Un Piano industriale per l’Italia delle competenze

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Carlo Calenda ministro dello Sviluppo economico
Marco Bentivogli segretario generale metalmeccanici Fim Cisl

12 Gennaio 2018 – Il Sole 24 Ore
La fine degli stimoli della Bce, l’evoluzione, certo non orientata a maggior flessibilità, dell’Eurozona e la restrizione dei parametri di valutazione sugli Npl, renderanno il 2018 un anno potenzialmente critico per la tenuta finanziaria del Paese. L’unica strada percorribile è quella di continuare a muoversi lungo il “sentiero stretto” percorso in questa legislatura ovvero riduzione del deficit, aumento di Pil e inflazione. Per il 2019 il Documento di economia e finanza prevede un rapporto deficit/Pil allo 0,9%.
Eventuali margini di flessibilità si potranno negoziare solo a fronte di un convincente “Piano industriale per il Paese” focalizzato su crescita e investimenti. A tutto ciò si aggiunge la sfida di una rapidissima innovazione tecnologica che mette in discussione modelli produttivi e organizzazione del lavoro. Se l’Italia non saprà essere all’altezza andremo incontro a un secondo shock sistemico come quello vissuto nella prima fase della globalizzazione. Riteniamo che l’avvio della campagna elettorale mostri una diffusa mancanza di consapevolezza rispetto a questa situazione. La parola d’ordine sembra essere “abolire”, scaricando i costi sulla “fiscalità generale” e alimentando l’equivoco che essa sia altro rispetto ai soldi dei cittadini. Questo equivoco è alla base di decenni di irresponsabilità finanziaria che hanno portato l’Italia vicino al default nel 2011. Noi pensiamo invece che la parola d’ordine debba essere “costruire” un futuro fondato su tre pilastri: Competenze, Impresa, Lavoro.
1 | Competenze e Impresa:
la situazione del Paese
Competenze
La rivoluzione digitale crea e distrugge occupazione e non è possibile prevedere con certezza quale sarà il saldo netto. Le dieci professioni oggi più richieste dal mercato non esistevano fino a 10 anni fa e il 65% dei bambini che ha iniziato le scuole elementari nel 2016 affronterà un lavoro di cui oggi non conosciamo le caratteristiche. Nella grande riallocazione internazionale del lavoro, l’occupazione crescerà nei Paesi che hanno investito sulle competenze digitali e si ridurrà in quelli che non le hanno acquisite in maniera adeguata ad affrontare la trasformazione del tessuto produttivo. In Italia ci sono profondi gap da colmare: solo il 29% della forza lavoro possiede elevate competenze digitali, contro una media Ue del 37%. Un divario che rischia di aumentare ulteriormente considerando la bassa partecipazione di lavoratori a corsi di formazione (8,3%) rispetto alla media Ue di 10,8% e a benchmark quali Francia 18,8% e Svezia 29,6%.
Il lavoro nell’impresa 4.0 dovrà superare il paradosso italiano per cui i giovani finiscono troppo presto di studiare, iniziano troppo tardi a lavorare e quando trovano un lavoro, interrompono completamente i loro rapporti con la formazione. A questo fine, proponiamo il riconoscimento del diritto soggettivo del lavoratore alla formazione in tutti i rapporti di lavoro e la sua definizione come specifico contenuto contrattuale.
Impresa
Dopo gli anni della grande crisi 2007-2014, gli investimenti industriali e l’export sono finalmente ripartiti. Nel 2017 la crescita dell’export si è attestata intorno al 7%, quella degli investimenti industriali, incentivati dal Piano Impresa 4.0, intorno all’11%. Una dinamica migliore di quanto registrato in Germania rispetto alla quale, però, i nostri investimenti industriali sono circa la metà in termini assoluti e il rapporto tra esportazioni e Pil resta inferiore di circa 20 punti. Un divario che dipende da alcune fragilità peculiari del nostro tessuto produttivo: 1) il numero limitato delle imprese pienamente integrate nelle catene globali del valore (20% circa del totale); 2) le differenze di performance territoriali e tra classi d’impresa; 3) condizioni di contesto – costo dell’energia, concorrenza, connettività – ancora spesso meno favorevoli rispetto ai competitor internazionali; 4) un mercato del lavoro ancora troppo centralizzato con modalità di determinazione delle condizioni salariali lontane dal contesto competitivo delle singole imprese.
Quello che proponiamo è una politica industriale e del lavoro non retorica, fortemente focalizzata su queste fragilità e in grado di produrre avanzamenti misurabili su ciascuno di questi temi. La base di partenza non può che essere quella delle politiche realizzate dagli ultimi due governi che hanno contribuito a determinare una dinamica positiva di occupazione, reddito, esportazioni e di saldi di finanza pubblica. Oggi, al termine della legislatura, questi risultati non appartengono più a questo o a quel governo, ma sono piuttosto un patrimonio comune di regole, leggi, provvedimenti che delineano un sentiero virtuoso di crescita e di nuove opportunità per gli investimenti.
2 | Priorità e azioni
Impresa 4.0
Il Piano nazionale Impresa 4.0 ha riportato la politica industriale al centro dell’agenda del Paese dopo vent’anni con una dotazione di risorse adeguate: circa 20 miliardi di euro nella legge di bilancio 2017 cui si aggiungono 10 miliardi di euro dell’ultima legge di bilancio. L’efficacia del piano è testimoniata dalla ripresa degli investimenti delle imprese – che durante gli anni della crisi hanno subito una riduzione di circa il 25% – e dalla crescita degli ordinativi interni nel corso del 2017.
Pur confermando l’impostazione generale del Piano, per gli anni a venire occorrerà procedere lungo due direzioni. Da un lato occorrerà rifinanziare per il 2019 il Fondo Centrale di Garanzia per 2 miliardi di euro, in modo da garantire circa 50 miliardi di crediti finalizzati agli investimenti delle Pmi. Dall’altro occorrerà sostenere l’investimento privato per l’acquisizione e lo sviluppo di competenze 4.0. In concreto: dovranno essere stanziati 400 milioni di euro aggiuntivi all’anno da destinare agli Istituti Tecnici Superiori con l’obiettivo di raggiungere almeno 100mila studenti iscritti entro il 2020 (in Italia attualmente gli studenti degli Its sono circa 9000 contro i quasi 800mila della Germania); i Competence Center dovranno essere rafforzati al fine di costruire una vera rete nazionale, per lo sviluppo e il trasferimento di competenze digitali e ad alta specializzazione (sul modello del tedesco Fraunhofer e dell’inglese Catapult); dovrà essere reso strutturale lo strumento del credito di imposta alla formazione 4.0, previsto attualmente in forma sperimentale.
Lavoro 4.0
L’impresa 4.0 ha bisogno, oltre alle tecnologie e alle competenze, di nuovi modelli di organizzazione del lavoro, che vanno quindi incentivati come ulteriore tassello del Piano.
Dal punto di vista contrattuale occorre rispondere ad una produzione che sarà sempre più “sartoriale” e quindi il Contratto nazionale ha senso non solo se ne riduce drasticamente il numero delle tipologie – che negli ultimi anni è esploso – ma anche e soprattutto se il suo ruolo resta quello di “cornice di garanzia” finalizzata ad assicurare il più possibile una dimensione di prossimità all’impresa. Va incoraggiato un vero decentramento contrattuale, utile anche ai programmi condivisi di miglioramento della produttività, a livello territoriale, di sito e di rete. Questo processo, unitamente ai nuovi contenuti della contrattazione (welfare, formazione, orari, flessibilità attive) possono rappresentare il nuovo “patto per la fabbrica” in grado di centrare la sfida della produttività e dell’innovazione a partire dalle Pmi per le quali la contrattazione territoriale può diventare una risorsa fondamentale. Permane in alcuni settori il rischio che i nuovi modelli organizzativi comportino una riduzione del valore del lavoro che va contrastato con la capacità di costruire nuove tutele e diritti sociali ma, soprattutto, con un salario minimo legale, per i settori non coperti da contrattazione collettiva.
Energia
La Strategia Energetica Nazionale definisce la strada per affrontare le grandi questioni della riduzione del gap di prezzo e di costo dell’energia; della sostenibilità degli obiettivi ambientali; della sicurezza di approvvigionamento e della flessibilità delle infrastrutture energetiche, rafforzando l’indipendenza energetica dell’Italia.
Al 2030, la Sen prevede azioni per 175 miliardi di investimenti, di cui oltre l’80% in energie rinnovabili ed efficienza, che devono dar vita a una nuova specializzazione industriale dell’Italia. Sul versante della competitività, il varo della normativa sulle imprese energivore a partire dal 1° gennaio di quest’anno ha risolto il problema dello svantaggio sul prezzo dell’energia elettrica per circa 3mila aziende. Analoga norma andrà adesso rapidamente attuata per le aziende gasivore, insieme al corridoio di liquidità per allineare il costo del gas a quello del Nord Europa.
L’abbandono del carbone nel 2025 nella produzione elettrica necessita, oltre che degli investimenti in reti e rinnovabili, anche di un deciso coordinamento operativo e di un focus forte sul rafforzamento e sulla diversificazione delle aree di approvvigionamento del gas.
Concorrenza
Negli ultimi anni l’Italia ha fatto passi avanti, ma molto ancora resta da fare. La faticosa esperienza della prima legge “annuale” per la concorrenza il cui iter parlamentare è durato quasi tre anni mostra chiaramente quanto la concorrenza sia ancora guardata con sospetto.
Occorre, da un lato fare della manutenzione pro-concorrenziale dell’ordinamento un’operazione sistematica e veramente annuale, dall’altro, focalizzare meglio gli interventi con iniziative “settoriali”. Nella prossima legislatura sono almeno due i capitoli su cui è necessario concentrarsi. Il primo è quello dei servizi pubblici locali ancora spesso poco efficienti mentre il secondo è quello delle concessioni: da quelle balneari alle autostrade. Anche qui è necessario disciplinare le modalità di affidamento competitivo evitando ulteriori proroghe e le caratteristiche della concessione (modalità di determinazione dei ricavi e durata) oltre ad assoggettarne i contenuti alla massima trasparenza, pur riconoscendo la possibilità di introdurre correttivi sociali e cautele a difesa dell’occupazione e degli operatori più piccoli.
Banda Larga
Come per le reti di trasporto di persone e merci e le reti energetiche e idriche, una rete di telecomunicazioni moderna ed efficiente rappresenta un fattore chiave di competitività per il sistema Paese ma anche un servizio essenziale.
Su questo fronte la situazione italiana attuale presenta un preoccupante ritardo rispetto alle economie con le quali ci confrontiamo. Un ritardo che abbiamo iniziato a colmare con il Piano Banda Ultra Larga del Governo, che prevede la copertura dell’85% della popolazione al 2020 con 100 Mbps. I dati dell’ultima consultazione pubblica del 2017 ci dicono che solo il 2% dei numeri civici nazionali è raggiunto da una connessione superiore a 100 Mbps, il 30% dispone di connettività oltre 30 Mbps, mentre quasi il 70% dei civici non è coperto dalla banda ultra larga.
Il carattere sistemico dell’infrastruttura Tlc, che ha bisogno di grandi investimenti di sviluppo e ammodernamento suggerisce di verificare la possibilità di concentrare lo sviluppo della rete in un unico operatore, valutando con tutte le cautele del caso un’eventuale remunerazione con tariffe regolamentate. In tal modo sarebbe possibile utilizzare al meglio le risorse disponibili pubbliche e private, evitando duplicazioni infrastrutturali e garantendo la massima concorrenza e neutralità nell’offerta di servizi retail.
Politica commerciale
e internazionalizzazione
Occorre giocare la partita dell’internazionalizzazione contemporaneamente in attacco e in difesa. In attacco, gli accordi di libero scambio sono lo strumento principale attraverso il quale favorire l’accesso delle Pmi ai mercati esteri e vanno sostenuti a partire dalla ratifica della accordo con il Canada. Contemporaneamente, in difesa, dobbiamo perseguire l’obiettivo di creare un contesto di regole condivise necessarie a garantire la natura equa del commercio internazionale e a mitigare gli effetti di una globalizzazione squilibrata come abbiamo fatto, assumendo un ruolo guida in Europa, nel caso del mancato riconoscimento alla Cina dello status di economia di mercato. La prossima battaglia che dobbiamo portare avanti è quella per l’inclusione dei principi di sostenibilità ambientale e sociale negli accordi di libero scambio. La stessa strategia duale dovrà continuare ad applicarsi per l’attrazione degli investimenti diretti esteri. Da un lato, razionalizzazione e semplificazione della governance delle politiche di attrazione e definizione di nuovi strumenti nella convinzione che l’Italia ha bisogno di capitale di crescita. Dall’altro lato, tutela dell’interesse nazionale contro operazioni predatorie verso imprese ad alto contenuto tecnologico anche usando la nuova golden power varata dal Governo a questo scopo. Infine il Piano straordinario per il Made in Italy, che ha coinvolto oltre 17mila imprese, deve essere prolungato e potenziato in particolare nelle direttrici dell’e-commerce e dell’aumento delle imprese esportatrici.

