Appello al buon senso contro il referendum farlocco

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IL REFERENDUM FARLOCCO: perché disertare l’urna il 22 ottobre 2017 e nel contempo non sprecare tempo e denaro dei contribuenti
Caro Amico/a,
il 22 ottobre prossimo si terrà il referendum consultivo con il seguente quesito ”Vuoi che alla Regione del Veneto siano attribuite ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia?”; prima di recarti all’urna ti chiediamo di tener presente quanto segue:
1. La Regione del Veneto già ad inizio 2008, 9 anni or sono, aveva spedito a Roma una richiesta di avere maggiore autonomia, come prevede la Costituzione art. 116 comma 3. La pratica era seguita da Galan e Zaia, rispettivamente Presidente e Vice-Presidente della Regione. Da maggio 2008 Berlusconi, Bossi, Calderoli e Maroni e quindi Zaia che nel frattempo era diventato Ministro dell’Agricoltura, governavano a Roma. La cinquina di “eccellenti” governanti non ha “portato a casa” né maggiori competenze né risorse per il Veneto.
2. La Corte Costituzionale esaminando due leggi regionali del 2014, con sentenza del luglio 2015, ha scritto e ripetuto che il Veneto non può né diventare né aspirare ad essere una Regione “Sovrana ed Indipendente”, a “Statuto Speciale” e nemmeno che noi Veneti possiamo avere a disposizione l’80% delle tasse e tributi che paghiamo allo Stato Italiano. Infatti ha bocciato 5 (cinque) su 6 (sei) quesiti referendari ed è rimasto in piedi quello “vuoto” del 22 ottobre, che – come puoi ben capire- non ha alcun contenuto pratico. Si diventa “Regione a Statuto Speciale “se inseriti nel comma 1 dell’art. 116 della Costituzione e Luca Zaia lo sa fin dal 2006. In fatti nell’ottobre di quell’anno, la Giunta Regionale di cui egli faceva parte quale Vice-Presidente approva l’avvio della richiesta di cui al punto 1 ed il suo compare di cordata nonché Presidente e Senatore, Giancarlo Galan, s’impegna a presentare un disegno di legge per inserire il Veneto nella lista delle Regioni a Statuto Speciale. Com’è andata a finire? Nulla di nulla, l’ostracismo e l’indifferenza del Centro Destra, a partire dalla Lega, ha lasciato morire l’iniziativa e noi, ad 11 anni data, siamo qui a discutere del sesso degli angeli!
3. Il Governo di Roma il 16 maggio 2016 aveva invitato il Presidente del Veneto a sedersi ad un tavolo per discutere delle richieste già inoltrate una prima volta nel 2008 ed una seconda volta nel 2016; sai che ha fatto il nostro Presidente? Non si è presentato ed ha indetto il referendum inutile e costoso per 13.510.000,00 di euro a carico della Regione. Forse era meglio andare a vedere le carte ed iniziare la trattativa, dato che uno che governa deve affrontare i problemi e non scappare dalle proprie responsabilità per le quali è lautamente pagato. Con quelle risorse si possono fare tante cose. Ad esempio noi abbiamo dato una prima indicazione di aumentare, da subito, il budget di 8 milioni già stanziato per l’assistenza odontoiatrica a favore di: a) i bambini/e fascia d’età 0-14, ben 990.000 unità b) le persone con più di 64 anni, ovvero 1.100.000 unità c) le persone in vulnerabilità sanitaria e sociale portandolo a ben 21.510.000,00 € idonei a coprire le esigenze di chi è in stato di necessità e non ha redditi elevati.

La Regione Emilia-Romagna senza sprecare soldi, sta già trattando ed il Presidente del Veneto deve riprendere-da subito- il tavolo negoziale abbandonato. Luca Zaia è stato eletto appena due anni fa ed ora rappresenta tutti, anche chi non l’ha votato e deve fare sul serio l’interesse dei Veneti!

Il Comitato Riscossa Civica Veneta contro il Referendum Farlocco

Morozov: “Il vero lusso? Vivere disconnessi dalla Rete”

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L’analista dei new media ha parlato oggi oggi al Festival della Comunicazione di Camogli “Solo i ricchi possono fare a meno del web e tutelare la loro privacy”
RAFFAELLA DE SANTIS – la Repubblica – 9.9.17
Essere fuori campo, dover rinunciare a Internet, non essere connessi è tra le maggiori paure dei nostri giorni. Il free wi-fi è diventato il passepartout per una giornata felice. Ma forse il vero lusso non è più navigare ovunque, ma disconnettersi, abbandonare la Rete. È questa la tesi con cui Evgeny Morozov, politologo e giornalista bielorusso trentatreenne che da anni scrive di new media, è arrivato al Festival della Comunicazione (diretto da Rosangela Bonsignorio e Danco Singer), in programma fino a domani a Camogli. Morozov vive negli Stati Uniti, dove sta terminando un dottorato ad Harvard, ma la “favola della Silicon Valley”, come la chiama lui, non lo convince. Eppure i suoi occhialetti alla Steve Jobs potrebbero trarre in inganno. Non è l’unico qui a Camogli a sferrare qualche colpo all’ottimismo dominante. Ieri è salito sul palco Federico Rampini, sfidando Luca De Biase in un match dedicato allo strapotere di Amazon, Apple, Facebook, Google e Microsoft. Mentre il direttore di Repubblica Mario Calabresi ha spiegato come algoritmi e intelligenza artificiale stanno cambiando il mondo dei giornali. Il pubblico ha risposto numeroso, affollando le terrazze sul mare e le piazze.
Mr. Morozov, non le pare singolare venire a un Festival della comunicazione a parlare del lusso della rinuncia a Internet?
«( Ride) La mia analisi parte da lontano, dagli anni Novanta, e cerca di capire cosa è cambiato da allora ad oggi. Guardiamo ai fatti. Oggi le uniche persone che possono concedersi il lusso di fare a meno di Internet sono i ricchi, i soli che possono contare su smartphone che ne tutelino la privacy o su qualcuno che faccia le ricerche per loro o twitti al loro posto. È questo il nuovo gap digitale tra ricchi e poveri.
È una questione di tempo libero?
«Non solo di tempo. L’iperconnettività crea dipendenza, addiction. È fatta per questo. Le nuove piattaforme, come Google e Facebook, sono studiate per attrarre. Assomigliano alle slot machine di Las Vegas, piene di lucine colorate e disegnate con un fantastico design. Il loro scopo è farci scommettere soldi, ma lo mascherano bene ».
Internet però è gratis e sta rivoluzionando il modo di accedere alla conoscenza.
«E qui veniamo al punto, al nodo della questione. In realtà, mentre ci assicurano un accesso free, Google e Facebook s’impossessano dei nostri dati, registrando i nostri gusti attraverso le nostre abitudini in Rete, attraverso i siti che visitiamo e i nostri like. Questi dati interessano i pubblicitari, sono loro a pagare per noi, mentre noi diventiamo cavie nelle loro mani, “targettizzati”, ridotti ad algoritmi ».
Quali saranno le conseguenze?
«Danni collettivi e costi per la società. Le prime conseguenze sono già visibili. In America e in Corea del Sud esistono già centri di riabilitazione in cui i giovani che abusano di Facebook possono andare a disintossicarsi, a curare i disordini psichiatrici dovuti all’iperconnettività ».
C’è una ricaduta sociale?
«Economica sicuramente. Non dimentichiamo che con i nostri click alimentiamo il business di un gruppo di grandi imprese private, quotate in borsa miliardi. Imprese che hanno visto crescere le loro quotazioni proprio durante la crisi economica ».
Dunque la cultura underground che ha alimentato le utopie della Silicon Valley californiana non la convince?
«Credo che sia una nuova forma di noblesse oblige che pensa di avere una missione, di risolvere la povertà nel mondo, portare la cultura ovunque ma non è così. O meglio, non è solo questo il punto».
Ammetterà però che oggi una persona svantaggiata, che non ha i mezzi per viaggiare o studiare è molto facilitata. Può accedere a un patrimonio di conoscenze in altri tempi inaccessibile.
«Tutto ciò è positivo. Non vorrei essere frainteso. Non sono affatto contro la tecnologia. La utilizzo, vado sui social. Ma dobbiamo sapere che stanno servendosi dei nostri dati per vendere i loro prodotti. Bisognerebbe creare un sistema legale per mettere a disposizione dei cittadini questi dati. Visto che esistono, almeno appartengano alla società e non solo a piattaforme private che alimentano un enorme giro di affari e speculano».

