La nuova divisione che s’aggira per l’Europa

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Sergio Fabbrini – 1 Aprile 2018 – Il Sole 24 Ore domenica

Le difficoltà della crisi politica italiana sono strutturali e non già contingenti. Quella crisi ha le sue radici nella trasformazione della politica nazionale, a sua volta accelerata dai cambiamenti intervenuti in Europa lungo le crisi multiple dell’ultimo decennio. Se così è, allora si uscirà dalla crisi politica solamente quando si formerà un sistema di partiti capace di rappresentare la frattura lasciata in eredità da quelle crisi, quella che contrappone coloro che rifiutano l’interdipendenza (i sovranisti) e coloro che la ritengono necessaria (gli europeisti). La frattura tra sinistra e destra non è sparita, ma ha assunto un ruolo secondario nella politica italiana. La soluzione della crisi politica italiana richiederà un processo, allo stesso tempo, di de-strutturazione e ri-strutturazione del sistema di partito, così da rappresentare la nuova divisione che c’è oggi nel nostro Paese. Mi spiego con delle date.
L’esito delle elezioni del 4 marzo ha portato a compimento una crisi politica iniziata (simbolicamente) il 16 novembre 2011 (quando si insediò il governo Monti). La nascita del governo Monti non fu dovuta ad un colpo di stato contro il precedente governo Berlusconi (come pure qualcuno continua a sostenere), ma alla irresistibile pressione sulla politica interna di fattori esterni (tra cui i mercati finanziari prima ancora che le autorità europee). Quella data mostrò in modo inconfutabile che l’Italia (al pari, seppure in misura diversa, degli altri Paesi europei) non disponeva più dell’autonomia per decidere le proprie politiche di bilancio sulla base dei propri processi elettorali.
Da quel 16 novembre 2011, la politica e l’elettorato italiani hanno cominciato a dividersi su come rapportarsi con l’interdipendenza del Paese. Con il successo elettorale, il 4 marzo scorso, della Lega e dei 5 Stelle quella divisione ha dato vita ad un polo sovranista (per ora) maggioritario, seppure differenziato al suo interno, perché caratterizzato dalla volontà di mettere in discussione i vincoli dell’interdipendenza. Se, per bipolarismo, s’intende la istituzionalizzazione di strategie politiche o visioni ideologiche alternative, è certo che i due vincitori delle elezioni (Lega e 5 Stelle) sono tutt’altro che alternativi.
Certamente i loro programmi elettorali sono diversi, i loro obiettivi sono distinti, i loro elettorati sono territorialmente differenziati. Tuttavia, essi condividono la stessa visione politica, quella di superare i vincoli esterni che si sono imposti sulle nostre esigenze interne. Una visione inconciliabile con l’attuale governance europea. Se così è, allora la politica italiana acquisirà un formato bipolare solamente quando si aggregherà un polo alternativo e competitivo di orientamento europeista. Il nuovo bipolarismo, però, avrà diversi ostacoli da superare. Per quanto riguarda gli europeisti, essi non potranno limitarsi a difendere l’interdipendenza così come si è sviluppata finora, visti i costi sociali che ha fatto pagare a quote considerevoli della popolazione italiana. Anche qui c’è una data, la fine del 2009, quando è arrivata in Europa la crisi finanziaria esplosa in America. Per rispondere a quella crisi, la Ue e l’Eurozona hanno approvato una successione di Trattati intergovernativi e di provvedimenti legislativi che hanno profondamente modificato la loro governance, rendendola sempre più regolamentata e centralizzata. Una governance che, essendo intergovernativa, nelle condizioni della crisi ha alimentato la sfiducia reciproca tra i governi, sollecitando quindi l’approvazione di nuove regole per tenere quella sfiducia sotto controllo. Come promuovere l’interdipendenza senza accettare l’invasività della governance europea sulle politiche nazionali? Questa è la sfida politica che gli europeisti dovranno affrontare.