3 | Gestire le trasformazioni

I processi di trasformazione dell’economia si sono fatti sempre più rapidi con l’accorciarsi dei cicli di sviluppo tecnologico che ha reso sempre più frequente l’emergere di tecnologie disruptive. La nuova condizione di normalità è dunque quella in cui segmenti o interi settori industriali sono costantemente spiazzati. Occorre attrezzare il Paese a prendersi cura degli “sconfitti”; di quei lavoratori e di quelle imprese che nel breve periodo sono vittime del cambiamento. Alcune iniziative sembrano aver dato risultati. È il caso della strategia di recovery settoriale attuata per i call center con salvaguardia salariale e il ritorno degli investimenti nei settori dell’alluminio e dell’acciaio.
Occorre però sistematizzare queste modalità di azione, ingegnerizzando per così dire il modello e massimizzando la velocità di intervento. Funzionale allo scopo sarebbe la possibilità di potenziare nelle aree di crisi complessa soluzioni eccezionali: strumentazioni dedicate per le imprese beneficiarie di agevolazioni (deroghe alle regole del mercato del lavoro e ammortizzatori sociali, semplificazioni e accelerazioni burocratiche/autorizzative, supporto prioritario del Fondo di Garanzia, defiscalizzazioni) e iter accelerati per bonifiche e interventi infrastrutturali per poter rapidamente rilanciare l’attività d’impresa. Altro strumento fondamentale per ricostituire base manifatturiera sono i Nuovi Contratti di Sviluppo destinati per l’80% al Mezzogiorno che spesso vedono protagonisti grandi aziende multinazionali. Il rifinanziamento dei Contratti di Sviluppo costituisce una priorità per gli anni a venire. Occorre infine varare un fondo equivalente al “Globalization Adjustment Fund” dedicato alla riconversione di lavoratori e aziende spiazzati da innovazione tecnologica e globalizzazione.
Non esiste sviluppo, reddito e benessere senza investimenti, imprese e lavoro. Le scorciatoie conducono a vicoli ciechi e non di rado a veri e propri burroni. L’Italia è ancora fragile e le ferite della crisi ancora aperte. È fondamentale che chiunque governerà il Paese riparta da questa consapevolezza e da queste priorità.