L’APPUNTAMENTO
Evgeny Morozov, politologo ed esperto di new media, nato nel 1984, ha partecipato oggi al Festival della Comunicazione di Camogli con l’incontro “ Il lusso di essere disconnessi”

Millennio digitale

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Benvenuti nell’era dell’iperstoria

La scrittura segnò il passaggio dalla preistoria alla storia. Le tecnologie digitali aprono una nuova epoca: elaborano informazioni meglio di noi e determinano ciò che avviene e come lo percepiamo. Ecco perché per l’umanità questa è la “quarta rivoluzione”
Testo di Luciano Floridi – la Repubblica – 27.8.17


Le tecnologie dell’informazione e della comunicazione stanno cambiando la concezione che abbiamo di noi stessi. Siamo nel bel mezzo di una quarta rivoluzione, non meno profonda e radicale di quelle a suo tempo avviate da Copernico, Darwin e Freud. In seguito alla rivoluzione copernicana, la cosmologia eliocentrica tolse alla Terra e all’uomo il privilegio che li collocava al centro dell’universo. La rivoluzione darwiniana mise in luce come tutte le specie viventi si siano evolute nel tempo da progenitori comuni attraverso la selezione naturale, mettendo così in discussione la centralità dell’uomo nel regno biologico. Grazie a Sigmund Freud, ora possiamo riconoscere che la mente è fatta anche di inconscio. A ben vedere, non siamo nemmeno più al centro della nostra stessa vita mentale. Oggi la scienza informatica e le tecnologie digitali sono gli agenti di una quarta rivoluzione, che ancora una volta modifica radicalmente il nostro modo di concepire chi siamo e la nostra presunzione di “eccezionale centralità”. Cominciamo a renderci conto di non essere più al centro dell’infosfera. Le nuove tecnologie digitali gestiscono le informazioni come o meglio di noi, stanno sempre più determinando quello che avviene di giorno in giorno, cioè gli eventi storici; determinano come ricordiamo e raccontiamo quanto avviene, cioè la narrazione degli eventi; e quindi cambiano il concetto stesso di storia. È un intreccio molto importante, ma che può confondere.
Per orientarci, facciamo un passo indietro, partendo da una distinzione fondamentale. C’è il tempo della fisica. È quantificabile con precisione. Può essere reversibile, un po’ come versare acqua in un bicchiere e poi svuotarlo; non come fare una frittata con le uova. E non scorre nello spazio, come un fiume, ma è impastato con lo spazio, come quarta dimensione, in un continuo che si curva, in presenza di masse o energia, come un cuscino su cui poggiamo un peso. C’è poi il tempo della vita, o temporalità. Essa scorre irreversibilmente e ben separata dallo spazio. La storia si occupa di temporalità, che articola in eventi: l’elezione del nuovo sindaco; una breve vacanza; una festa riuscita bene; una corsa estenuante. Gli eventi costituiscono la nostra storia: individuale, familiare, sociale, o globale, come specie su questo pianeta. Ma le nuove tecnologie dell’informazione e comunicazione ( ICT) oggi influenzano sempre di più questa nostra temporalità, trasformando il modo in cui impariamo, comunichiamo, lavoriamo e interagiamo, come socializziamo, come ci divertiamo, come giochiamo e come ci curiamo. La lista si allunga ogni giorno. Un sempre maggior numero di eventi della nostra temporalità è digitale, o è mescolato con il digitale – come nei selfie, cioè nell’esperienza dell’esperienza – o a volte non è, perché non è digitale. Il nuovo sindaco ha fatto una campagna elettorale online; la breve vacanza l’abbiamo passata anche su Facebook; la musica della festa era stata scaricata da iTunes; la corsa ha consumato esattamente 856 calorie. È la vita “ onlife”, fatta di eventi in cui il digitale è un ingrediente inevitabile e a volte fondamentale.
Raccontiamo la nostra temporalità mettendola in ordine sequenziale e significativo. Questa è la storia intesa come narrazione di eventi. Non mera cronologia ma “temporalogia”, per usare un neologismo. Ricordiamo e dimentichiamo, spieghiamo e re- interpretiamo, diamo senso e raccontiamo con storie ripetute, celebrazioni, e ricorrenze. È una consecutio non sempre obiettiva. Ferragosto non è più la festa di Augusto ( Feriae Augusti), o una festa fascista, ma la festa religiosa dell’Assunzione di Maria. Quando si dice che la storia la scrivono i vincitori è di questo tipo di temporalogia che si sta parlando. E anche qui le ICT giocano un ruolo ormai cruciale, da vincitore appunto, non fosse altro perché la testimonianza è sempre più affidata a supporti digitali: fotografie, testi, registrazioni visive e foniche. Non senza rischi, perché il digitale è fragile. Una tecnologia diventa desueta, e con i floppy disk ci gioco a frisbee. Un virus o un banale errore di formattazione cancella l’hard disk, e addio alle foto di famiglia. Uno sbalzo di corrente frigge il computer, e la corrispondenza con mia moglie sparisce. E poi tutto si può riscrivere, in un costante presente, si pensi a un sito web, con una reversibilità della narrazione storica da fare invidia al bicchiere d’acqua di cui sopra. In pochi anni, siamo passati da una cultura millenaria della registrazione – che cosa salvare “a futura memoria” – a una cultura della riscrittura e cancellazione – che cosa rimuovere o editare “ a futuro oblio” – che dobbiamo ancora capire, mentre per loro natura i dati digitali si accumulano, come la polvere in casa: si pensi alla musica o alle foto nel cellulare. Il dibattito sul diritto all’oblio e sulla cancellazione, o perlomeno la sedimentazione, del nostro passato sarebbe inconcepibile senza la digitalizzazione della nostra storia.
Arriviamo così al concetto di storia, non come evento o narrazione, ma come ricordo trascritto. In questo senso, si parla di fine della preistoria e inizio della storia quando una società scopre il modo di registrare il presente per usi futuri, inventando la scrittura. Perciò la preistoria ha iniziato il suo declino circa seimila anni fa (almeno secondo alcuni studiosi: il dibattito è ancora aperto), con la comparsa della scrittura in Mesopotamia e in Cina. È una delle invenzioni più importanti nell’evoluzione umana. Nel quinto secolo a.C., a circa metà strada tra noi e la scrittura cuneiforme, Platone ne discuteva ancora animatamente, preferendo la memoria viva a quella scritta. Un po’ come se un grande filosofo si lamentasse dell’invenzione del computer tra 2.500 anni.
La scrittura, e quindi l’inizio della storia come documentazione, è stata motore di sviluppo individuale e sociale. La scrittura permette di fissare il censo di una regione, stilare un contratto, indicare le tasse o le leggi di un paese, o descrivere come costruire un meccanismo. Nei secoli, questa connessione tra sviluppo umano e documentazione si è fatta via via sempre più stretta. Non a caso i grandi imperi sono anche stati ottimi gestori delle ICT del loro tempo. Il secondo momento significativo è arrivato con l’invenzione della stampa, che unisce la registrazione delle informazioni con la loro accessibilità e trasmissione di massa. Ma oggi le nuove tecnologie digitali stanno provocando una terza trasformazione altrettanto radicale, aggiungendo l’elaborazione automatica delle informazioni alla loro registrazione e trasmissione. Ormai le società avanzate vivono e prosperano solo grazie alle strutture digitali che le sostengono. In passato era già difficile immaginare un mondo senza alfabeto o senza libri. Oggi è impossibile concepirlo senza digitale, basti pensare ai mercati finanziari, ai trasporti, o a buona parte del lavoro in ufficio. Quella che è stata per millenni una connessione tra sviluppo e ICT è diventata una dipendenza. È per questo che le nostre società rischiano cyber attacchi. Le ICT sono passate da motore di sviluppo a condizione necessaria di supporto delle nostre vite. E così la storia è diventata ancora “più storica” della storia stessa: siamo passati dalla storia all’iperstoria.
È una transizione incomparabilmente più rapida della precedente. E l’impatto di una simile trasformazione epocale è immenso. C’è un enorme bisogno di vederci chiaro, di porre le domande giuste, e di trovare le risposte migliori alle nuove sfide, anche politiche, poste dall’iperstoria. Ogni rivoluzione storica è stata accompagnata e in parte guidata da una rivoluzione concettuale. In altre parole, ogni epoca ha la sua filosofia, che la interpreta e la guida. Oggi è chiaro che, più viviamo iperstoricamente, in simbiosi con il digitale e le sue ICT, più la filosofia di cui abbiamo bisogno deve occuparsi del fenomeno dell’informazione. È per questo che la filosofia del nostro tempo per il nostro tempo è la filosofia dell’informazione. Elaborarla non sarà facile, ma è possibile, e soprattutto necessario, se vogliamo creare un’iperstoria migliore della storia che ci ha preceduto.