Ma le sfide che dovranno affrontare i sovranisti sono (se possibile) ancora più complesse. Anche qui c’è una data, anzi due. La prima è il 23 giugno 2016, quando, in un referendum popolare, i britannici decisero di uscire dall’Unione europea. Molti pensarono (allora) che la decisione britannica avrebbe aperto la strada al successo dei sovranismi anche in altri Paesi. Così però non è avvenuto. La Brexit si è infatti dimostrata un insuccesso, economico oltre che politico. La seconda data è il 7 maggio 2017, quando, nel secondo turno delle elezioni presidenziali francesi, la candidata sovranista Marine Le Pen (che aveva promesso di portare la Francia fuori dall’Eurozona) ottenne il 33,9% dei voti. Seppure ragguardevoli, quest’ultimi erano poco più del 10% rispetto a quelli ottenuti nel primo turno del 23 aprile, mentre il candidato europeista Emmanuel Macron quasi triplicò i suoi. Dopo quelle due esperienze, è chiaro che il sovranismo radicale non può essere un’alternativa vincente all’integrazione sovranazionale. Di qui l’adozione, da parte delle forze sovraniste, di una strategia per svuotare l’integrazione dall’interno, nullificando molte delle competenze acquisite dalle istituzioni sovranazionali. Ma cosa significa ciò per l’Italia? E cosa significa svuotare dall’interno l’Eurozona? Per ora si può dire che il sovranismo è forte elettoralmente, ma molto di meno politicamente. Naturalmente, l’Italia non è un’eccezione. In quasi tutti i Paesi europei è emerso il contrasto tra esigenze interne e vincoli esterni, un contrasto che sta dando vita ad una nuova frattura politica. La frattura che nasce dall’interdipendenza del XXI secolo sta oscurando quella nata dall’industrializzazione del XIX secolo. Di qui le trasformazioni dei sistemi di partito. Si guardi la Francia, dove la principale frattura politica è tra la coalizione europeista di Macron e il nuovo Rassemblement sovranista di Marine Le Pen. Oppure si guardi la Germania, dove la Große Koalition è di fatto un partito coalizionale europeista cui si contrappone l’opposizione sovranista di Alternative für Deutschland. In entrambi i casi, ma ciò vale anche per altri Paesi, sinistra e destra non forniscono più i criteri per organizzare il sistema politico. In Italia, con le elezioni del 4 marzo, si è affermato un nuovo polo sovranista, sia pure internamente disomogeneo sul piano programmatico, che favorirà la nascita di un polo europeista (e non già di un nuovo “centro”). Si tratterà di vedere se il polo sovranista rimarrà maggioritario quando cercherà di portare l’Italia fuori dai vincoli dell’interdipendenza. Allo stesso tempo, si tratterà di vedere come il polo anti-sovranista riuscirà ad avanzare una prospettiva credibile di riforma di quei vincoli, per consentire all’Italia di rimanere al loro interno. Anche da noi, come si vede, la vecchia divisione tra sinistra e destra non aiuta ad affrontare le nuove sfide. L’Italia è parte di una trasformazione più generale che varrebbe la pena di capire prima di stabilire sia buona o cattiva.