Politiche di coesione

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Macroregioni, le opportunità Ue da cogliere
Laura Cavestri  –  11 Gennaio 2018 – Il Sole 24 Ore
Se due vicini hanno un problema, è più facile affrontarlo (e provare a risolverlo) insieme. Un principio semplice, per un’agenda fitta. Dalle sinergie tra università e distretti alla ricerca , dalla prevenzione delle catastrofi naturali, a turismo, pesca ed energia, la politica macroregionale della Ue compie 10 anni, con un bilancio di luci e ombre.
Per non parlare della necessità di dare una spinta a strade e ferrovie per migliorare l’interconnessione in Europa o di una politica energetica che si faccia carico di non disperdere risorse e attivarsi al meglio, laddove si può, per riutilizzare gli scarti. Un’opportunità di crescita per i territori ed evidentemente , anche per le imprese – in termini di bandi, partnership, sinergie in ricerca e innovazioni – eppure quasi sconosciuta.
Partita nell’area baltica con la prima iniziativa “nata dal basso” – dall’esigenza di regioni, Länder e aree contigue di costruire reti e sinergie per affrontare sfide e valorizzare il patrimonio comune – la politica macroregionale fa il suo primo tagliando lunedì all’assemblea plenaria dell’Europarlamento a Strasburgo.
Una relazione – la farà l’europarlamentare italiano Andrea Cozzolino – che sarà l’occasione (rara) per fare un primo bilancio di quattro esperienze nate, all’inizio, al di fuori di ogni “patente Ue”. E che oggi, benché inserite ufficialmente nella cooperazione territoriale sostenuta da Bruxelles attraverso i fondi Fesr (di sviluppo regionale), si interrogano sul loro futuro. Perché tutte e quattro le attuali macroregioni – la Baltica , la Danubiana , la Ionico-Adriatica e l’Alpina– si reggono su un “patto” con Bruxelles, che si basa su tre pilastri: no a finanziamenti, no a un budget ad hoc, no a una struttura e a personale dedicati. Obiettivo nobile, all’inizio: non creare una sovrastruttura che “appesantisse” le Pa dei Paesi membri e disperdesse fondi in mille rivoli. Soprattutto, stimolare anche gli Stati a impegnarsi con finanziamenti propri.
Tuttavia, in questi mesi, mentre si discute di come destinare il bilancio Ue post-2020 (che si profila più “povero” senza la Gran Bretagna mentre le sfide, dall’immigrazione alla crescita economica aumentano), di macro-regioni non si parla. Tanto che a novembre sono state le regioni alpine – nel corso del forum annuale di Eusalp – a rompere gli indugi: «Chiediamo all’Europa di assicurare che le strategie macroregionali siano tenute in considerazione».
La Commissione, per ora, chiude la porta sia a qualunque forma di finanziamento ad hoc sia a un cambio di passo sulla governance per le macro-regioni. Ovvero, fate con quello che avete. Al massimo partecipate ai bandi Ue come gli altri enti pubblici. I fondi disponibili sarebbero quelli per lo sviluppo regionale (un totale di 10 miliardi per il periodo 2014-2020) nati per ridurre le diseguaglianze tra regioni europee e promuovere la coesione economica.
Il problema è che spesso i bandi non sono “disegnati” su requisiti e procedure accessibili a un gruppo di regioni. Peraltro con competenze, poteri e autonomie molto diversi (si va dai Länder tedeschi, che sono piccoli Stati alle regioni ordinarie e a statuto speciale italiane, al Rhônes Alpes francese). E questo rende più complicato fare partire i progetti, soprattutto in assenza di una “cabina di regia” stabile. Sinora, la differenza nel “successo” delle strategie la stanno facendo il fattore tempo (chi è partito prima è più avanti) e la capacità organizzativa tedesca (quando coinvolta).
La prima a nascere nel 2009 (ma i primi atti sono del 2008, da qui il decennale) è stata la macroregione baltica, che mette assieme sette Paesi (Svezia, Finlandia, Estonia, Lettonia, Lituania, Danimarca, Polonia e i Laender della Germania Nord-Est), conta circa 70 milioni di abitanti e un Pil complessivo di 1.380 miliardi. Ha già attivato 40 progetti tra tutela del mare, investimenti in innovazione, risparmio energetico e competitività di sistema. La Danubiana (2010) tiene insieme nove Paesi Ue (Germania, Austria, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia, Bulgaria, Romania e Croazia) e cinque Paesi non-Ue ( Serbia, Bosnia Erzegovina, Montenegro, Ucraina e Moldova) ed è la più popolosa: 90 milioni di abitanti e un Pil da 1.620 miliardi: politiche ambientali, sinergie energetiche e infrastrutture sono le priorità, ma anche scuola e sicurezza.
L’Italia è coinvolta su due piani. Nata nel 2014, l’area adriatico-ionica coinvolge otto Stati tra Paesi membri (Croazia, Grecia, Italia e Slovenia) ed extra-Ue (Albania, Bosnia-Erzegovina, Montenegro e Serbia). Per l’Italia, le Regioni interessate son quelle della dorsale adriatica, dal Friuli alla Puglia, oltre a Basilicata, Calabria e Sicilia. Gli obiettivi: pesca e tutela del mare, reti di trasporto ed energia. Ma i progetti sono ancora in una fase iniziale. Con un Pil di 3mila miliardi ma una forza d’urto di cinque Paesi Ue (Austria, Francia, Germania, Italia e Slovenia) e due non (Liechtenstein e Svizzera), e 48 Regioni, la regione Alpina, nata nel 2015, è la più ricca, più omogenea per benessere ma anche articolata nei bisogni: dalla tutela di ghiacciai e ambiente al dialogo tra cluster, distretti e Università.
«Bisogna definire meglio che tipo di rapporto devono avere le Regioni e gli Stati nella strategia macroregionale – ha spiegato l’eurodeputato Pd, Andrea Cozzolino –. Stabilire quali poteri decisionali hanno. Anche perché affrontano “in chiave europea” problemi e sfide che tutti i cittadini sentono e possono essere un antidoto ai populismi. Una macroregione mediterranea, che coinvolgesse anche Tunisia, Egitto, Algeria e Libia potrebbe gestire più organicamente la questione dei flussi migratori. Fino a oggi sono stati utilizzati i fondi della politica di coesione – ha concluso Cozzolino -. Mentre sarebbe utile un quadro più strutturato di risorse».
INTERVISTA CORINA CRETU COMMISSARIO POL. REGIONALI
«No a fondi dedicati Vince chi fa sinergie»
Commissaria Cretu, lei spesso ha sottolineato che le macroregioni europee sono un’opportunità, per Paesi Ue e non, di condividere problemi e cercare soluzioni. Come può essere migliorata questa esperienza?
Il semplice fatto che 19 Stati Ue e otto che non lo sono siano impegnati in quattro strategie basate su piena cooperazione e coordinamento delle politiche rafforza il processo di integrazione dal basso. Una macroregione, sia chiaro, è molto più che una collezione di progetti, è una cornice di coerenza che deve indirizzare l’azione di governo, combinare sforzi, idee e risorse per un progresso comune.
Quali sono i punti più critici?
Il successo delle macroregioni richiede un impegno contin uo e costante di personale e mezzi. Servono adeguate dotazioni finanziarie e di professionalità. Ma non mi fraintenda. Non significa necessariamente fondi extra. Al contrario, bisogna cooperare per attingere alle risorse importanti già stanziate per la cooperazione regionale e anche per generare risparmi da possibile economie di scala.
L’esperienza mostra che un altro aspetto cruciale è l’allineamento tra strategie macroregionali ambiziose e programmi effettivi per perseguirle. Qui il successo lo fa la leadership politica di Paesi e regioni. Le strategie devono essere gestite politicamente, illustrate agli elettori e i risultati valorizzati agli occhi dei cittadini. Ho l’impressione che, in alcune parti delle strategie, il volante sia ancora in mano alla Commissione. D’ora in poi è necessario che siano Paesi e regioni a guidare.
Pensa che la regola dei «3 no» vada resa più flessibile? Per esempio, in termini di governance?
Sì. L’esperienza ha mostrato che i modelli di governance necessari per guidare le strategie macroregionali richiedono nuovi assetti (comitati esecutivi, gruppi di coordinamento). Tuttavia, il sistema deve restare “leggero” e non creare nuove istituzioni amministrative. Soprattutto nelle macroregioni che comprendono partner più “poveri” potremmo prevedere dei sistemi di supporto alla governance. Una nuova disciplina o nuove regole non servono. Quanto ai fondi, l’obiettivo deve restare quello di allineare le politiche regionali e nazionali agli obiettivi che le stesse macroregioni si sono date. Non ci sono solo i fondi Fesr per lo sviluppo regionale. Le strategie macroregionali sono coerenti con tutte le tipologie di Fondi che la Ue mette a disposizione.
Nella discussione relativa alla formazione del Bilancio Ue post-2020, non si menzionano le macroregioni. Davvero non pensa che la politica macroregionale potrebbe fare un salto di qualità avendo una dotazione finanziaria dedicata?
Non necessariamente. Voglio ricordare che Stati e Regioni hanno a disposizione sostanziose quantità di fondi e, in particolare, finanziamenti che supportano differenti tipi di programmi (per esempio, Life o Horizon 2020), capaci di mobilitare anche risorse private e attrarre investimenti. La domanda non è “avere a disposizione più fondi” , ma “come possiamo attingere a quei fondi insieme”?
Tra gli stakeholders c’è chi lamenta che molti bandi non sono “a misura” di strategie macroregionali. Si può fare qualcosa?
L’integrazione di risorse e obiettivi di una strategia macroregionale in quadri nazionali e regionali rimane una questione critica. Ma ci sono iniziative per superare questo.
Ad esempio, nella macroregione baltica diversi programmi hanno introdotto una “componente transnazionale” nei programmi nazionali e regionali sostenuti dai Fondi Fesr , per stimolare la cooperazione tra partners di Paesi diversi. Sempre lì c’è una rete di autorità di gestione per selezionare i migliori progetti innovativi. Ne lla regione del Danubio, alcuni programmi hanno stanziato una percentuale dei loro fondi per azioni che hanno un impatto macroregionale. Approcci ancora sporadici. Ma da incoraggiare senza cambiare le regole.
La politica macroregionale può giocare un ruolo sul fronte delle migrazioni?
La migrazione è un problema complesso e sfaccettato. Coinvolge istituzioni locali, nazionali, europee, pubbliche, private, no-profit. Un approccio macroregionale potrebbe offrire un quadro politico pertinente, per un’azione coordinata e cooperativa. A condizione, però, che i paesi e le regioni interessati condividano realmente gli stessi obiettivi.
L.Ca.

Verso il voto

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Il 4 marzo la grande sfida tra europeisti e sovranisti
Sergio Fabbrini
7 Gennaio 2018 – Il Sole 24 Ore domenica

Che relazione c’è tra le elezioni italiane del prossimo 4 marzo e l’accordo franco-tedesco che verrà celebrato il prossimo 22 gennaio in occasione del 55esimo anniversario del Trattato dell’Eliseo? Nessuna, secondo l’opinione della maggioranza degli osservatori e dei politici italiani. Tant’è che, con la sola eccezione di questo quotidiano, non è stata riportata neppure la notizia della decisione, dei parlamenti della Francia e della Germania, di votare un documento congiunto in occasione di quella celebrazione. Un documento che impegna i due Paesi ad approfondire l’integrazione reciproca su materie cruciali per il funzionamento del mercato unico e dello stato sociale. Eppure, tra le nostre elezioni e l’accordo franco-tedesco, la relazione c’è ed è strettissima. Una relazione da cui dipende il futuro dell’talia. Mi spiego.
Cominciamo dalle elezioni italiane. È certamente vero che esse costituiscono una pagina bianca che solamente gli elettori e le elettrici potranno riempire. Tuttavia, è anche vero che la penna con cui riempirla può avere caratteristiche diverse. Dato che il prossimo 4 marzo si voterà con un sistema elettorale proporzionale, molti esponenti hanno pensato di poter riportare indietro le lancette dell’orologio politico italiano. È un fiorire di liste, di organizzazioni, di distinzioni. Ma, attenzione, si tratta di un vero e proprio fumo negli occhi. Perché, nonostante la frammentazione superficiale dell’offerta politica, al fondo di quest’ultima c’è una divisione fondamentale, quella tra chi pensa di governare un’Italia indipendente e chi invece un’Italia integrata. Chiamo i primi gli indipendentisti e i secondi gli europeisti. Gli indipendentisti costituiscono la coalizione (informale) dell’introversione italiana, avanzano proposte senza porsi il problema della loro fattibilità. Ragionano come se disponessimo della sovranità monetaria o dell’autonomia di bilancio. Per questa coalizione, l’Europa è uno dei temi della campagna elettorale, un capitolo della politica estera da affidare (semmai) alle cure della diplomazia.
Basti leggere le ripetute dichiarazioni del candidato premier dei Cinque Stelle, secondo cui il governo da lui diretto non rispetterà il vincolo del 3% del deficit né tanto meno quello del debito pubblico, così da poter distribuire il reddito di cittadinanza o da poter abbassare l’età pensionabile. Scelte che l’Europa dovrà semplicemente accettare. Nel caso decidesse di contrastarci, allora l’Italia risponderà organizzando un referendum per uscire dall’Eurozona (naturalmente come “extrema ratio”). Naturalmente, nelle sue considerazioni non entra mai il mercato finanziario e le sue reazioni alle nostre politiche di bilancio. Anche il premier greco Alexis Tsipras promosse un referendum nel suo Paese, nel luglio del 2015, per ‘far capire’ agli europei che i greci non erano disposti ad accettare le condizioni imposte per il loro salvataggio. Il risultato fu l’umiliazione della Grecia, che dovette accettare condizioni ancora più dure, dopo quel referendum. Peraltro, ai nostri sovranisti sfugge l’idea che l’uscita dell’Italia dall’Eurozona possa essere vista addirittura con favore dai governi del nord dell’Europa.
Gli europeisti, invece, costituiscono la coalizione che riconosce l’interdipendenza (soprattutto monetaria) dell’Italia. I partiti che si riconoscono nell’Italia europea sono gli eredi dei tre governi di coalizione (Letta, Renzi e Gentiloni) che si sono succeduti in questa legislatura. Governi che hanno avuto delle opposizioni anti-europeiste al loro interno, ma anche dei sostenitori europeisti al loro esterno. Per questi partiti, pur nelle loro differenze, l’Europa costituisce la condizione della nostra politica interna. Essa non è uno dei temi della campagna elettorale, ma il punto di vista con cui affrontare tutti i temi di quest’ultima. Riforme come quella del Jobs Act o del sistema bancario o del sistema costituzionale (per fare degli esempi) non vanno giudicate in sé stesse, ma in relazione alla loro capacità di promuovere gli interessi del nostro Paese nel sistema dell’interdipendenza europea. Anche se non sono mancate stonature o posizioni contradditorie da parte dei leader di questa coalizione, quest’ultima dovrà essere giudicata per come ha governato il Paese in uno dei momenti più difficili della sua storia post-bellica, oltre che per la competenza del personale politico che ha messo in campo. Le prossime elezioni dovranno dunque stabilire quale, tra queste due fondamentali posizioni, potrà guidare l’Italia nel futuro. Ecco perché il 4 marzo non dovremo scegliere tra decine di partiti, bensì tra due grandi opzioni strategiche. Da un lato ci sono i partiti dell’introversione sovranista, dall’altro lato quelli dell’interdipendenza europea.
Vediamo ora la prospettiva europea. Per quanto riguarda quest’ultima, è evidente che la spinta impressa dalla Francia di Emmanuel Macron va nella direzione di un’Europa a due velocità, una spinta che potrebbe concludersi in un vero e proprio sdoppiamento dell’attuale Unione europea (Ue). Lo stallo tedesco, nella formazione del nuovo governo, è l’effetto del protagonismo francese. Al negoziato con Macron, la Germania non può andare con un governo costituito «per mancanza di meglio» (come sarebbe stata la coalizione Giamaica), né può andarci con un partner di coalizione (come i liberal-democratici del Freie Demokratische Partei) decisamente euro-scettico. Macron sta imponendo alla Germania la ridefinizione della sua posizione sull’integrazione europea così come si è venuta definendo dopo l’unificazione del Paese nell’ottobre 1990. La Germania non può non rimanere agganciata alla Francia, sia quando quest’ultima si ferma sia quando riparte. La dichiarazione dei due parlamenti (francese e tedesco), che verrà resa pubblica il 22 gennaio, costituirà il viatico alla cruciale negoziazione che si terrà tra i due Paesi dopo la formazione del governo tedesco, ovvero la riforma dell’Eurozona. Così, mentre i maggiori Paesi dell’Europa dell’est si stanno avvolgendo in una spirale autoritaria, mentre il nazionalismo si sta rilegittimando anche nell’Europa dell’ovest, è evidente che le leadership della Francia e della Germania dovranno risolvere il problema, in quel negoziato, di come liberare l’Ue dalla paralisi decisionale e democratica. Lo faranno da sole oppure vi parteciperà anche la leadership italiana?
Ecco perché l’esito delle elezioni del prossimo 4 marzo avrà conseguenze storiche per l’Europa in cui dovranno vivere gli italiani. Quelle elezioni non decideranno i rapporti di forza tra i vari partiti, individualmente intesi, oppure tra la destra e la sinistra, ideologicamente intese. Piuttosto esse decideranno la collocazione dell’Italia. Se si affermasse la coalizione indipendentista, allora l’esito sarà l’inevitabile auto-esclusione dell’Italia dal progetto di rafforzare e democratizzare l’Eurozona. Anche se non giungerà al punto di spingere il Paese lungo la strada britannica, viste le implicazioni disastrose della Brexit, quella coalizione ci spingerebbe comunque verso la periferia europea. Se invece si affermerà la coalizione dell’interdipendenza europea, allora l’Italia potrà far parte del gruppo centrale di Paesi impegnati a costruire un’unione politica, che garantisca il mercato unico e la democrazia liberale.