Scrittori più social che letterati

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Gianluigi Simonetti – Il Sole 24 Ore domenica – 27 Agosto 2017

L’editoria cerca due tipologie di autori: blogger esordienti con talenti extraletterari e persone famose in altri ambiti: dal cuoco, al politico, allo sportivo
Molta letteratura circostante, notavamo domenica scorsa, vive e lavora sul confine tra il finto e il vero. Certo non smette di inventare situazioni e personaggi, ma li puntella col massiccio ricorso a storie vere, raccontate se possibile in prima persona. Vanno forte, in generale, le cosiddette «scritture del sé»; la testimonianza diretta, che produce sul lettore un effetto immediato di verifica, è diventata la forma più naturale per esprimersi. E questa nuova abitudine comincia a provocare conseguenze sullo statuto stesso dell’autore.
A questo proposito un discorso diverso s’impone per poeti e narratori. Mentre il romanzo è abituato tradizionalmente a identificarsi col punto di vista degli altri, la poesia fa spesso i conti con una prospettiva egocentrica; la lirica, in particolare, tende da sempre a far coincidere io poetico e io autobiografico, voce letteraria e persona fisica. Proprio per questo la prima persona che parla in poesia si presenta da almeno un secolo a questa parte sempre più incerta di sé. Molti poeti attivi oggi, affezionati al Novecento, continuano a raffigurarla come fragile, scissa, balbettante, tutta aggrappata ai propri sparsi frammenti esistenziali. Altri, più smaliziati, scelgono invece di affidarsi a personaggi, o maschere, che è difficile o impossibile ricondurre allo scrittore in carne e ossa: è il loro modo per sottrarsi alla dittatura poetica dell’io. Altri ancora, più sperimentali e più depressi, puntano su un terzo tipo di prima persona, poco o nulla individuata, che parla un linguaggio banalissimo e vive esperienze generiche: un io che potremmo definire seriale, simile a un topo di laboratorio più che a un individuo vero e proprio. Insomma nella poesia di oggi soggetti deboli o debolissimi, che non sanno più chi sono, sono assai più numerosi dei soggetti forti, dotati di sentimenti e pensieri profondi. Il tasso di soggettivismo mediamente resta alto, ma tende a mettersi al servizio di una visione critica dell’io lirico tradizionale; così critica da renderlo sempre più inconsistente e sempre meno autobiografico.
Nella narrativa circostante, invece, il massiccio ricorso alla prima persona tende a produrre l’effetto contrario. Qui a parlare è di solito un soggetto estroflesso, individuato bene, simile o coincidente a quello dell’autore. L’io di Gomorra, per intenderci: testimone diretto o protagonista indiscusso delle vicende che racconta. Alcune affermazioni di Saviano – «Io vado nei posti non per vedere le cose, ma perché le cose vedano me» – suggeriscono che stiamo assistendo, nella narrativa di questi ultimi anni, al recupero di un io che ricorda quello della poesia, proprio mentre i poeti cercano di emanciparsene.
Simmetricamente, mentre una volta era la banalità del quotidiano ad attrarre l’attenzione dei romanzieri più ambiziosi, oggi è sempre più importante la presenza di un ’gancio’ narrativo, un elemento singolare capace di sintonizzarsi col costume o con la cronaca e di mettere la cultura letteraria in contatto con altri e più eccitanti campi del sapere. Questo è vero soprattutto se l’obiettivo consiste nell’ottenere un ascolto vasto e trasversale (e quindi entrare nelle classifiche di vendita). Efficaci, in questo senso, gli scrittori capaci di farsi riconoscere evocando modi, fenomeni o eventi che poi ramifichino nel sistema della comunicazione. Molti dei più fortunati casi editoriali degli anni Zero, indipendentemente dalla diversa qualità artigianale, hanno in comune questo epicentro, all’incrocio tra due estroversioni: un tema legato al costume affrontato da un outsider della letteratura (Gomorra come libro sulla mafia scritto da un giornalista d’assalto, La solitudine dei numeri primi come romanzo sull’anoressia scritto da un giovane fisico; eccetera).
Sensibile a queste stimoli, l’industria culturale si mette più volentieri all’ascolto di un certo tipo di storie e di un certo tipo di autore, facili da riassumere e da comunicare. La storia, dicevamo, è bene che sia forte: un conflitto, un dolore, una malattia, un’esperienza a qualche titolo eccezionale e ricca di spirito del tempo. L’autore è bene che venga da fuori, cioè dall’esterno del campo letterario. Che abbia talento e cultura multitasking; che sia capace di esibirsi su palchi e immaginari diversi. Una vocazione solo letteraria ormai è troppo e insieme troppo poco. La fede nella letteratura, proclamata a parole da tutti, è smentita dall’evidenza dei fatti: le sole armi dello stile non bastano e non possono bastare, se il vero terreno su cui tutto si decide è quello della contiguità, del mescolamento e della proliferazione.
Nella fase che stiamo descrivendo, un’attenzione particolare sembra riservata a due tipologie di autore, entrambe di solito legate al racconto in prima persona. La prima è quella del giovane scrittore (se possibile esordiente, o seminuovo): perché rappresenta un investimento a basso costo, perché parte da zero e di solito è malleabile e ricettivo. Molto meglio, come detto, se non è, o non sembra, soltanto un letterato; se possiede talenti non solo e non tanto culturali (per esempio fa lavori strani, pratica sport estremi, frequenta teatri di guerra, gestisce un blog); se si muove fuori dalle biblioteche o dai salotti (perché vive nei boschi, o sui mari, o nei ghetti, o nelle rete sociali); se è in grado di performare, e performarsi, oltre la scrittura. Nulla di tutto questo basta naturalmente a garantire un risultato, ma il fatto che l’alchimia ogni tanto si realizzi non cancella la contraddizione culturale. Reclutato negli spazi di mezzo tra letteratura e comunicazione, il giovane scrittore di successo spesso non è che un caso fortunato (e quasi mai organizzato) estratto tra decine, anzi centinaia di scrittori-massa, molti dei quali consacratisi alla letteratura a scopo più sociale che estetico. Talvolta per impegno civile più o meno sincero; talvolta per appartenere a un gruppo, o conquistare uno status; talvolta per ripiego, e in mancanza di meglio.
La seconda tipologia rientra nel novero delle cosiddette scritture «di categoria», brand narrativi costruiti proprio intorno alla specifica identità sociale di chi scrive. I generi innescati possono variare – dall’autobiografia all’intervista, dalla raccolta di barzellette al romanzo vero e proprio; l’importante è che a essere coinvolti siano «personaggi» dalla solida professionalità in qualche campo culturale cool che non sia la letteratura. Campioni dello sport (Agassi, autore di un classico «di categoria» come Open), artisti della televisione, del cinema o della musica pop (come Jovanotti, appassionato lettore di Open); ma anche cuochi, politici, giornalisti di costume, eccetera. Qui l’editoria può lavorare senza mezzi termini «su commissione»: identifica l’autore potenziale, lo recluta, gli suggerisce un percorso narrativo e un sostegno redazionale. La filiera è inversa rispetto a quella dell’esordiente: scrivere è il punto di arrivo, non quello di partenza. E se il giovane scrittore rappresenta una scommessa (eventualmente da perdere, ma senza danni), quello di categoria è investimento più consistente e insieme più sicuro: la casa editrice ci guadagna in copie vendute e visibilità, il personaggio soprattutto in capitale simbolico. L’opera scritta è di solito un residuo che non conta per nessuno, forse nemmeno per il lettore, perché non importa cosa si racconta, e come, ma quel che si è, o si è stati, o (in minor misura) si potrebbe essere. Anche se quel che si è socialmente finisce con l’incidere con ciò che si scrive: nei libri dei personaggi televisivi, ad esempio, ricorrono temi e strutture abbastanza precise, come ad esempio il senso di colpa, o la morte, o la critica stessa della comunicazione. Tutti elementi che ritornano nella scrittura dopo essere stati rimossi dalla televisione vera e propria.
L’autore ideale non esiste in natura, come non esiste il best seller costruito a tavolino nei laboratori dell’industria culturale. Però possiamo divertirci a delineare, a titolo di esempio, l’identikit immaginario dell’autore integrato, o personaggio-opera, artefice di tanti successi della letteratura circostante. Ne risulta la fisionomia di uno scrittore socialmente visibile, fotogenico e glamour (o all’opposto sconosciuto e appartato, protetto da un anonimato a sua volta carismatico); indipendente da scuole e movimenti, sgravato da ingombranti ascendenze culturali, ma in compenso circondato e sostenuto da «amici» (il supporto redazionale e il giornalismo embedded; i ringraziamenti fluviali nei paratesti dei libri; la presenza nel web, funzionale a una immagine vivace, iperconnessa, in continuo movimento). Uno scrittore meno letterato possibile, che somiglia a tutti e non somiglia a nessuno, dall’opinione pronta e dalla cultura onnivora. Aggiornato e aggiornabile, come un profilo social.
Quinto di una serie di articoli.
I precedenti sono stati pubblicati: il 30 luglio, il 6, il 13 e il 20 agosto

http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2017-07-30/la-letteratura-circostante-081336.shtml?uuid=AEIvqF6B

http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2017-08-21/romanzi-ad-alta-velocita-125900.shtml?uuid=AEgykm4B

http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2017-08-16/quanto-e-ibrido-questo-romanzo-110924.shtml?uuid=AEdjeK7B

http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2017-08-16/narrazioni-affamate-realta-121001.shtml?uuid=AEdXBRBC