Il personaggio

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Giuseppe Galasso, testimone del Sud la storia al servizio della buona politica
FRANCESCO ERBANI – Repubblica – ‎13‎/‎02‎/‎2018

Giuseppe Galasso, morto ieri a 88 anni nella sua casa affacciata sul mare di Pozzuoli, è stato uno storico di grande valore, ma non è semplice tenere stretta la sua biografia intellettuale dentro il recinto di una disciplina, nonostante ne sia stato un maestro lungo l’intero secondo Novecento. Galasso ha interpretato il mestiere di storico in senso spiccatamente civile. Sia che si occupasse del Mezzogiorno, studiandolo dall’età medievale fino alle questioni di più urgente attualità, sia che trattasse di Potere e istituzioni in Italia (è il titolo di un saggio einaudiano del 1974) o di questioni europee, la sua prosa densa e tornita evocava l’insegnamento di Benedetto Croce e la sua metodologia storiografica, assimilata attraverso la lezione di Federico Chabod. Ma, appunto, nella vita di Galasso ha un ruolo eminente l’impegno politico-culturale e anche politico in senso stretto.
A metà degli anni Cinquanta, giovane laureato, figlio di un piccolo artigiano con una bottega di vetreria nel centro storico di Napoli, borsista presso il crociano Istituto di studi storici, insieme a un gruppo di coetanei segue Francesco Compagna nell’avventura di Nord e Sud, la rivista che raccoglie le intelligenze liberaldemocratiche (Rosellina Balbi, Nello Ajello, Rosario Romeo e altri ancora) e che fronteggia i giovani marxisti di Cronache meridionali. È lì che si forma il suo meridionalismo, che non è solo una prospettiva dalla quale guardare alla storia del Mezzogiorno, ma è anche azione concreta, orientata in favore di un’integrazione delle regioni meridionali nel contesto italiano ed europeo, e contro ogni tentazione sudista (in quegli anni Napoli è dominata da Achille Lauro). Galasso si muove sui due fronti, scientifico e politico. Con il trascorrere degli anni allarga le sue collaborazioni giornalistiche, dall’Espresso al Corriere della Sera.
È un polemista efficace. Ma forse il volume che raccoglie appieno la sua impostazione meridionalista è un dialogo con Gerardo Chiaromonte, intitolato L’Italia dimezzata (Laterza, 1980), un dialogo serrato, controversiale, che comunque dà la misura di quale densità intellettuale possedesse quel dibattito, e di come questa sia poi evaporata.
La bibliografia di Galasso è vastissima. La storia del Mezzogiorno ne è il fulcro, ma sempre osservata come parte di quella nazionale e non solo nazionale e come chiave di volta per la soluzione di questioni che riguardano tutti. La Napoli spagnola, gli scritti di Antonio Gramsci, e poi Gaetano Salvemini, le indagini sullo stereotipo del napoletano, sui riti, sui santi e sulle feste. E quindi Croce, di cui fornisce un esauriente ritratto in Croce e lo spirito del suo tempo
(1990, poi aggiornato nel 2002), e al quale si dedica con costanza curando l’edizione delle opere per Adelphi.
Ma la bibliografia non basta a dar conto della personalità di Galasso. Non sono molte le leggi note con il nome di chi le ha promosse. La legge Galasso, forse la più innovativa norma a protezione del paesaggio, è una di queste. Fu varata nel 1985. Galasso, deputato del partito repubblicano, era da due anni sottosegretario ai Beni culturali nel governo che nel 1984, ministro Franco Nicolazzi, aveva approvato il primo condono edilizio. Lui, con la collaborazione di Antonio Iannello e di Paolo Maddalena, andò in direzione completamente opposta: vincolò per legge intere categorie di beni, le coste, le sponde di fiumi e di laghi, e poi colline, montagne e ghiacciai. Il paesaggio era definito un bene culturale e ambientale insieme. E le Regioni erano obbligate a redigere piani paesistici, altrimenti sarebbe intervenuto il ministero. Un sostanziale rovesciamento delle politiche fin lì adottate, attuato nella stagione d’oro della deregulation più spinta in materia urbanistica e che tuttora rappresenta un baluardo.
Anche in quell’intrapresa legislativa scorreva linfa crociana, del Croce ministro dell’Istruzione che nel 1920 aveva promosso una legge in difesa del paesaggio.

Vite sulle cime

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I graffiti dei pastori la storia incisa sulle Dolomiti
In Trentino raccolte 50mila scritte narrano cinque secoli di civiltà montana