“La Germania sostenga da subito le riforme europee di Macron”

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Intervista ad Hans-Gert Poettering

TONIA MASTROBUONI, la Repubblica 15.12.17

Le trattative per il nuovo governo tedesco potrebbero durare «mesi». Ma nel frattempo, sostiene Hans-Gert Poettering, presidente della Fondazione Adenauer ed ex presidente del Parlamento europeo, la Germania dovrebbe «dare segnali di assenso» sulle riforme europee. E, in prospettiva, una Grande coalizione sarebbe la soluzione migliore, per favorire l’integrazione nell’Unione.
Intervistato a margine di un’iniziativa della neonata School of Transnational Governance
dell’Università europea di Firenze, l’ex leader dei Popolari europei sostiene che, seppure la cancelliera sia indebolita, non ci siano alternative a lei.
L’Europa aspetta col fiato sospeso il governo tedesco.
Quanto dureranno le trattative?
«Impossibile dirlo. Mi dispiace che siano fallite quelle per una coalizione Giamaica. Avrebbero messo insieme una costellazione interessante, inedita, di Cdu/Csu, verdi e liberali. E la Spd avrebbe potuto riconquistarsi un’identità all’opposizione. Ma ora bisogna lavorare per il successo della Grande coalizione. Ci potrebbero volere mesi».
Per le riforme europee non pensa che la Grande coalizione sia meglio di un governo con i liberali?
«È l’unico motivo per cui è una buona soluzione. Renderebbe più semplici le riforme europee che sono assolutamente necessarie.
L’Europa deve tornare ad avere un obiettivo, una visione e dobbiamo prendere decisioni concrete».
La Cdu/Csu ha perso il 8,5% alle elezioni. Le trattative di Angela Merkel per Giamaica sono fallite. Quanto si è indebolita la “persona dell’anno” di Times, la “donna più potente del mondo” di Forbes?
«Dovremmo sempre evitare gli eccessi e confrontarci con la realtà. Nella politica esistono momenti buoni e meno buoni. Nella Cdu non c’è un’alternativa a Merkel. Non vedo nessuno che potrebbe prendere il suo posto».
Quanto pensa che il risultato elettorale sia frutto della crisi dei profughi, o quanto invece di una certa stanchezza nei confronti della cancelliera?
«La crisi dei profughi ha giocato un ruolo enorme, anche le conseguenti divisioni tra Cdu e Csu. Ora abbiamo un accordo con l’ala bavarese del partito sul tema: bisogna integrare meglio chi è qui e rimpatriare più velocemente chi non ha il permesso di restare».
Che linee rosse ci sono nel suo partito nei colloqui con la Spd?
«Non penso che dovrebbero esistere. Altrimenti si finisce facilmente per rompere».
Emmanuel Macron e l’Europa quanto possono aspettare ancora Merkel per fare le riforme europee?
«Abbiamo tutto l’interesse che la Francia torni a essere un Paese sicuro di sé. E Macron è il politico giusto per questo. Certo, la Francia ha bisogno di partner per i suoi piani europei, tra cui la Germania e l’Italia. Però, pur non essendoci un governo, la Germania dovrebbe già ora, col governo provvisorio, dare segnali di assenso verso le idee francesi di riforma dell’Europa».
Le idee francesi e tedesche per la riforma dell’eurozona e del fondo salva-Stati Esm sono piuttosto diverse.
«Si arriverà alla trasformazione dell’Esm da fondo salva- Stati in un Fondo monetario europeo. Per avere il giusto equilibrio tra la capacità di spingere per le riforme e di concedere aiuti finanziari».
Teme le elezioni in Italia?
«Spero in un governo solido, che si riconosca nella necessità di una maggiore integrazione europea e che sia un fattore di stabilità nella collaborazione europea».
Che pensa della difesa comune?

Lì si stanno facendo enormi progressi. E deve restare una priorità dei prossimi mesi e anni. E il prossimo passo deve essere la riforma europea del diritto di asilo”

Ho salvato le librerie flirtando col nemico

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L’intervista a James Daunt

ENRICO FRANCESCHINI – la Repubblica – 15.12.17

Com’è la sua libreria ideale?
«È piccola, ma non troppo. Come la prima libreria che ho aperto. Nelle mega librerie, da lettore, ci andrei una volta al mese. Ma le amo tutte.
Quando non so cosa fare, vado a gironzolare nella libreria più vicina.
Quando sono in vacanza, all’estero, le visito come le chiese e i musei, anche se sono piene di libri in una lingua che non è la mia».
Non è stato rischioso per Alksandr Mamut, il miliardario russo che ha comprato Waterstones, scegliere lei come direttore e amministratore delegato? Era come affidare una fabbrica a un artigiano.
«Sarebbe stato un rischio affidarmi una fabbrica. O una catena di elettronica. Ma per una catena di libri ha scelto qualcuno che conosceva bene i libri e questo era meno rischioso».
Andate d’accordo?
«Certamente. Anche Mamut ama i libri. E possedeva già qualche libreria in Russia. Ci sono miliardari del suo paese che si comprano una squadra di calcio o uno yacht. Lui ha preferito comprare Waterstones».
Adesso però pensa di vendervi.
«Gli serve del cash per altri investimenti. È legittimo: valiamo cinque volte quello che ha pagato per comprarci. Comunque non sono preoccupato. Credo che il prossimo non sarà un proprietario in carne ed ossa, bensì un fondo di investimenti: non siamo più un’azienda vicina alla bancarotta, siamo un’azienda che fa soldi».
Se la sua storia fosse un film, ora arriverebbe Julia Roberts e la convincerebbe ad abbandonare Waterstones per andare con lei a occuparsi di una piccola libreria. Prevede un finale del genere?
«Sì e senza bisogno di Julia Roberts. Sono orgoglioso di avere salvato Waterstones. Ma prima o poi tornerò a occuparmi di Daunt Books, la mezza dozzina di librerie londinesi che portano il mio nome e che sono rimaste mie. Da quando dirigo Waterstones non le gestisco più di persona, ma il mio cuore resta lì. Tornerò nella prima che aprii, su Marylebone High Street, per stare in mezzo ai libri, scegliere che libri vendere, consigliare libri a una ventina di clienti al giorno. Ed essere felice, perché questo è il mestiere che amo».
Se la sua storia fosse un film, per interpretarla andrebbe bene un tipo alla Hugh Grant. Un giovanotto uscito dalle migliori boarding school inglesi con laurea in storia a Cambridge diventa banchiere a New York, ma si stanca presto di fare soldi e, quando la sua girlfriend sente nostalgia di Londra, torna in patria deciso a perseguire un vecchio amore: i libri. Fonda una piccola libreria indipendente, ha un tale successo che ne apre altre cinque, in una delle quali un giorno gli si presenta un cliente. È un russo. Miliardario. «Ho comprato la più grande catena di librerie del Regno Unito», gli dice il russo. «È sull’orlo della bancarotta. Verrebbe a dirigerla?» Il libraio accetta e in tre anni la salva, riportandola in attivo.
«È stato facile», dice James Daunt, il protagonista dell’impresa, davanti a un latte macchiato nel caffè con vista all’ultimo piano di Waterstones Piccadilly, la più grande delle sue 300 librerie. Lui minimizza, ma nell’ambiente è un mito, non per nulla invitato a fare lezioni alla Scuola dei Librai di Venezia.
Facile salvare le librerie, nell’era di Amazon e della rivoluzione digitale, mister Daunt? Come ha fatto?
«Le librerie non possono essere gestite come qualsiasi altra catena di prodotti. Devono avere una personalità, conoscere i propri clienti, amare il prodotto che vendono. E ognuna è diversa dalle altre. Io ho dato autonomia e maggiore responsabilità a ciascuno dei miei librai».
Risultato?
«Più efficienza nei costi, meno rese, più copie vendute. E sono tornati i profitti».
Non ha cambiato nient’altro?
«Ho fatto togliere l’uniforme ai librai: non sono camerieri o commessi. E ho deciso di gestire in proprio i caffè e ristoranti all’interno delle nostre librerie, così possiamo decidere noi come utilizzarle quando abbiamo eventi».
Inoltre è andato a letto col nemico: Amazon.
«Vero! Adesso vendiamo i kindle. E abbiamo il wi-fi gratuito in tutte le librerie, così un cliente può controllare subito quanto costa un libro su Amazon. Ha presente come funziona nel calcio? Se pensi che l’avversario è più forte, parti battuto in partenza. Le librerie non devono pensare che Amazon, poiché i suoi libri costano meno, è più forte. È soltanto diverso. L’esperienza di entrare in una libreria, sfogliare volumi, comprarli di persona, rimane imbattibile».
Dunque ha fiducia nel futuro del libro di carta?
«Il mercato ha dimostrato che i libri digitali sono una nicchia. Quelli di carta non scompariranno mai.
Avere a casa propria uno scaffale di libri è un modo unico di affermare la propria identità. Toccare un libro è un piacere fisico. E il numero di coloro che vanno all’università, dunque hanno un’istruzione superiore e leggono, aumenta di continuo. I libri hanno un grande futuro».
Come sceglie e addestra i 3500 dipendenti di
Waterstones?
«Sono tutti laureati. Fanno un corso in cui imparano che c’è un metodo scientifico per vendere libri. E passano del tempo accanto ai colleghi più esperti di loro. Per apprendere come si fa il libraio non c’è niente di meglio che farselo spiegare da un libraio».

