche delle chiese lo contenevano, ma si riferiva a un universo spirituale. Qui è la moda a dettare le prescrizioni».
Lei ha realizzato il quartiere Bicocca, a Milano, e a Pujang, in Cina una città da centomila abitanti. Ha fatto il piano regolatore di Torino e il Centro culturale Belem a Lisbona. Ha collaborato con Leonardo Benevolo al Progetto Fori a Roma, mai realizzato, purtroppo. Ma le viene spesso rinfacciato il quartiere Zen a Palermo: c’è chi ne invoca la demolizione.
«Lo Zen avrebbe dovuto essere diverso da quel che è stato, una parte di città e non una periferia. Palermo ha il centro storico, le espansioni otto-novecentesche e poi doveva esserci lo Zen, con residenza, zone commerciali, teatri, impianti sportivi. Doveva possedere un’autonomia di vita che non si è realizzata».
È il problema di molte periferie pubbliche italiane. Qualche responsabilità ce l’avete voi progettisti?
«Io non sono per demolire lo Zen o Corviale. Sono per demolire il concetto di periferia, non basta il rammendo. Ci siamo illusi in quegli anni di poterlo realizzare? È vero, ci siamo illusi di costruire quartieri mescolati socialmente, dotati delle attrezzature che ne facevano, appunto, parti di città e non luoghi ai margini. Rispondevamo a un’emergenza abitativa. Ma se noi ci siamo illusi, quello che contemporaneamente si costruiva o quello è venuto dopo cos’è stato se non la coincidenza fra interessi speculativi e l’annullamento di ogni ideale progettuale? Corviale ha un’idea, che andava realizzata. Non è solo un tema d’architettura».
«Mi preoccupa il loro disorientamento. Vengono spinti a coltivare una pura professionalità, a saper corrispondere alle esigenze del committente, oppure ad avere una formazione figurativa stravagante e capace di essere attraente. È pericoloso l’abbandono del disegno a mano. Con il computer si è precisi, è vero, ma non si arriva all’essenza delle cose. I materiali dell’architettura non sono solo il cemento o il vetro. Sono anche i bisogni, le speranze e la conoscenza storica».
Cognetti, il vincitore dello Strega con “Le otto montagne”
La rivalità con la seconda classificata, l’ecologismo anarchico, l’editoria e il look. Il vincitore si racconta
RAFFAELLA DE SANTIS – Repubblica CULTURA – 8/07/2017
Dice di aver dormito bene, un sonno profondo. Ma poi quando stamattina si è svegliato e ha realizzato che ieri aveva vinto il Premio Strega ha guardato Federica, la sua fidanzata, ed è corso alla stazione per prendere un treno e andarsene a festeggiare con gli amici nelle sue montagne, in Val D’Aosta: «Facciamo una breve sosta a Milano e poi via». Paolo Cognetti si confonde tra i turisti della stazione Termini: sandali tecnici ai piedi, una t-shirt e calzoni corti al ginocchio. Bagaglio leggero da viaggiatore frugale.
Non sembra una persona che ha appena vinto il più importante premio letterario italiano. Eppure il suo libro, bellissima storia di un’amicizia nata fra le montagne, ha convinto davvero ogni tipo di giurato. Giovedì sera subito prima di salire sul palco del Ninfeo, Cognetti ha velocemente annodato al collo una cravatta nera col fiocco: «È la cravatta lavallière – dice – per me un simbolo importante. La indossavano gli anarchici». Dunque il look scanzonato della finale a Villa Giulia, che ha portato Le otto montagne (Einaudi) sul podio stracciando gli altri concorrenti, era un messaggio e non un semplice vezzo bohémien. Il montanaro all’apparenza tranquillo forse lo è meno di quanto sembri.
Lo Strega in genere mette a dura prova i nervi. Lei era il vincitore annunciato, come ha vissuto il rapporto con gli altri candidati?
«In realtà sono un po’ ingenuo. Mi sembra sempre che siano tutti amici e invece poi scopro che non è così. Pare che Teresa Ciabatti abbia scritto un articolo su di me definendomi “il Nemico”, con la “n” maiuscola. Io le voglio bene, ma devo constatare che in lei evidentemente si agitano altri sentimenti ».
Un po’ di delusione è comprensibile, all’inizio dell’avventura Ciabatti sembrava papabile per il trono e poi lo smacco, 89 voti di distanza da lei.