Digitale: parliamo di cose serie

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Il sogno dell’Estonia, una vita tutta digitale
Beda Romano – Il Sole 24 Ore – 26 agosto 2017


Agli abitanti di Tallinn piace ricordare con malcelato orgoglio che la città estone è la più antica delle capitali baltiche. Se ne fa menzione già nel 1154, e ancora oggi il centro storico rimane tra i più preservati del Nord Europa. Al tempo stesso, il Paese è tecnologicamente tra i più avanzati al mondo. L’informatica permea la vita quotidiana, e soprattutto il rapporto tra il cittadino e lo Stato. Mentre l’Europa si interroga sui rischi per la privacy, sui pericoli degli attacchi cibernetici, sulla minaccia rappresentata dai robot, l’Estonia ha una risposta (o crede di avere una risposta) alle grandi sfide della società post-industriale.
Il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk ha definito il Paese «il leader della rivoluzione digitale a livello globale». Secondo le classifiche comunitarie, non solo l’Estonia è di gran lunga il primo stato membro nel grande settore dell’e-government, ma ha il tasso pro capite di start-up più elevato al mondo. Il governo estone, che dal 1° luglio ha assunto la presidenza di turno dell’Unione, ospiterà in settembre a Tallinn un vertice europeo a livello di capi di Stato e di governo tutto dedicato alla rivoluzione digitale.
Slim Sikkut è un dirigente del ministero dell’Economia. In carne e sorridente, spiega che ormai un cittadino estone è chiamato a presentarsi di persona dinanzi alle autorità del suo Paese in sole tre circostanze: al momento del matrimonio; quando si divorzia; o quando si acquista una casa. «Sono gli unici atti nella vita di una persona che non possono essere svolti in modo digitale».
Il primato nell’e-government
L’e-government è nato 15 anni fa. Oggi, la carta d’identità estone è al tempo stesso documento per l’espatrio, patente di guida, carta di debito, tessera sanitaria, abbonamento ferroviario, e molto altro ancora. «Il nostro obiettivo è di rendere più efficiente il lavoro dell’amministrazione pubblica e soprattutto il rapporto del cittadino con il governo», spiega ancora Sikkut. Un esempio: chi ha bisogno del rinnovo di una ricetta medica, prende contatto per posta elettronica con il proprio dottore che carica la prescrizione sulla carta d’identità via Internet. Il paziente potrà ordinare la medicina dal computer o recarsi in farmacia dove il farmacista scaricherà la ricetta direttamente dal microprocessore della e-ID Card. «Ogni mese – riassume il premier Jüri Ratas – risparmiamo 300 metri di carta, una pila alta quanto la Tour Eiffel».
La rivoluzione digitale permette agli estoni di dichiarare i propri redditi in cinque minuti; di adempiere al diritto di voto dal divano di casa; di firmare elettronicamente decine di documenti ogni settimana. Il risparmio è pari al 2% del prodotto interno lordo nazionale. «L’80% del successo della nostra strategia dipende dai cambiamenti politici e manageriali. Solo il 20% è imputabile alla tecnologia – racconta Priit Alarmäe, fondatore della società di consulenza Nortal –. Abbiamo ideato l’e-government ritenendo che al centro della strategia ci dovesse essere il cittadino. Anche la Germania ha una e-ID card, ma è stata pensata intorno allo Stato. E per questo motivo non avrà successo». Certo, ha aiutato anche la popolazione estone, più o meno quella della città di Milano. È affascinante scoprire, soprattutto per un italiano, che il puntello più importante della strategia estone è una legge del 2007. La Once Only Law, la chiamano qui: lo Stato non può chiedere a un cittadino un documento di cui l’amministrazione pubblica locale o centrale è già in possesso, o a fortiori che esso stesso ha emesso. «Le burocrazie non vogliono mettere in comune le loro informazioni. Considerano i dati una fonte di potere», conferma Alarmäe. La considerazione è una banalità. Ma accentrare tutte le informazioni personali nel microprocessore di una carta d’identità non pone forse interrogativi sulla sicurezza della privacy?
Il tema della privacy e della sicurezza
Ai dirigenti estoni la domanda sorprende, tanto più che il governo nel suo semestre di presidenza vuole promuovere il libero flusso dei dati quale quinta libertà di movimento nell’Unione. Ha spiegato a un gruppo di giornalisti bruxellesi la giovane e brillante presidente estone Kersti Kaljulaid: «La digitalizzazione deve avvenire in modo inclusivo. Se noi abbiamo avuto successo è perché il nostro e-government è il risultato di un partenariato tra pubblico e privato». Aggiunge il ministro della Difesa Jüri Luik: «C’è in questo paese un elevato grado di fiducia tra lo Stato e i cittadini. E poi abbiamo previsto molte tutele».
Sorprendente atteggiamento per un paese che nel XX secolo ha subito l’occupazione di due violente dittature, quella nazista e quella sovietica. La Germania, con una esperienza non dissimile, è rispettosissima della privacy. Forse uno dei motivi è da ricercare nella decisione del governo estone all’inizio del secolo di organizzare corsi di informatica per l’intera popolazione. Due giorni a tappeto di teoria e pratica totalmente gratuiti per bambini, adulti e anziani. Anche la bassa densità della popolazione – 28 abitanti per chilometro quadrato – ha fatto probabilmente dell’informatica un indispensabile strumento contro l’isolamento.
Neppure gli attacchi cibernetici, in forte crescita, fanno paura all’establishment estone. Alarmäe, il consulente informatico, è convinto che «nella maggioranza dei casi gli attacchi sono la conseguenza della stupidità umana: l’uso di chiavi d’accesso troppo facili da replicare o l’apertura di email visibilmente pericolose». Dal canto suo, parlando di «igiene cibernetica», la signora Kaljulaid nota come il sistema informatico estone sia difficile da aggredire: «Non abbiamo autostrade nel nostro Paese da mantenere in ordine. Il nostro compito è difenderci nel ciberspazio. Il segreto è anche di usare tecnologia vecchia, ma sicura e affidabile».
Mentre in Europa gli attacchi cibernetici nel 2016 sono aumentati del 300% rispetto al 2015, fino a 4mila al giorno, la serenità dell’Estonia appare sorprendente. Urve Palo è la ministra per le politiche digitali: «Le minacce cibernetiche – spiega con fatalismo – sono inevitabili, a meno di non volere fare passi indietro. Sarebbe un po’ come tornare ai cavalli, abbandonando le automobili…».
L’accordo con il Lussemburgo
Di recente, il governo estone ha firmato un accordo rivoluzionario con il Lussemburgo che prevede il trasloco nella sua ambasciata del Granducato il back-up dell’intero archivio del governo. Nel frattempo, proprio in Estonia, la Nato ha aperto nel 2008 un’agenzia dedicata alla collaborazione nella difesa cibernetica.
In visita a Tallinn non si può fare a meno di pensare al terzo rischio che nasconde la rivoluzione digitale: il futuro del lavoro quando l’intelligenza artificiale avrà messo radici. Negli Stati Uniti, il sindacato degli autotrasportatori sta conducendo una agguerrita battaglia contro i camion senza guidatore. In questo contesto, il governo estone ha lanciato nel 2014 un innovativo e controverso programma chiamato e-residency, residenza virtuale. Spiega Adam Rang, il giovane portavoce dell’iniziativa governativa: «L’obiettivo è di esportare il nostro ambiente economico». Lo schema è semplice. Con un investimento minimo di 100 euro, chiunque può risiedere elettronicamente in Estonia, approfittando dei suoi servizi informatici. Oltre 20.000 persone e più di 1.600 società, provenienti da quasi 140 paesi, si sono finora registrate. Il governo punta a 10 milioni di iscrizioni da qui al 2025. Qui a Tallinn si assicura che l’Estonia non vuole essere un nuovo centro off-shore nell’Unione; che l’iniziativa non nasconde il tentativo di fare concorrenza sleale in campo fiscale; e che il progetto di residenza virtuale non è stato pensato per aiutare i cittadini britannici a mantenere un piede in Europa dopo l’uscita del loro Paese dalla Ue.
«La rivoluzione digitale è ormai iniziata – riassume Sikkut, il dirigente del ministero dell’Economia –. Il cambiamento avverrà in ogni caso. Dobbiamo solo adattarci, ridurre gli effetti negativi. Tanto più che i vantaggi sono più numerosi degli svantaggi: poiché la società sta invecchiando, vi sarà in futuro un numero più basso di persone nella forza lavoro. Avremo quindi bisogno di robot informatici e intelligenza artificiale. Da qui ad allora il nostro obiettivo è di formare le persone perché siano pronte ». A Tallinn, la rivoluzione digitale appare tracciata. Forse non convince del tutto, ma i timori per la privacy o nei confronti dei robot non devono diventare a chi è in ritardo una giustificazione per girare lo sguardo dall’altra parte.