La politica senza Europa fa la fine dell’Italia del calcio

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Sergio Fabbrini – 19 Novembre 2017 – Il Sole 24 Ore domenica
C’è poco da essere allegri, osservando l’avvio della nostra campagna elettorale. I politici italiani continuano a pensare come se fossero all’interno di uno stato sovrano indipendente. Ne è un esempio la discussione in corso nei e tra i partiti. La politica che emerge da quella discussione è introversa oltre che ideologica. Guardiamo il centro-sinistra.
Per alcuni politici della sinistra-sinistra, ad esempio, l’approvazione da parte del precedente governo Renzi di provvedimenti come il Jobs Act o la Buona Scuola costituisce un ostacolo insuperabile per dare vita ad una coalizione con la sinistra-centro. Siccome quelle leggi, si dice, non sono di sinistra, occorre prima abiurarle per potere costruire una coalizione di sinistra. Ci si aspetterebbe che la critica di quelle leggi (di per sé del tutto legittima) fosse accompagnata da una proposta alternativa capace di raggiungere meglio gli obiettivi prefissi o acquisiti da quelle leggi. E soprattutto da una proposta che tenesse presente il contesto europeo in cui quelle leggi, e più in generale le politiche pubbliche nazionali, si sono sviluppate e si sviluppano. Ma di ciò non c’è traccia, né tra i critici e né (inspiegabilmente) tra i difensori di quelle leggi.
Oppure guardiamo il Movimento Cinque Stelle che ripropone con insistenza il reddito di cittadinanza come se l’Italia potesse spendere a suo piacimento. È chiaro che la proposta solletica l’appetito dell’elettorato clientelare ed assistenziale, ma possono dei leader politici parlare come se l’Italia non fosse membro dell’Eurozona e non avesse il secondo debito pubblico europeo? Infine guardiamo il centro-destra. Anche qui l’introversione abbonda. Ad esempio, si propongono roboanti tagli delle tasse, senza precisare quali spese pubbliche tagliare contemporaneamente e quali politiche adottare per gestire le conseguenze (soprattutto sociali) di quei tagli. Oppure si parla di una introdurre la lira senza eliminare l’euro, come se l’esistenza di una doppia moneta nel nostro Paese non avesse conseguenze anche per gli altri Paesi dell’Eurozona. Insomma, i nostri leader politici pensano come se potessero fare qualsiasi cosa una volta giunti al governo. Nella loro discussione non c’è la realtà in cui agisce l’Italia, cioè il contesto di interdipendenze del nostro Paese con altri paesi. Nel caso migliore, l’Europa è uno dei temi dell’agenda elettorale, non già la prospettiva con cui considerare tutti i temi di quest’ultima.
Naturalmente, la predisposizione all’introversione non è solamente della politica italiana. Basti pensare alla Brexit e al referendum del giugno 2016 con cui il Regno Unito decise di uscire dall’Unione europea (Ue). La élite politica britannica pensò allora che fosse possibile riportare il proprio Paese alla condizione di stato indipendente nonostante quarant’anni di integrazione sovranazionale. Il risultato dell’introversione britannica è sotto gli occhi di tutti. Instabilità del governo, confusione sulle scelte da fare, ridimensionamento di attività finanziarie ed economiche, oltre che scientifiche e accademiche, perdita di talenti e opportunità. Oppure si pensi alla Grecia del luglio 2015, quando un gruppo di politici introversi propose di tenere un referendum sulle condizioni economiche imposte al Paese per ottenere gli aiuti finanziari necessari ad evitarne il fallimento. Come ci si poteva aspettare, il referendum espresse una maggioranza nettamente contraria a quelle condizioni, ma l’esito politico fu esattamente l’opposto. La Grecia dovette accettare condizioni ancora più severe per non fallire come stato nazionale. Dunque, i politici, non solo quelli italiani, fanno fatica a riconoscere il radicale cambiamento del contesto in cui agiscono. E cioè che lo stato nazionale non esiste più in Europa. Il processo di integrazione ha portato ad una tale interdipendenza tra gli stati nazionali europei da trasformarli in stati membri dell’Ue, anche quando non ne fanno formalmente parte (come nel caso della Norvegia). Sessant’anni di integrazione hanno creato una tale intersecazione di pratiche e regole, sia orizzontalmente tra gli stati che verticalmente tra ognuno di loro e Bruxelles, da rendere implausibile la loro dissezione in una prospettiva di secessione nazionale. Il parlamento di Westminster approverà prima o poi la legge per recidere i rapporti tra il Regno Unito e l’Ue (la European Union Withdrawal Bill), ma non basterà una legge per recidere quei rapporti. La compenetrazione (amministrativa, regolativa, legislativa, giudiziaria o culturale) di quel Paese con l’Europa è andata così avanti da rendere improbabile il suo ritorno alla condizione di stato vestfaliano.
Se si vuole evitare di ripetere il dramma del Regno Unito, allora occorre che le élite politiche italiane si liberino in fretta della propria introversione. La politica nell’interdipendenza è strutturalmente diversa rispetto alla politica nella indipendenza. La posta in gioco delle prossime elezioni è il governo di un Paese dell’Ue, non già il governo di uno stato nazionale. Le scelte nazionali debbono fisiologicamente interiorizzare le logiche dell’appartenenza ai regimi di politiche pubbliche interdipendenti. Quelle logiche consistono sia in vincoli che in opportunità. È impossibile stare in quei regimi, ad esempio, con un debito pubblico come il nostro. Invece di una discussione introversa e ideologica, tutti i partiti dovrebbe confrontarsi con quel vincolo. E cioè, come ha detto Mario Draghi l’altro ieri a Francoforte, che occorre mettere in ordine le nostre case fiscali ora che la ripresa procede, ma senza “aspettare che la crescita riduca gradualmente il debito”.
Al contrario, nella politica migratoria, l’Ue è un’opportunità per difendere meglio i nostri interessi nazionali. Il voto del Parlamento europeo dell’altro ieri, favorevole ad una riforma dell’Accordo di Dublino in direzione del superamento del principio che spetta al primo Paese d’arrivo prendersi cura del migrante, rappresenta un passo in avanti per noi. Per questo motivo è del tutto ingiustificabile che abbiano votato a favore della riforma i parlamentari italiani del centrosinistra e centrodestra, ma contro quelli della Lega e del Movimento Cinque Stelle. E lo stesso vale, ad esempio, per la politica sociale necessaria per ridurre le inaccettabili ineguaglianze che si sono formate nel nostro Paese con la Grande Recessione. La decisione presa a Goteborg venerdì scorso, dai capi dei governi nazionali e delle istituzioni dell’Ue, di dare vita ad un Pilastro europeo per i diritti sociali rappresenta una opportunità per promuovere una politica sociale più efficace anche in Italia.
Dunque, l’interdipendenza implica vincoli ma anche opportunità. Ciò non significa (per essere chiari) che il sistema dell’interdipendenza (in particolare nell’Eurozona) vada accettato così come è. Anzi. Occorre riformare quel sistema ai fini di una maggiore separazione tra il livello delle politiche (e responsabilità) nazionali e quello delle scelte (e responsabilità) europee. Tuttavia, per riformarlo, occorre prima di tutto comprenderlo. Se è finita l’epoca della politica dell’indipendenza, come si può rivendicare il ritorno all’Art. 18 dello Statuto dei lavoratori o alla lira o all’abbassamento generalizzato dell’età per andare in pensione, senza considerare le loro conseguenze sulle capacità del nostro Paese di governare la propria interdipendenza? Non si può riformare l’interdipendenza con dichiarazione unilaterali di indipendenza, sia nella politica (come hanno cercato di fare i mediocri rappresentante del governo catalano) che nelle politiche. Se non si vuole che le prossime elezioni si riducano ad un teatro dell’introversione, con la conseguenza di consegnare il Paese al governo di organismi esterni mobilitati dall’interdipendenza, è indispensabile che i leader politici estroversi facciano sentire la loro voce, fermando la deriva verso la fallace politica dell’indipendenza. Se quei leader non si faranno sentire, l’Italia della politica non farà una fine diversa da quella dell’Italia del calcio.