«Mi rendo conto: non è facile cominciare come favorita e poi dover retrocedere. La sua è davvero una pessima posizione. A me è successo il contrario, quando questa avventura è cominciata non ero il vincitore annunciato, poi le cose però sono cambiate».
E per il resto tutto liscio?
«Sono molto legato ad Alberto Rollo, contento che abbia partecipato con un suo libro. In questi mesi mi è sembrato di avere accanto un papà. È stato molto affettuoso con me. C’eravamo incontrati tempo fa, quando lavorava in Feltrinelli, e mi aveva proposto di pubblicare il libro con loro. Ho scelto Einaudi per la sua sobrietà e solidità e perché mi sembrava più adatta al mio romanzo. Ma sono sincero, ho legato molto anche con Matteo Nucci. Mi piacciono i contestatori, gli anticonformisti, i “rompiballe spigolosi”. Sarà che da parte mia sono un tipo accondiscendente… ».
A questo punto interviene Federica, la fidanzata, che sembrava distratta dal telefonino. Ride e dice «Accondiscendente? Non è vero. Lo conosco da una vita, non è così».
Qualcosa non torna. Forse quel fiocco anarchico rivela un altro aspetto di lei, un lato meno ingenuo.
«Ci sono idee forti in cui credo, valori come l’anarchismo, l’autogestione, la partecipazione politica dal basso sui territori. Essere anarchici vuol dire non rispettare determinate gerarchie, avere insofferenza verso l’autorità e il potere. Il verde del rametto di abete che ieri avevo nel taschino della giacca e il nero della cravatta sono richiami ai colori dell’anarchismo ecologista».
Ma come si concilia questo suo spirito antagonista con la scelta di stare dentro a un grande gruppo editoriale e con un premio mainstream come lo Strega?
«Sono consapevole che è una contraddizione e confesso che un po’ mi mette in crisi. Ma appartiene al pensiero anarchico anche una certa pragmaticità. Ho pensato che fossero mezzi giusti per raggiungere uno scopo preciso, per riuscire a parlare delle cose in cui credo a più persone possibile. Ma capisco che si possa non condividere il mio punto di vista. Molti miei amici mi stanno criticando duramente e molti rapporti stanno andando in crisi a causa di questa mia scelta».
C’è chi come Matteo Nucci ha rifiutato di scrivere un racconto e girare un video per una nota marca automobilistica sponsor del premio.
È singolare, viste le sue idee, che lei abbia accettato.
«Se la mettiamo così, anche la bevuta finale dalla bottiglia Strega è una forma di pubblicità ».
Sì, ma lei ha scelto di partecipare al premio, non di girare video per sostenerne gli sponsor.
«Partecipare a questo premio vuol dire avere a che fare continuamente con gli sponsor. Abbiamo girato l’Italia in lungo e in largo, mangiato e dormito in varie città senza spendere un soldo. Questo anche grazie agli sponsor. Mi sembrerebbe strano non tenerne conto. Per non cadere in queste contraddizioni sarebbe meglio allora rimanere fuori dal premio. Per Nucci evidentemente quello era un limite non oltrepassabile, io ho aderito sapendo a cosa andavo incontro. Mi rendo conto però che sono punti critici. Quando a marzo Ernesto Franco, direttore editoriale Einaudi, mi ha invitato a prendere un caffè per dirmi che volevano portarmi allo Strega mi ha avvertito. Mi ha detto: guarda che sarà lunga e faticosa, te la senti? Ho accettato».
Però sul podio ha ringraziato anche il suo vecchio editore minimum fax. Lo ha fatto per ricordare la sua anima “indi”?
«Lasciare minimum è stato traumatico, non posso dimenticarli, mi ricorderò sempre di loro ».
Il suo è un libro dai valori sani. Non ha paura di apparire troppo pacificante?
«È vero, è un romanzo confortante, ha una sua pace, mentre quello di Teresa Ciabatti,
La più amata, è più inquietante. Ma dipende dal fatto che per me la montagna ha rappresentato la cura. Durante un momento di grave crisi sono andato in montagna, quei luoghi per me sono diventati il mio rifugio e saranno al centro anche del mio prossimo romanzo. Non è detto però che debba scrivere di montagna tutta la vita ( ride) ».
E ora? Lo sa, lo Strega stravolgerà un po’ le sue giornate.
«Mi sento addosso una grossa responsabilità, non sono il tipo di persona che prende il malloppo e scappa».