Intervista valeria fedeli ministra dell’istruzione

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Claudio Tucci – Il Sole 24 Ore domenica – 20 Agosto 2017
«Erasmus anche alle superiori»
Arriva il test Invalsi in lingua inglese – Per i presidi retribuzioni da dirigenti statali
A settembre l’alternanza scuola-lavoro «entrerà a regime e coinvolgerà 1,5 milioni di studenti». Il nuovo anno vedrà anche il debutto, alla primaria e alla secondaria di primo grado, della prova Invalsi in lingua inglese: sarà la prima volta che la scuola italiana “certificherà” a tutti gli alunni abilità di comprensione e uso di un idioma straniero, «ne beneficeranno in primis le famiglie meno abbienti che non possono permettersi costosi corsi privati». In vista della manovra di autunno «sto lavorando per estendere l’Erasmus agli ultimi due anni delle superiori, in modo tale da far diventare curriculare questa formidabile esperienza formativa». Per gli insegnanti, «il mio impegno è ridare dignità e prestigio alla loro professione nel nuovo contratto, che spero sarà chiuso entro dicembre». E ancora: tra pochi giorni uscirà il bando di concorso per 2mila presidi: «Vogliamo abbattere il fenomeno delle reggenze divenuto ormai cronico negli ultimi anni».
La ministra dell’Istruzione, Valeria Fedeli, ha scelto IlSole24Ore per annunciare le novità in arrivo con il nuovo anno tra i banchi e nelle aule. Il messaggio è chiaro: «La formazione del capitale umano deve tornare centrale nella società e nell’agenda politica. Dalla scuola, all’università, al futuro lavoro, è arrivato il momento di investire nell’apprendimento permanente». «A metà settembre – ha poi aggiunto – con i colleghi Giuliano Poletti e Carlo Calenda presenteremo alcune idee per rilanciare conoscenze e competenze, sempre più necessarie oggi nell’era di Industria 4.0».
Ministra, anche la scuola, passo passo, si sta aprendo al mondo del lavoro…
Sì. L’alternanza obbligatoria è stata una importante innovazione culturale e didattica. Dobbiamo ora puntare su progetti seri e di qualità anche perché nel 2018/2019 l’esperienza di formazione “on the job” sbarcherà agli esami di Maturità. Entro l’anno promuoveremo gli Stati generali dell’alternanza, e a breve partirà un portale nazionale di supporto alle scuole: ci sarà anche un “bottoncino rosso” affinché gli studenti possano denunciare eventuali abusi.
Partiamo proprio dagli studenti: quest’anno ci sono diverse novità per loro, per esempio la prova Invalsi in inglese…
In realtà è tutta la legge 107 a mettere al centro i ragazzi e il loro apprendimento. Ora entrano in vigore i decreti attuativi, che ho voluto con forza che fossero approvati: sono una delle parti più qualificanti della legge. Con i decreti attuativi si potenzia il diritto allo studio; c’è maggiore attenzione per studenti con disabilità; cambia l’esame della secondaria di primo grado, con meno prove e più valore al percorso di studio; ci sono misure concrete per contrastare l’abbandono scolastico. Un tema che abbiamo affrontato anche nel decreto Sud e nei provvedimenti del ministro Poletti sul reddito d’inclusione. Con gli investimenti in edilizia scolastica stiamo poi offrendo ai nostri ragazzi non solo plessi sicuri, ma pure laboratori e ambienti innovativi per l’apprendimento. Certo, la strada è lunga. Ma la direzione è quella giusta.
È stata coraggiosa a far partire la sperimentazione del diploma a 4 anni: finalmente ci avviciniamo ai principali paesi Ue…
Ho deciso di procedere con una sperimentazione nazionale che riguarderà 100 classi di altrettanti licei e istituti tecnici. Così si potrà gestire il procedimento autorizzatorio in modo più trasparente e ampliando il numero di scuole si potranno trarre risultati tecnicamente più attendibili. A settembre gli istituti che intendono candidarsi potranno presentare domanda e i 100 ammessi alla sperimentazione potranno accogliere le iscrizioni per le classi prime, che partiranno dal 2018/2019. Al termine della sperimentazione, nel 2023, si discuteranno i risultati con tutti i rappresentanti del mondo della scuola e con i decisori politici per realizzare il massimo di consenso possibile. Se la valutazione avrà esito positivo si potrà recuperare l’intera riforma dei cicli e, contestualmente, anche portare l’obbligo scolastico fino al termine dei tre cicli, ovvero fino al diciottesimo anno di età.
Ce la farà ad avere in classe tutti gli insegnanti il primo giorno di lezioni?
È un impegno che ho preso. Quest’anno la mobilità ha avuto numeri più contenuti (oltre 61mila prof cambieranno sede – nel 2016/2017 si spostarono più di 200mila docenti, ndr), e anche sui movimenti “solo per un anno” abbiamo messo regole più stringenti. Le operazioni di immissioni in ruolo stanno procedendo regolarmente. E grazie alla stabilizzazione di 15.100 posti in organico di diritto anche le supplenze lunghe si ridurranno. Negli scorsi anni hanno sempre superato quota 100mila. Siamo convinti che nel 2017/2018 scenderemo sotto questa soglia.
Ripristinerete il vincolo triennale di permanenza per i prof per frenare i soliti caroselli di inizio anno?
Sì. Finita l’eccezionalità prevista quest’anno si tornerà alle regole vigenti. Nel nuovo contratto allineeremo le procedure negoziali sui tre anni. Per me, lo ripeto, la continuità didattica è un valore.
A proposito di rinnovo del contratto, l’autunno è alle porte. Per i docenti, stop agli aumenti a pioggia, e più merito?
Intanto, il contratto riguarderà il nuovo maxi-comparto Scuola-Università-Ricerca. Mi auguro che in manovra si troveranno risorse aggiuntive, per chiudere la partita entro l’anno. Detto questo, ritengo giusto premiare i docenti migliori, ma ci devono essere condivisione e obiettivi comuni, e i criteri vanno negoziati. Il primo anno di applicazione dei 200 milioni di euro premiali ha mostrato più ombre che luci. Nella trattativa con il sindacato affronteremo pure il tema degli scatti d’anzianità. Intanto per i professori universitari m’impegno apertamente a sbloccare gli scatti: è un atto doveroso. E per i presidi lotterò affinché si armonizzino le loro retribuzioni con quelle della dirigenza pubblica.

Me lo auguro. E mi aspetto un contributo positivo pure da imprese e territori. Dobbiamo disegnare un’offerta didattica di qualità che favorisca l’inserimento al lavoro. Sto apprezzando il dibattito lanciato dal vostro giornale sui 20 anni persi dell’università italiana. Ritengo che gli atenei vadano sostenuti nel cambiamento, e questa nuova offerta d’istruzione terziaria può essere un primo passo per aprire il mondo accademico ai territori, guardando sempre all’interesse primario dei ragazzi .