Emergenza all’italiana – Recensione dell’ultimo libro di Paolo Mieli

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La nostra classe dirigente è stata sempre preda
di tensioni tra varie subculture antropologiche
che hanno dato vita a «cerchie del noi»: cattolica,
laica, socialista, a loro volta molto frammentate

L’autore si sofferma anche sugli «intellettuali» e sulla loro tendenza a farsi iscrivere in qualche setta che non tollera l’esercizio della ragione critica

Paolo Pombeni – 29 Ottobre 2017 – Il Sole 24 Ore domenica
La storia come dovere di riflessione civile: mi pare sia questa la chiave per leggere il libro in cui Paolo Mieli ha raccolto i suoi percorsi di confronto con quanto si è prodotto negli ultimi anni sulla storia dell’Italia Unita. La caratteristica di questo volume, ciò che lo rende diverso da altre opere che si sono dedicate ad investigare le vicende del nostro Paese dall’unità ad oggi, è che si tratta non del classico saggio in cui l’autore propone una propria ricostruzione del tema in questione, ma di un assai impegnato percorso di confronto e valorizzazione di quello che la storiografia italiana ha messo in luce sui vari momenti topici della nostra vicenda nazionale.
La tecnica di scrittura di Mieli è raffinata e, come sempre accade in questi casi, il lettore non percepisce questa caratteristica perché tutto sembra svolgersi in maniera piana e scorre in modo piacevole. In realtà c’è dietro un lavoro intenso per individuare i punti chiave che meritano di costituire la trama della nostra storia e per mettere in luce come questi snodi siano stati esplorati da studiosi che hanno avuto il coraggio di prendere, come si usa dire, il toro per le corna. Mieli bada a questa sostanza e non paga tributi alle mode, perché valorizza allo stesso modo autori assai accreditati come, solo per fare degli esempi, Galli Della Loggia, Sabbatucci, Guido Formigoni, o studiosi delle generazioni più giovani come, sempre solo per fare degli esempi, Mondini e Panvini.
Mi permetto di dire che non bisogna farsi fuorviare troppo dal titolo, che è ovviamente accattivante. Alle radici del nostro dissesto, che è il fenomeno che preoccupa chi come Mieli ha una storia e un ruolo di osservatore partecipante delle tensioni che scuotono la nostra convivenza civile, non sta tanto il “caos” quanto la complessità della storia italiana, che è ciò che emerge in maniera assai nitida dal percorso di lettura coinvolta e coinvolgente che viene condotto in queste pagine.
Certo Mieli riscopre una radice ottocentesca della debolezza della nostra politica ed è un fatto interessante, perché ormai c’è una tendenza a concentrare tutte le analisi non solo sul Novecento, ma in particolare sul secondo Novecento. Qui il nostro autore ritorna a una tesi che ebbe larga circolazione nel XIX secolo, cioè la convinzione che l’Italia non riuscisse ad essere un sistema costituzionale come quelli vigenti nell’Europa moderna, perché le elezioni, cioè il volere del popolo, non determinavano il quadro politico che invece era nella disponibilità di élite piuttosto autoreferenziali. Ed è alla fine la loro autoreferenzialità che spiega la piega verso quel fenomeno che va sotto il nome di trasformismo, cioè alla fine il concentrarsi delle élite politiche in un “blocco” interessato più che altro alla salvezza del “sistema” messo in piedi, ciò che peraltro coincideva con la salvezza delle loro posizioni.
Difficile negare che si tratti di una tendenza, ma vorrei dire anche di una tentazione di lunghissimo periodo, destinata a perpetrarsi sino ai giorni nostri. Sarebbe però interessante discutere, e in questo libro di materiale per farlo ce n’è molto, se ciò dipenda all’inizio da una arretratezza del nostro panorama costituzionale rispetto a quello dei vicini o da altre cause. In verità, almeno per il periodo liberale classico, cioè fino alla Prima Guerra Mondiale, di sistemi politici fondati sulle dinamiche del consenso elettorale dei partiti c’era a pieno titolo solo quello inglese. Già quello francese della Terza Repubblica lo era in modo piuttosto peculiare, mentre grandi imperi come quello tedesco o quello asburgico avevano situazioni assai peggiori della nostra con governi che dalle elezioni non dipendevano per nulla.
Naturalmente non è questo il punto centrale, perché la problematica affascinante che emerge dalla ricostruzione di Mieli è quella di un Paese continuamente preda delle sue complessità, che mai gli permettono il semplicismo delle analisi in bianco e nero. Così il riformismo di Giolitti si sposa con la sua disinvoltura a manipolare il consenso, il fascismo è contemporaneamente repressione e coinvolgimento, la Dc è clientelismo ma anche creatività politica, il Pci è capace di ottuse idolatrie ideologiche in pubblico come di dubbi e analisi più raffinate dietro le proprie quinte.
Della ricchezza del libro (166 sono le opere richiamate ed esaminate dall’autore) non si può dare compiutamente conto in questa sede, ma si deve ricordare come da essa emerga un quadro molto mosso della vicenda del nostro Paese che ha dovuto fare i conti, mi pare, con il problema che si tira dietro sin dalle origini: la difficoltà di costruire una cultura assimilatrice della sua popolazione e in specie della sua classe dirigente, perché continuamente preda delle tensioni fra le varie subculture antropologiche che in Italia danno vita a diverse “cerchie del noi”: quella cattolica, quella laica e quella socialista sono tradizionalmente riconosciute, ma in realtà ciascuna di esse si scompone in molti elementi, mentre fianco a fianco o intrecciate con esse ci sono quelle regionali, quelle culturali in senso classico e le non poche tendenze “rivoluzionarie” che hanno preteso di unificarle forzatamente.
Forse per questo sembra a volte che la chiave della politica italiana sia nel “non governo” per citare uno studio di Piero Craveri che Mieli analizza con grande attenzione. Contro di esso si schierano personaggi diversi, anch’essi contraddittori e aspri da interpretare (basti ricordare l’attenzione alla figura di De Gasperi), che però poi faticano a navigare fra gli scogli di una società più che disponibile a farsi irregimentare. Qui ci sarebbe da aprire uno squarcio sull’attenzione che Mieli dedica agli “intellettuali” nei diversi periodi che esamina e alla tendenza che gran parte di essi mostra a farsi iscrivere più che in qualche “scuola”, in qualche setta che non tollera l’esercizio della ragione critica.
Non è difficile al termine di questa lettura convenire con Mieli che il nostro dissesto ha radici profonde. Una parte almeno della storiografia italiana ha cominciato a farci i conti e il nostro autore ha tra i tanti anche il merito di avere valorizzato questi sforzi con quella autorevolezza di formatore della pubblica opinione che gli viene dal suo stesso percorso di studioso di storia.
Paolo Mieli, Il caos italiano. Alle radici del nostro dissesto , Milano, Rizzoli, pagg. 352, € 20

Dati e fab lab per lo sviluppo

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Emergency, Acra, Coopi: il terzo settore si avvicina all’open innovation, all’Ict e ai makers per migliorare la cooperazione
– 5 Novembre 2017 – Il Sole 24 Ore domenica