Vademecum per perdersi in montagna

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Filippo La Porta – Il Sole 24 Ore domenica – 20 Agosto 2017


A volte la filosofia si trova preferibilmente fuori dei libri di filosofia. Prendete Vademecum per perdersi in montagna di Paolo Morelli, saggio digressivo e manualetto semiserio in forma di dizionario, reportage di vagabondaggi estivi su per i monti abruzzesi, introduzione ludico-taoista ai piaceri di viaggi ed escursioni a piedi. Forte è la tentazione di presentarlo come (salutare) anti-Cognetti: qui non si diventa più buoni sopra i milletré, e l’incanto delle vette ci sorprende quasi di lato, non è annunciato enfaticamente. In queste pagine viene adombrata una teoria portatile dell’esperienza, memore di Montaigne e Nietzsche (e di antichi testi sapienziali): l’esperienza umana è fondamentalmente perdersi, deviare, disorientarsi, per poi, forse ( nessuna garanzia!), ritrovarsi. Scorriamo subito alcune voci. «Bussola»: da evitare sia perché per una bussola c’è un solo Nord e un solo Oriente, mentre sono tanti, e sia per «provare l’esperienza del perdersi, anche a costo della vita»; «Carta geografica»: «di necessità assoluta solo se vuol fare l’esperienza di perdersi»; «Esperienza»: «l’unica occasione di vera conoscenza, l’unica che vale la pena, è quella di perdersi»; «Itinerario»: «al pomeriggio, quando vi sarete persi, ormai ragionerete sulla vanità delle cose del mondo»; «Montagna»: «La montagna vi accoglie dentro di sé, in essa potete perdervi e ritrovarvi, alternativamente e a piacimento…»
La prima parte del libro è «Attrezzi per vagabondaggi e piaceri», la seconda «Compagni!(piccola guida agli incontri di montagna). Accanto a voci di utilità pratica – “borraccia”, “carta igienica” , “coltelli”, “guanti”, “k-way”, “sacco a pelo”, “Spazzolino da denti”, “zaini” – ce ne sono altri più da prontuario etico-filosofico, che potrebbero richiamare la saggezza “cinese” del Me-ti brechiano: “coraggio”, “disciplina”, “fortuna”, “paura”, “puntiglio”… Nella voce “prudenza” leggiamo «assecondare la natura, schivando il carattere», mentre in quella sulla “volontà” apprendiamo che «le montagne del mondo sono puntinate di tombe di pietra , ometti, ceppi e croci di ferro battuto che ricordano ai volontari il loro destino». Nella seconda parte prevalgono le voci sugli animali della montagna: dalle api agli orsi, dalle aquile ai serpenti, dai camosci alle talpe. E qui la scrittura di Morelli, che discende dalla rivista «Il Semplice» (il risvolto è firmato da Ermanno Cavazzoni) potrebbe evocare certe pagine del Palomar calviniano, tra esattezza scientifica e piglio fiabesco. Si veda ad esempio la voce sul lombrico, che «non ha muscoli né ossa, zanne o artigli… mira a un unico scopo: far parte del metabolismo della terra. Il fango passa attraverso di lui e si rinnova, lui non fa niente… è il tempo libero racchiuso in una forma». In altri passi invece il motto di spirito lapidario, la battuta paradossale e l’humour nero fanno pensare a Manganelli: «entusiasmo»: «utile se ci si vuole suicidare», o anche l’osservazione che in montagna sono avvantaggiati i monchi, che si smontano a piacimento le mani e le ripongono nello zaino. Alla fine tutto il “sapere” – ironico ma anche serissimo – racchiuso in queste pagine mostra la sua prossimità a uno stoicismo universale, transnazionale: «non fare resistenza…se ti opponi a qualcosa che fortemente ti si oppone, hai già perso prima di cominciare. Meglio svicolare». Il vagabondaggio come strategia esistenziale. Inoltre: mi piace molto che tacito presupposto del vademecum sia l’idea che non tutta la modernità si esaurisce nell’esperienza della metropoli.
Avrei una unica obiezione a Morelli. Benissimo svicolare, eludere, aggirare. E anche riuscire a non avere forma. Però la vita di ciascuno di noi è quasi sempre – al contrario – sbattere contro le cose, impuntarsi, fare insensatamente resistenza, intestardirsi nell’assumere una forma (per quanto precaria). A volte la saggezza celebrata in queste pagine mi appare distante e impalpabile (come le visioni in alta quota), perfino “disumana”. Possiamo forse solo contemplarla, o sperimentarla a tratti, o anche solo accoglierne l’invito ad allentare la presa, a rinunciare ad un controllo pervasivo ( e infine illusorio) sulla realtà.

Paolo Morelli, Vademecum per perdersi in montagna , Nottetempo, Roma, pagg. 158, € 13,50

Solo l’innovazione crea i nuovi «posti»

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Il lavoro del futuro. viaggio nel cambiamento
Luca De Biase – Il Sole 24 Ore domenica – 20 Agosto 2017
L’identità sociale. La fatica. Il percorso delle aspirazioni. La forma organizzativa dell’espressione personale. La principale porta di accesso all’indipendenza economica. Troppo, troppo spesso chiusa, in Italia. Insomma: il lavoro. Il punto di incontro tra la speranza e la paura del futuro.
Sul lavoro del futuro, si addensa una nebbia che c’è bisogno di diradare. Perché l’incertezza in materia è paralizzante. Quanti vecchi lavori sono a rischio?
Quanti mestieri nati per servire alla raffica di novità avviate dall’elettronica sopravviveranno a loro volta alla spasmodica velocità dell’innovazione digitale? Come si impara a immaginare e creare il lavoro del futuro? Domande difficili. Anche perché si arriva ad affrontare queste questioni lungimiranti con il fiato corto. Il decennio iniziato nel 2007, segnato dalla crisi finanziaria e dalla spettacolare accelerazione digitale, si è tradotto in un’enorme fatica congiunturale e in una fortissima pressione strutturale, finendo col mettere in discussione convinzioni che sembravano intoccabili, almeno in Occidente. Un dubbio, inconcepibile dal Dopoguerra, si è fatto strada ormai da qualche anno e, a giudicare da un rapporto di McKinsey, è destinato a sciogliersi in una risposta affermativa: i giovani staranno peggio dei loro genitori. E in Italia il fenomeno è particolarmente chiaro. L’ascensore sociale alimentato dal lavoro sembra guasto. Ma si può aggiustare?
Tra le molte questioni aperte in questo problema tanto complesso, l’interpretazione delle opportunità offerte dalla tecnologia è parte essenziale della risposta. Non l’unica. E non univoca. Crea posti di lavoro o li distrugge? Entrambe le risposte sono plausibili. Perché il salto innovativo è enorme: e anche se internet, fissa e mobile, ha già generato cambiamenti dirompenti in una quantità di settori industriali, dall’editoria a commercio, dal turismo alle banche, la prossima ondata innovativa guidata dall’intelligenza artificiale e la robotica sembra destinata a produrre conseguenze ancora più drastiche. E ambigue. Da un lato, la Commissione Europea fonda la sua policy sulla convinzione che il miglioramento nelle infrastrutture digitali è motivo di crescita: la modernizzazione delle connessioni è un gigantesco investimento che però produrrà quasi mille miliardi di euro di Pil in più e 1,3 milioni di posti di lavoro entro il 2025. Dall’altro lato, però, non manca chi vede proprio nelle tecnologie digitali una causa di distruzione di posti di lavoro: una preoccupazione alimentata per esempio da una ricerca di notorietà superiore alla sua ambizione analitica condotta da Carl Benedikt Frey e Michael A. Osborne, di Oxford, che annunciava nel 2013 la probabile scomparsa del 47% dei posti di lavoro americani nei prossimi dieci o venti anni. Ma il dilemma è molto più complesso. Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee, dell’Mit, hanno preso in considerazione il grande disaccoppiamento tra occupazione e crescita osservato nei primi quindici anni del terzo millennio e lo hanno collegato alla tecnologia suggerendo di concentrare l’attenzione non tanto sulla quantità di lavoro ma sulla sua trasformazione, di portata simile a quella sperimentata nel corso delle rivoluzioni del vapore e dell’elettricità.
Di certo, esistono periodi nei quali la velocità con la quale si trovano strumenti per risparmiare lavoro è superiore alla capacità di trovare nuovi modi per usare il lavoro, come osservava John Maynard Keynes. Il grande economista parlava di “disoccupazione tecnologica” nel suo breve saggio del 1933 “Economic possibilities for our grandchildren (1930)”, dedicato peraltro alle generazioni che sarebbero vissute cent’anni dopo di lui, e dunque proprio ai giovani di oggi. Keynes era convinto che la “disoccupazione tecnologica” della sua epoca fosse un fenomeno temporaneo e che il livello di vita delle persone che sarebbero vissute cent’anni dopo di lui sarebbe stato da quattro a otto volte superiore a quello dei suoi anni Trenta. Proprio alle soglie del periodo cui Keynes ha dedicato quel saggio, il dibattito torna alla questione della “disoccupazione tecnologica”. E vale la pena di ricordare che, per Keynes, le nazioni che subiscono una distruzione superiore alla creazione di posti di lavoro sono quelle che non sono all’avanguardia del progresso tecnologico.
A dieci anni dalla crisi
L’Italia è costretta a riflettere su questo punto. A dieci anni dall’inizio della crisi finanziaria, la disoccupazione in media nei Paesi Ocse è tornata ai livelli precedenti, ma in alcune economie resta sensibilmente peggiore: e tra queste economie c’è anche quella italiana. L’Italia, peraltro, come registra lo “scoreboard” dell’agenda digitale europea, resta tra i Paesi meno avanzati in termini di ricorso al digitale nell’innovazione dei processi amministrativi e imprenditoriali, anche per l’arretratezza della disponibilità di infrastrutture oltre che per l’immaturità culturale e l’analfabetismo funzionale che la pervade. Non stupisce, quindi, che il dibattito sulla possibile scomparsa di posti di lavoro a causa della prossima grande ondata del progresso tecnologico in Italia rischi di apparire meno “urgente piano strategico” che “interessante argomento di conversazione”. Ma il punto è che solo chi coltiva una interpretazione strategica delle opportunità offerte dalla tecnologia può trasformarle in crescita dell’occupazione. Per gli altri, la questione resta astrusa e procrastinabile.
All’Ocse, Stefano Scarpetta, direttore del dipartimento che fa ricerca su occupazione, lavoro e affari sociali, sta sviluppando una strategia per l’occupazione. La sua ricerca vuole eliminare ogni determinismo tecnologico dall’analisi. Non è la tecnologia a causare il miglioramento o il peggioramento dell’occupazione. Alcuni lavori, forse il 10%, possono effettivamente essere destinati a venire sostituiti da macchine, ma la grande maggioranza dei lavori tenderà a trasformarsi. E gli effetti sociali di questa trasformazione saranno diversi nelle diverse economie, in base alle diverse policy che le guideranno. Osservando i fatti, il gruppo di Scarpetta indica tre grandi direttrici per le policy efficaci: tener conto della quantità ma anche della qualità dei posti di lavoro; mantenere l’inclusività del mercato del lavoro; sviluppare adattabilità e resilienza nel mercato del lavoro.