A Ouagadougou c’è il primo fablab dell’Africa Occidentale. Sorto nel 2011 alla periferia della città, Ouagalab vuole diventare la capitale dell’innovazione portando idee e tecnologie oltre il Burkina Faso. «Per la prima volta ci siamo affidati a un centro di innovazione locale per un progetto che si è concluso con due prototipi» spiega Valeria De Paoli, responsabile dei progetti di sovranità alimentare di Fondazione Acra. Si tratta di un essicatore solare che, modificato con scheda Arduino, consente di mantenere la giusta umidità del chicco di riso, senza che questo si spezzi. Un’innovazione open source e a basso costo che aiuterà i produttori del paese a vendere sul mercato locale, che predilige il riso integro di importazione. L’altro prototipo è una piattaforma web che offre informazioni di supporto ai produttori locali del miele. Ma oltre al prodotto, il progetto Makers4Dev ha sperimentato il processo che ha coinvolto anche due fablab, il milanese WeMake e il torinese Officine Innesto. Attraverso sessioni di co-design tra Italia e Burkina Faso, per 18 mesi il gruppo di lavoro è partito dai bisogni per arrivare alla progettazione e quindi al prototipo. «È stata un’esperienza complessa – aggiunge De Paoli – ma di fatto abbiamo impostato con Ouagalab una collaborazione che sta dando altri frutti, con progettazioni per l’Unione Europea e il Ministero degli Esteri». La cooperazione allo sviluppo non è stata solo sulle soluzioni ma sui processi d’innovazione stessa. L’esperienza – coi relativi prototipi – sarà presentata da domani a Milano in una due giorni all’interno di Innovazione per lo sviluppo, progetto di Fondazione Cariplo, Compagnia di San Paolo, Fondazione Crt.
Accanto al filone della fabbricazione digitale, la tendenza maggiore – tra i progetti presentati a questi Open Days dell’Innovazione, a cui contribuisce anche TechSoup – è l’utilizzo dei dati. «L’Onu e le agenzie internazionali stanno accelerando il processo di apertura e di condivisione dei loro dati» spiega Daniela Paolotti di Fondazione Isi, ente non profit che da qualche tempo ha esteso la data science all’ambito sociale e che è partner di Innovazione per lo sviluppo (assieme a Fondazione Acra, Fondazione Politecnico di Milano, Ong 2.0). Fondazione Isi ha appena vinto un bando delle Nazioni Unite per studiare la mobilità delle donne a Santiago del Cile. Dallo studio dei dati telefonici – che sarà condotto assieme a GovLab della New York University, Unicef e Telefonica – si analizzerà il gender gap sulla mobilità. Per fornire future soluzioni in termine di pratiche e policy sulla sicurezza. In Italia Fondazioni Isi cura l’analisi dei dati di Mygrants, piattaforma che accompagna rifugiati e richiedenti asilo dallo sbarco fino all’inserimento nella società attraverso il lavoro e l’impresa. Le analisi predittive – basate sui dati immesse dagli utenti – consentiranno di migliorare l’offerta in termini di formazione e opportunità imprenditoriali, rendendola più personalizzata.
Lavora a tempo pieno sui dati Gnucoop di Milano. Domani presenteranno una piattaforma per la raccolta e l’analisi dei dati sanitari nei campi rifugiati, realizzata per l’Unhcr, una piattaforma webGis – frutto di una collaborazione con Coopi – per la raccolta di dati per la gestione delle emergenze in paesi come Haiti, Guatemala e Perù. Più avanzato il progetto che vuole far fronte alla dispersione scolastica in Burkina Faso, paese dove mancano spesso registri e anagrafe: attraverso il machine learning, una piattaforma consentirà il riconoscimento facciale degli alunni, senza comunque giungere a una identificazione individuale.
Sui dati sta ragionando anche Emergency. «Dal 2010 abbiamo un software gestionale che raccoglie dati anagrafici e informazioni anamnestiche dei pazienti» spiega Andrea Bellardinelli, coordinatore di Programma Italia della ong, che ha finora erogato 270mila prestazioni mediche con poliambulatori e unità mobili. Un patrimonio di dati che potrebbe essere valorizzato dalla collaborazione – allo studio – con Fondazione Isi. «Dai senza fissa dimora nei centri urbani, ai braccianti nelle campagne, abbiamo informazioni che, una volta elaborate, potrebbero essere utili sia dal punto di vista sociologico che sanitario, anche per indirizzare meglio le nostre scelte. Inoltre servirebbero a comunicare con più efficacia e a sfatare alcune bufale come quella per cui i migranti porterebbero malattie».
Altri due filoni significativi sono l’open innovation e Ict fo good. Proprio nell’ambito del progetto Innovazione per lo sviluppo, Fondazione Politecnico di Milano sta costruendo una piattaforma in cui le ong potranno lanciare una richiesta tecnologica per trovare soluzione a un bisogno sul campo. E il mondo degli innovatori (accademici, startupper e imprenditori) potrà accettare la sfida mettendo a disposizione il proprio know how. La piattaforma Co-Open, disponibile nei prossimi mesi, adotta quindi le logiche classiche dell’open innovation. Tra i progetti esposti EnergyCop, una piattaforma non profit costruita con un approccio di condivisione delle conoscenze. L’obiettivo di Coopi è facilitare lo scambio di risorse utili agli attori umanitari, nell’ambito dell’accesso all’energia. More than one perspective è invece un programma austriaco di training avanzato rivolto ai migranti con alte competenze.

FURBIZIA ED IGNAVIA DEI GRILLEGHISTI NOSTRANI

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Nazionalismi europei: forza e debolezza

Sergio Fabbrini – 5 Novembre 2017 – Il Sole 24 Ore domenica

Non c’è stata un’elezione recente che non abbia registrato uno slittamento anti-europeista dei sistemi politici nazionali coinvolti. Dopo la parentesi europeista francese della primavera scorsa, i partiti nazionalisti hanno registrato successi ovunque. Nelle elezioni tenute il 24 settembre in Germania, sono entrati per la prima volta al Bundestag con ben 94 deputati. Nelle elezioni tenute il 15 ottobre in Austria, sono risultati il terzo partito, necessario per dare vita alla nuova maggioranza di governo. Nelle elezioni tenute il 20-21 ottobre nella Repubblica Ceca, sono emersi come il partito di maggioranza, intorno a cui si formerà il nuovo governo. A loro volta, i partiti nazionalisti al governo in Ungheria e in Polonia stanno vivendo un momento di grande popolarità, nonostante la loro politica illiberale.
Ma anche nel resto dell’Europa il vento sembra soffiare a favore dei nazionalismi. Come interpretare tale rinascita dei nazionalismi? E quali le conseguenze per l’Europa?
Cominciamo dalla prima domanda. I nostri nazionalismi hanno alcune caratteristiche in comune, ma anche molte differenze (per questo motivo è bene parlarne al plurale). In comune hanno sia il linguaggio populista che l’avversario contro cui si battono (l’Europa). Per tutti loro, la divisione politica non è tra destra e sinistra, o tra conservatori e progressisti, ma tra il “popolo” (la gente, le persone comuni) e le “élite” (che governano non solo le istituzioni politiche, ma anche le altre istituzioni sociali).
Le élite sono rappresentate come un gruppo di individui preoccupati esclusivamente di promuovere i propri interessi personali e collettivi (la “casta”), mentre il popolo è considerato per definizione come un aggregato indistinto di moralità e disinteresse.
Ora, questo schema viene utilizzato dai nostri nazionalismi per combattere le élite europee, prima ancora che quelle nazionali. Le élite nazionali sono rifiutate dai nazionalisti perché ritenute complici delle élite cosmopolite europee, non già in quanto tali.
Se nel passato il populismo si era mobilitato contro le istituzioni nazionali, oggi queste ultime vengono addirittura viste come il baluardo per la difesa del popolo nazionale, una difesa appunto contro le ingerenze tecnocratiche delle istituzioni sovranazionali. Di qui la convergenza di tre correnti politiche distinte (il nazionalismo, il populismo e l’anti-europeismo) verso un unico obiettivo (la critica all’Europa).
Ma qui finiscono le caratteristiche comuni dei nazionalismi europei. Le cause, infatti, che hanno spinto verso quella convergenza sono diverse nelle diverse parti dell’Europa. I nazionalismi del Nord costituiscono la reazione alla minaccia migratoria, ovvero all’incapacità dell’Ue di opporre a quest’ultima una risposta efficace.
In Austria, in Finlandia, nei Paesi Bassi o in Germania, i sentimenti anti-europeisti non sono motivati da un peggioramento delle condizioni economiche. Anzi, la Grande Recessione ha per molti aspetti avvantaggiato quei Paesi. Qui, i nazionalismi derivano dalla paura identitaria generata da flussi migratori, incontrollati, provenienti da aree extra-europee di religione islamica. Per questo motivo, i nazionalismi del Nord sono generalmente di destra. Diverse sono invece le cause che hanno spinto i nazionalismi del Sud. Esse hanno a che fare con una prolungata crisi economica, ovvero con l’incapacità dell’Ue e dell’Eurozona di opporre a quella crisi una risposta risolutiva. In Grecia, in Spagna, in Portogallo o in Italia, i sentimenti anti-europeisti sono motivati dal peggioramento, senza precedenti nel secondo dopoguerra, delle condizioni di vita di quei Paesi. Qui, la Grande Recessione ha colpito durissimo, in particolare i gruppi sociali e le aree territoriali più deboli. Seppure le migrazioni siano state massicce in Paesi come l’Italia e la Grecia, è stata la mancanza prolungata di opportunità di lavoro e di crescita ad allontanare i cittadini dal progetto di integrazione.
Per questo motivo, i nazionalismi del Sud sono generalmente di sinistra, o comunque usano tradizionali obiettivi di sinistra per dare voce al malessere economico (come il reddito di cittadinanza, nel caso dei Cinque Stelle in Italia). In mezzo sembra collocarsi la Francia, attraversata da entrambi i nazionalismi. La crisi economica ha colpito a sufficienza quel Paese per motivare il nazionalismo di sinistra, ma contemporaneamente la presenza di forti comunità islamiche, combinandosi con le minacce alla sicurezza, ha motivato il nazionalismo di destra.
Tuttavia, le categorie di destra e sinistra vanno prese con le pinze, nel caso dei nazionalismi europei. A questi ultimi interessa combattere l’Ue e non già collocarsi sull’asse della tradizionale divisione di classe. L’austriaco Heinz-Christian Strache (leader del partito di estrema destra Freiheitliche Partei Österreichs, FPÖ) e il francese Jean-Luc Mélenchon (leader del raggruppamento di estrema sinistra La France Insoumise) hanno più cose in comune di quanto farebbe pensare la loro personale ideologia. In comune hanno infatti la critica radicale alla natura (secondo loro) elitista e tecnocratica dell’Ue.
Vediamo ora la seconda domanda. Quali sono le conseguenze di questa rinascita dei nazionalismi? Se si leggono le dichiarazioni dei loro leader (comprese quelle di Marine Le Pen), nessuno degli attuali nazionalismi sembra voler fare uscire il proprio Paese dall’Ue, come è avvenuto con la Brexit nel giugno 2016. Solamente il Regno Unito, per l’idea imperiale che continua ad avere di sé stesso, ha potuto pensare di ritornare ad essere un Paese sovrano. Un’idea, peraltro, che ha poco o punto collegamento con la realtà, come si sta vedendo. Ma, al di là del caso britannico, i nazionalismi europei sembrano essere sovranisti ma non indipendentisti. Essi mirano a svuotare l’Ue dall’interno, a recuperare sovranità qua e là, non già ad uscire da essa. L’anti-europeismo dei nazionalisti ha un carattere negativo piuttosto che propositivo. Per di più, ogni nazionalismo ha una sua agenda, distinta dagli altri nazionalismi. I nazionalismi dell’Europa dell’Est vogliono chiudere le frontiere agli immigrati, ma vogliono tenere aperti i trasferimenti finanziari che ricevono con i programmi dei fondi strutturali. I nazionalismi dell’area germanica vogliono preservare l’identità culturale del rispettivo Paese, ma non al prezzo di rinunciare ai vantaggi dell’integrazione economica e monetaria. I nazionalisti dell’Europa del Sud vogliono una maggiore libertà di spesa, ma senza rinunciare alla moneta comune. Nei fatti, questi distinti nazionalismi stanno prefigurando un’Europa à la carte, un ristorante dove si ordinano i piatti preferiti trascurando quelli indesiderati. I nazionalismi europei sono l’espressione di una cultura parassitaria, gridano contro ciò che non piace ma beneficiano in silenzio di ciò che serve.
Se così è, allora è bene non farsi ipnotizzare dal loro populismo anti-europeista. A livello nazionale, le forze europeiste debbono sfidare i rispettivi nazionalismi, spingendoli a rendere evidente la loro debolezza propositiva. Basti pensare a Luigi di Maio o Matteo Salvini che la mattina propongono di organizzare un referendum per fare uscire l’Italia dall’Eurozona, ma poi la sera balbettano perché non saprebbero cosa fare se si ritornasse alla lira. Emmanuel Macron è l’unico leader nazionale, finora, che ha sfidato apertamente i nazionalisti del proprio Paese. Dichiarando con coraggio la propria idea di Europa (e qui non ha importanza la congruenza interna di quell’idea), Macron ha messo in un angolo i nazionalismi anti-europeisti del proprio Paese. Macron non va però lasciato da solo. In particolare è necessario che le forze europeiste italiane si facciano sentire, dichiarando senza timori il loro sostegno all’Ue e il loro impegno a riformarla, senza alcuna concessione al populismo degli anti-europeisti. Se l’Europa rischia di essere svuotata dall’interno, non sarà il tatticismo elettoralista degli europeisti a rilanciarla.