Effetto «resilienza»

La parola chiave è “resilienza”. Se una società punta tutto sulla resistenza al cambiamento diventa fragile, secondo Nassim Taleb, esponendosi al Cigno Nero che prima o poi la mette in crisi. Del resto, mettendo in fila le priorità: «La perdita di posti di lavoro in Italia non è stata certo causata dalla tecnologia ma dalla mancanza di innovazione tecnologica», dice il segretario generale della Fim-Cisl, Marco Bentivogli.
In realtà, una società deve sviluppare una consapevole abilità ad affrontare gli shock. L’economista ed ex ministro del Lavoro, Enrico Giovannini, con Anna Rita Manca e Peter Benczur, ne scrive in un paper per la Commissione Europea (“Building a Scientific Narrative Towards a More Resilient EU Society”). Di fatto, osservano gli autori, una reazione di fronte agli shock è quella del semplice adattamento: ma questo funziona solo quando gli shock sono di portata limitata o avvengono di rado. Non è il caso del mondo attuale, nel quale si devono invece affrontare shock ripetuti e profondi. In queste condizioni la resilienza non emerge dall’adattamento ma dall’anticipazione: ed è chiaro che un’economia sviluppa la capacità di anticipare i futuri shock puntando sull’innovazione. «In queste condizioni un’economia che non innova perde occupazione», dice Giovannini: «Quando c’è una successione di shock lunga e profonda, l’adattabilità al cambiamento riesce soltanto a ritardare la perdita di posti di lavoro. La resilienza richiede una risposta radicalmente trasformativa. Innovare significa trovarsi anni avanti rispetto ai concorrenti che cercano soltanto di adattarsi. Certo può capitare che innovando ci si sbagli e si esca dal mercato. Ma è più probabile che questo avvenga a chi non innova».
Ma la tensione innovativa tende anche a selezionare chi è capace di farlo e chi non sa come farlo. Il che significa che si rischia la polarizzazione, dice Scarpetta, cioè la crescita della distanza tra chi ce la fa e chi resta indietro.
Il tema del futuro del lavoro è dunque essenzialmente il tema della comprensione delle conseguenze della grande trasformazione attuale. Il Sole 24 Ore cerca chi dimostri di comprendere questa trasformazione. E dedica a questa ricerca una serie di articoli che comincia qui. Nelle prossime tappe, si cercherà di comprendere in che senso l’intelligenza artificiale può trasformare il lavoro, in che modo le relazioni sociali che si sviluppano in rete influenzano il successo delle aziende e dei professionisti e come evolvono i compiti di chi lavora nelle fabbriche della nuova automazione.
Ma sarà solo l’inizio di un viaggio nel quale ogni passaggio va preso come una preparazione del successivo. Perché il futuro non si prevede: si costruisce.

Amarcord neoborbonico in Puglia, Monumento al corno a Napoli, referendum secessionisti lombardo-veneti: fuga dall’Italia e dal futuro

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Nell’articolo odierno su Repubblica, Michele Ainis legge con ironia e sagace realismo (e senza ricorrere a noiose categorie politologiche) “come risponde la politica alle angosce che avviluppano gli italiani? , riscontrando la “somministrando eccitanti e sedativi”.
Il tono è semiserio, come si addice in una giornata ancora tutta dentro il calendario feriale, ma mette in luce le difficoltà di affrontare la contemporaneità con le sue sfide ed evitare le trappole della nostalgia.

L’INQUIETUDINE CHE CI RIPORTA A BERLUSCONI
MICHELE AINIS – la Repubblica – 19.8.17
È UN’ESTATE d’accidenti e di tormenti. Prima gli incendi, aumentati dell’81% rispetto all’anno scorso, con 44 mila ettari di Belpaese in fumo. E insieme ai roghi la siccità, l’arsura. Giugno è stato il mese più caldo degli ultimi 150 anni, al Centro-Sud non piove da tempo immemorabile. Merito del surriscaldamento globale, a dispetto di chi aveva celebrato i funerali della globalizzazione. Che invece è viva, vitale, però foriera di pericoli. Con i flussi migratori, che a luglio ci hanno costretto a spingere le nostre fregate nei mari della Libia. Con il terrorismo, sempre incombente come una belva in agguato (13.488 attentati nel 2016, gli ultimi a Barcellona e in Finlandia). Fino alla minaccia più estrema, più inaudita: la guerra nucleare.
Allora noi, per proteggerci, distogliamo lo sguardo dalle facce paonazze di Trump e Kim Jong-un. Cerchiamo scampo fra le mura di casa, ci immergiamo nei nostri paesaggi domestici. E di nuovo ci prende alla gola la paura. Paura del maschio (quattro donne uccise dai loro compagni in poche ore, fra il 13 e il 14 luglio; d’altronde in Italia il femminicidio colpisce, in media, ogni tre giorni). Paura dello straniero (il 56% degli italiani pensa che un quartiere con troppi immigrati si degrada, stando al Rapporto della commissione parlamentare Jo Cox, presentato il 20 luglio). Paura di perdere il lavoro, o di non trovarlo, come succede al 35% dei nostri giovani. Perfino paura dei vaccini (l’ultimo episodio il 31 luglio, in Calabria: un medico picchiato dal papà d’un bambino autistico, secondo lui a causa della vaccinazione).
Da qui un sentimento d’inquietudine, cupo come la notte. E di paura, certo. Ma come risponde la politica italiana alle angosce che stanno avviluppando gli italiani? Somministrandoci due farmaci: gli eccitanti e i sedativi. Sui primi puntano gli imprenditori della paura, quelli che gonfiano le nostre fobie pensando di gonfiare i propri voti. I secondi ci vengono dispensati dagli imbonitori, i quali viceversa negano ogni motivo d’allarmismo, sono rassicuranti, ottimisti, talvolta gioiosi. Diciamo, per capirci, che nella prima categoria s’iscrive Salvini, nella seconda Renzi; ma in realtà sono moltissimi gli esponenti di partito che riflettono questo doppio identikit.
Il guaio è che si rivelano ansiogene entrambe le ricette. Sì, pure la seconda, giacché per esorcizzare la paura ha bisogno d’evocarla. O forse ansie e timori si moltiplicano da quando manca un capitano con le mani salde sul timone. I nuovi leader parrebbero sfioriti, e nel frattempo in circolo non s’incontrano statisti, solo una folla di statali. Meglio le vecchie glorie, dunque, meglio l’usato sicuro. D’altronde era già scritto: alla fine della giostra, il giovanilismo della rottamazione ha rottamato anche se stesso.
Ecco, sgorga da qui, da questo sentimento negativo e difensivo, la nuova centralità di Silvio Berlusconi (81 anni a settembre). Così come la popolarità di Paolo Gentiloni (43%, secondo un sondaggio diffuso da Eumetra il mese scorso), nuovo al governo però insieme antico come le fotografie dei nonni. E in ultimo tornano in auge strategie e liturgie della Prima Repubblica, vituperata un tempo, agognata in questo tempo d’incertezze. Il proporzionale, dove nessuno vince, ma almeno nessuno viene vinto. I governi di transizione, come quelli di Rumor. I silenzi presidenziali di Einaudi o di Leone, rinverditi da Sergio Mattarella. La politica dei due forni, coniata da Andreotti quando la Dc sceglieva a turno alleati di destra o di sinistra, e adesso riesumata da Alfano per le elezioni siciliane. Del resto, qual è l’alternativa? Se il presente ti tormenta, se il futuro ti sgomenta, meglio un riflesso del passato, quantomeno t’addormenta.

L’interesse nazionale e la prospettiva europea

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Le vere priorità UE

Sergio Fabbrini  Il Sole 24 Ore domenica  13 AGOSTO 2017
Pochi concetti sono fraintesi come quello di “interesse nazionale” (che pure dovrebbe esprimere le priorità di un Paese nelle relazioni con gli altri Paesi). In Italia ciò è particolarmente evidente, vista la diffidenza con cui lo si è tradizionalmente considerato. Eppure, ogni volta che emergono contrasti tra noi ed altri Paesi, quel concetto ritorna fuori. Dopo tutto, all’interno dell’interdipendenza globale, non vi è un ambito di policy che non susciti contrasti di interessi tra gli Stati. Anzi, lo sviluppo del processo di integrazione europea, che si riteneva avrebbe condotto al superamento degli interessi nazionali, ha finito per produrre l’esito opposto. Con il risultato che l’Italia, che ha avuto storicamente difficoltà a definire il proprio interesse nazionale, si è trovata spiazzata.
Chi non si è fatto spiazzare sono la destra e la sinistra radicali. Hanno idee chiare perché prive di fondamento. Per la destra radicale, l’interesse nazionale è dappertutto, in quanto coincide con la sovranità nazionale. Per la sinistra radicale, l’interesse nazionale non esiste, in quanto contano solamente gli interessi sociali o di classe transnazionali. La destra radicale non accetta di riconoscere che lo Stato nazionale, nella sua (presunta) sovranità, è morto con il secondo conflitto mondiale. I sovranisti della destra (come Giorgia Meloni o Matteo Salvini), ma anche del populismo di “né destra né sinistra” (come Luigi Di Maio), non si sono ancora accorti del fallimento degli Stati nazionali. L’integrazione sovranazionale post-bellica, sia a livello europeo che internazionale, ha costituito il tentativo (finora riuscito) di salvare lo Stato nazionale da sé stesso. Anche la sinistra radicale non ha preso atto dei cambiamenti generati, sugli assetti sociali nazionali, dai processi di interdipendenza, integrazione e globalizzazione. Essa continua a pensare in termini prevalentemente nazionali, come se lo Stato nazionale continuasse a rappresentare l’esclusivo contesto in cui si svolge il conflitto tra interessi sociali. Per i sovranisti della sinistra (come Nicola Fratoianni o Stefano Fassina o Maurizio Landini) il conflitto sociale è un “gioco a somma zero” che si svolge all’interno di uno Stato senza implicazioni fuori di esso.
Per loro è anzi pericolosa l’idea di aggregare interessi sociali diversi intorno ad una priorità nazionale da perseguire sul piano sovranazionale o internazionale. Naturalmente, le cose sono più complicate rispetto al modo di pensare della destra e della sinistra radicali. Contrariamente a ciò che ritiene la prima, l’interesse nazionale non coincide con la sovranità nazionale. Contrariamente a ciò che ritiene la seconda, la difesa degli interessi sociali non è indipendente dalla promozione dell’interesse nazionale in contesti interstatali. In realtà, più sono procedute l’interdipendenza e l’integrazione, più si sono moltiplicate le politiche pubbliche condivise da più Paesi. Come identificare il proprio interesse nazionale in questo contesto? Se consideriamo i due maggiori Paesi europei, vediamo che essi hanno adottato due modelli distinti per dare una risposta alla domanda. Per i francesi, l’interesse nazionale è ciò che viene definito come tale dall’alta tecno-burocrazia dello Stato, generalmente formatasi nelle grandes écoles, sulla base di una visione storica o di una valutazione strategica. Si tratta di una élite tecnocratica che è stata formata proprio per proteggere l’interesse nazionale dalle invasioni contingenti della élite politica. Un compito non più necessario quando le due élite coincidono, come è il caso del governo Macron. Per i tedeschi, invece, l’interesse nazionale è ciò che è definito dagli equilibri tra i principali gruppi sociali nel contesto della comune condivisione dei valori ed obiettivi che il Paese si è dato dopo la tragedia bellica. Se in Francia chi decide l’interesse nazionale è collocato nello Stato o collegato allo Stato, in Germania è invece nel sistema societario di cogestione della Mitbestimmung. Questo spiega perché, in Germania, i partiti politici, le grandi imprese e i sindacati sono fortemente intrecciati tra di loro (come abbiamo visto con le dimissioni del governatore socialdemocratico della Bassa Sassonia, Christian Wulff, che si faceva preventivamente correggere i suoi comizi dalla Volkswagen). E perché in Francia il sostegno dell’establishment pubblico è la condizione necessaria, anche se non sufficiente, per governare.
Naturalmente, le élite pubbliche (in Francia) e quelle societarie (in Germania) sono consapevoli delle implicazioni dell’integrazione sovranazionale. Esse hanno avviato da tempo una pratica di reciproca collaborazione, così consolidando il ruolo di guida dei loro Paesi in Europa. In entrambi i casi, tuttavia, l’interesse nazionale è definito precedentemente a quello europeo, al punto che quest’ultimo è stato spesso fatto coincidere con la posizione di equilibrio tra gli interessi nazionali dei due Paesi. Di qui l’inevitabile deriva verso una visione egemonica circa il ruolo di quei Paesi (o dell’asse tra di essi) rispetto agli altri Paesi europei. In Italia le condizioni per definire l’interesse nazionale sono state molto diverse. Contrariamente alla Francia, non abbiamo potuto affidare questo compito all’alta tecno-burocrazia dello Stato, perché troppo legata alla politica e troppo poco al merito. Contrariamente alla Germania, non abbiamo potuto affidare questo compito ai principali gruppi sociali, perché troppo frantumati al loro interno e troppo ostili l’uno all’altro. Abbiamo finito così per trasferire il nostro interesse nazionale in quello europeo. Se in Francia e in Germania, la definizione dell’interesse nazionale ha preceduto la definizione dell’interesse europeo, in Italia è avvenuto il contrario.
Ciò non è più possibile. Occorre prendere atto che l’integrazione e l’interdipendenza sovranazionali hanno reso più (e non meno) acuta l’esigenza di identificare gli interessi nazionali. Tale identificazione, tuttavia, deve essere perseguita nel contesto dei processi di integrazione in cui siamo inseriti. Se l’interesse nazionale è la carta delle priorità che dobbiamo promuovere e se tali priorità sono condizionate dall’interdipendenza con le priorità degli altri Paesi, allora esso non può essere definito né prima (come avviene in Francia e Germania) né dopo (come è avvenuto finora in Italia) l’interesse europeo. Ma contestualmente a quest’ultimo. L’interesse nazionale e l’interesse europeo sono distinti, ma vanno definiti insieme attraverso un processo di reciproco e costante adattamento. Un’operazione politica difficile ma possibile. Si consideri la crisi libica. È indubbio che l’Italia abbia un interesse nazionale alla stabilizzazione di quel Paese (da lì provengono i migranti che arrivano nelle nostre coste, da lì deriviamo le risorse energetiche che fanno funzionare le nostre attività e città). Eppure, nonostante siamo l’unico Paese europeo sul campo (diplomaticamente ed economicamente) e nonostante sappiamo che la stabilità politica della Libia è impensabile senza un coinvolgimento del leader della Cirenaica (il generale Khal?fa Belq?sim Haftar), ci siamo appiattiti sulla posizione europea e internazionale che riconosce solamente il governo di Fayez al-Sarraj (con sede a Tripoli). Tale appiattimento non ha aiutato a stabilizzare il Paese, lasciando insoddisfatto non solo il nostro interesse nazionale ma anche quello europeo (i migranti non si fermano a Lampedusa). Perché non abbiamo preso un’iniziativa autonoma pur nel contesto della nostra collaborazione europea? Insomma, invece di brandire il vessillo dell’interesse nazionale a caso, dovremmo definire con precisione le nostre priorità e quindi perseguirle responsabilmente. È bene che siano generalmente le esigenze dell’Europa a condizionare il nostro interesse. A volte, però, può essere necessario che sia il nostro interesse nazionale a condizionare quello europeo.