GUIDO PIOVENE IL VENETO CHE HA SAPUTO RI-CONOSCERE IL PAESE

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Limpido racconto dell’Italia

Riproposto 60 anni dopo, il «Viaggio» mantiene l’efficacia di un reportage ben ancorato alla realtà, senza false mitologie, acutamente profetico

Andrea Cortellessa  –    5 Novembre 2017 – Il Sole 24 Ore domenica


L’Italia è bella perché è varia. E forse nessuno dei mille viaggiatori che nei secoli l’hanno mitologizzata è stato tanto puntiglioso, nel dar conto di tale inesauribile varietà, quanto colui che ne ha fornito l’immagine meno mitologica: Guido Piovene. Per questo Viaggio in Italia, che riporta in libreria Bompiani (il suo primo editore, al quale dedicherà nel ’70 Le stelle fredde: metafisico romanzo “postumo in vita” a sua volta riproposto con la bellissima introduzione di Andrea Zanzotto), resta un classico (che, in quanto tale, si poteva dotare di qualche cura in più). Quello di Piovene è il viaggio in Italia di un italiano; il suo libro rientra dunque in una tradizione che più sottile s’inalvea in quella più celebrata: quella (da Gadda a Landolfi, da Ceronetti a Celati) che fa capo alla Favola pitagorica di Giorgio Manganelli, per il quale l’Italia «è uno dei modi dell’altrove; […] è fuori». Chi da italiano viaggi in Italia deve divenire italiano: dell’Italia evita così i luoghi comuni, appunto le mitologie, i paesaggi cartolinizzati (del nostro tempo Piovene, in un pezzo del ’65 raccolto nel postumo Idoli e ragione, seppe antivedere il «fotografare anonimo, infinito, nevrotico e insensibile, questa specie di benda volontaria sugli occhi che impedisce di guardare il mondo»); si sposta nelle pieghe di un paesaggio che è anzitutto il suo paesaggio mentale.
Tutti questi viaggi sono ritorni a casa: ma per Piovene si trattò davvero di un viaggio da fuori, perché quando nel 1953 Antonio Piccone Stella gli propose per la Rai quello che quattro anni dopo diverrà Viaggio in Italia (sulla suggestione del De America quell’anno risultato da un periplo di 20mila miglia, da New York alla California: al volante – allora come in seguito – la devota seconda moglie Mimy, cioè Rachele Pavia), Piovene risiedeva da anni a Parigi, dove aveva lavorato per l’Unesco (a Londra invece, alla fine del ’74, finirà per morire semiparalizzato dalla SLA). Come altri italiani molto italiani Piovene avvertiva un’insofferenza, per una certa Italia, alla quale è difficile dare un nome (per questo, credo, all’Ombra di Piovene ha intitolato Franco Cordelli, nel 2011, un suo libro di ossessioni e riflessioni al quale si può ascrivere la cauta Piovene renaissance di questi anni), le cui spie vanno cercate proprio in questo libro in apparenza ammantato di «deplorevole ottimismo» (come lo rilegge lo stesso autore in un magnifico scritto recuperato proprio da Cordelli, Contro Roma, del ’73, ma uscito due anni dopo in un omonimo libro a più voci): le cui puntate andarono in onda dal ’53 al ’56, passarono per «Epoca» e infine pervennero, nel ’57, in una lussuosa edizione Mondadori che fu un successo e conobbe anche una riproposta televisiva nel ’68 (sono notizie che ricavo dalla monumentale antologia di Luca Clerici, Scrittori italiani di viaggio, uscita nei «Meridiani» nel 2013). Sicché è un peccato che tale origine “crossmediale”, come usa dire oggi, sia negletta dall’assenza delle bellissime foto aeree della princeps (ma opportuno sarebbe stato corredarla, pure, dei “ritorni” di Piovene: il citato Contro Roma nonché le pagine comprese, nel ’90, nel secondo volume dei Saggi).
L’ampiezza dello sguardo di Piovene si deve anche allo spazio a sua disposizione, ben eccedente quello degli altri reportage nati sui giornali: format allora ben più ampi di quelli di oggi ma tali, comunque, da costringere gli autori a equilibrismi retorici non sempre alleati della perspicuità. L’andamento conversevole di Piovene, le esitazioni, correzioni, anche ripetizioni con juicio, derivano invece dalla matrice “orale” delle sue pagine. Ma è così che può restituire la mutevolezza, la bellezza cangiante (per dirla con l’Hopkins dell’amico Montale) del suo Paese. Non solo le Marche «sono un plurale»: l’Italia intera «è una specie di prisma, nel quale sembrano riflettersi tutti i paesaggi della terra». E infatti Piovene si compiace di veder riflessi a distanza, di questo prisma, gli angoli più lontani: nella Sila ritrova «l’Alpe di Siusi o addirittura la penisola scandinava», in Lucania scopre angoli di Varesotto e del «bosco classico italiano, quello dei versi dell’Ariosto».
Ma l’Italia di Piovene è varia non solo in senso geografico. Della grande tradizione che il suo titolo riassume, il suo preferito era il testo fondativo, il Giornale di viaggio in Italia del signor di Montaigne (del quale scrisse un’introduzione nel ’59). Le star del genere a venire, come Stendhal, gli rimprovereranno la secchezza analitica, una mancanza d’entusiasmo «pittoresco», ma come dice Piovene nel Postscriptum all’edizione del ’66 (che è già un primo “ritorno” palinodico), il bagaglio di notizie economiche, l’escussione dei dati statistici, insomma la qualità d’«inventario» che ha emulato da Montaigne, sono un peso necessario per dare «il senso del concreto», al viaggio, e sottrarlo al «terreno spurio delle elucubrazioni più o meno brillanti su pretese caratteristiche perenni dell’Italia e dei suoi abitanti». Di colore Piovene poteva produrne, se voleva, quanto voleva (si leggano le pagine rapinose sulla Sicilia; quelle quasi da inviato speciale, in Puglia, da Padre Pio; o quelle sognanti sul vero e proprio ritorno nell’heimat vicentina); ma se ne asteneva, il più delle volte, per una scelta etica prima che stilistica.
Da Montaigne, però, Piovene deriva soprattutto la variabilità degli umori e delle idee («le idee», confessa nella premessa a Idoli e ragioni, «sono state per me viaggi»). Un altro suo amico incline ai ritorni, Vittorio Sereni (al quale nel ’66 Piovene dedica un pezzo che è un “cartone” dei suoi ultimi, straordinari romanzi), presenterà la sua ultima raccolta di versi, Stella variabile, con una formula proprio di Montaigne: «la vita fluttuante e mutevole». Non solo mutano, con quasi insostenibile vibratilità nervosa, i dettagli del paesaggio nel presente; soprattutto varia il senso, di quel paesaggio, a distanza di tempo. È una sensibilità che Piovene sa essere il suo proprium stilistico, ma anche la tabe che gli viene rimproverata: l’ambiguità che di volta in volta rivendica (la famigerata «malafede») e rinnega.
Già nel ’57 percepisce «il nuovo sovrapporsi al vecchio col distacco di una pellicola fotografata due volte in Paesi diversi»: dell’Italia registra cioè il mutare rapido dei caratteri antropologici, in termini che anticipano di un quindicennio le ben più note, e più gridate, considerazioni di Pasolini. Ma a posteriori, col «malumore» del ’66 e la «disaffezione» del ’73, il bilancio si fa ben più grave. Quella che già nel ’57 definisce la «società più mobile, più fluida e più distruttrice d’Europa», la vedrà affetta da un «furioso modernismo ritardatario», uno «spirito villano» che perde tutte le occasioni di un accesso equilibrato e consapevole alla modernità (nessun primitivismo «pittoresco», si capisce, in Piovene). E resta così, l’Italia, «un Paese oscuro a se stesso»: che assiste allo sgretolarsi del suo patrimonio artistico, dirà in Contro Roma, come alla «morte di un vecchio cane che toglieva libertà in casa». L’unità del Paese è stata realizzata a freddo, ma Piovene previene ricette folk a venire: la «cultura regional-popolare per me è altrettanto dubbia di quella nazional-popolare di buona memoria». In realtà, scrive nel ’73, «siamo in bilico tra due vuoti»: una rivoluzione socialista che lascerà, gattopardesca, tutto come prima, oppure un «tirare avanti all’infinito con un’Italia aculturale e affarista» che «scivolerà tra le nazioni più arretrate […]. Sarà grave per noi, indifferente per il mondo». Come è andata a finire si sa.
Il vuoto è l’incubo dell’ultimo Piovene: quello che contempla assiderato, come da un altro pianeta, non solo «la ex bellezza del mondo» (come dirà nelle Stelle fredde) ma la fine dell’idea stessa di mondo. Così siglerà questo sentimento il Sereni di un postremo “viaggio in Italia”, Autostrada della Cisa, sfrecciando «di tunnel in tunnel»: «non lo sospetti ancora / che di tutti i colori il più forte / il più indelebile / è il colore del vuoto?»
Guido Piovene, Viaggio in Italia , nota
di Oreste del Buono, Bompiani, Milano, pagg. 896, € 20