GIAMPAOLO VISETTI, SAN MICHELE ALL’ADIGE ( TRENTO) – la Repubblica 13 febbraio 2018
Anno 1840, l’ultimo cacciatore di orsi delle Dolomiti di Fiemme, Giovanni Battista Zorzi, annota il fatto più importante della stagione: «Segato il fosso tre volte». Questa decisiva quota di pianeta, ovunque, oggi è abbandonata. Gli ultimi pastori irritano, bloccando il traffico. Per capire la vastità delle conseguenze restano le loro scritte commoventi: primo testo storico e letterario, ma pure di sostenibilità economica, nell’Italia che a metà ‘900 ha accettato di ignorare la natura.
Le scritte lasciate dai pastori sulle pareti delle malghe o sulle rocce riportano le iniziali, l’anno e il numero di animali
«T. D. la bella del pastore è ormai perduta, qui resto solo, 1818». Due secoli fa, sui pascoli delle Alpi e degli Appennini, già si scriveva d’amore. Sul posto di lavoro però si timbrava anche il cartellino.
«Essendo il 12 settembre — scrive D. V. nel 1822 — sono qui sotto a segare questo prato erto». E i bambini, appena compivano otto anni, salivano in montagna da soli e per mesi, con greggi e mandrie sterminate. «Anni 10 — scrive VG — eviva la baraonda, 105 pecore».
Qualcuno intuiva che in alta quota passava anche la storia: «Fine dela guera mondiale — scrive E. D. nell’autunno del 1918 — cola disfata dei todeschi». Altri registravano gli eventi estremi del tempo: «Freddo e neve — nota un anonimo nel pieno di un agosto — addio». Tra Siena e Como etnografi e archeologi stanno finendo di comporre il grande libro delle «scritte dei pastori» italiani, i graffitari dei pascoli che nel corso di oltre cinque secoli hanno raccontato l’epopea della civiltà in cui uomini e animali vivevano insieme. I primi writer, costretti alla solitudine delle transumanze o delle baite, per secoli hanno tenuto il diario di un popolo essenziale e dimenticato.
Lo hanno inciso sulle rocce e nelle grotte, sui muri delle malghe e nelle stalle, agli incroci dei sentieri, sopra i loro attrezzi e sulle pareti annerite accanto ai focolari dove scaldavano il latte per fare il formaggio. Questo romanzo collettivo affidato alla natura, composto in un italiano approssimativo e in diversi dialetti, è scritto con polvere di pietra sciolta con latte, urina o saliva, oppure con la cenere di tizzoni accesi. Lo si legge camminando, tra la Spagna, la Francia e la Slovenia, sui prati di tutto l’arco alpino e sui pascoli che hanno sfamato l’Italia, fino alla Sicilia e alla Sardegna.
Nessuno però, fino a oggi, aveva tentato l’impresa di rintracciarlo, documentarlo, riordinarlo e comprenderlo, trasformandolo nella cronaca della vita degli umili, lungo un’era finita per sempre a metà del Novecento. Nel Museo degli usi e costumi di San Michele all’Adige, che in Trentino quest’anno celebra il mezzo secolo con un convegno al British Museum di Londra, dopo dodici anni di lavoro i ricercatori sono certi di aver trovato la chiave per capire l’intero racconto della «grande storia» secondo gli occhi e il cuore dei pastori. In Val di Fiemme, un tempo confine tra Nord e Sud dell’Europa, tra montagna e pianura, migliaia di scritte e di disegni alzano il velo sui cinquecento anni in cui «ogni filo d’erba era curato, contato ed essenziale per sopravvivere».
«Rispetto ai preistorici graffiti abruzzesi o alle iscrizioni rupestri della lombarda Val Camonica — dice il direttore Giovanni Kezich — la scoperta è che ora riusciamo a penetrare nel codice dei testi di epoca moderna. È una sorta di Stele di Rosetta della scrittura pastorale di tutto il mondo». Qui i messaggi salvati, presto raccolti in un libro, sono già 47.705: il primo risale al 1470, l’ultimo al 2011. Nel sud dell’Europa gli antenati di sms e WhatsApp, ancora leggibili sui pascoli, superano il milione. Rivelano che i custodi di pecore e mucche erano l’élite del lavoro, democraticamente eletti dalle comunità e ben pagati, al punto da permettersi l’esercito infantile dei sotto-pastori. Per questo sapevano, e dovevano, scrivere e disegnare. «Vivendo sempre fuori — dice l’etno-archeologa Marta Bazzanella — avevano bisogno di protezione. Invocavano la provvidenza contro fulmini, gelo, siccità, orsi e lupi. Ma la priorità era documentare il proprio lavoro, prendere appunti e dare indicazioni agli altri per sostenere l’economia della sussistenza, componendo un vero e proprio manuale». Nulla era lasciato al caso, gli animali costituivano il bene cruciale: ogni giorno i proprietari pretendevano notizie. Le scritte standard, per secoli, imponevano la sigla del pastore, la data, il numero dei capi vivi: «B. Z. 1772 FL (“fece l’anno”, ndr) 147 (l’ammontare del gregge, ndr). Tra Ottocento e Novecento agli sms di lavoro si sono aggiunte le confidenze personali: fatti accaduti, messaggi per mogli e fidanzate, minacce e rimproveri a colleghi, moniti a evitare sacrifici che potevano spingere al suicidio. «Cari letori — si legge — da più ani che si fa cuesta vita solitaria e tormentosa, ricordatevi di me, adio». Oppure: «Amici vi prego di non fare anche voi questa vita crudele», e «per buona grazia oggi mi ho tagliato in una gamba, ti saluto e son l’amico». Ma anche: «Vi saludo resteladore», o «Io sono qui a sofrire per te lontana», o «Bella come la luna ti vedo ogni notte».
Aneddoti, poesie, autoritratti, preghiere, dati biografici e nomi per lasciare traccia di sé nell’universo: quando si «viveva a mano» il popolo dei pastori ha inconsapevolmente scritto la propria storia dell’Italia e per la prima volta ognuno presto potrà leggerla, scoprendo quanto ha perduto. «Ogni dettaglio — dice Marta Bazzanella — doveva filare alla perfezione. Il Paese dipendeva dal bestiame e viveva costantemente sul filo, sospeso tra fame e disastri. Le scritte dei pastori rivelano ora la serietà e la profondità, ma anche la cura maniacale per il territorio, che hanno segnato la nascita reale della grande bellezza italiana».

“L’eStato vale il 2 % del PIL”

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«L’impatto è sull’efficienza I pilastri? Alfabetizzazione, connettività e servizi»


E-GOVERNMENT : IL MODELLO ESTONIA PARLA IL CIO SIIM SIKKUT
Guiomar Parada – NOVA24 – Il Sole 24 Ore domenica – 28 Gennaio 2018
Ogni cittadino e ogni impresa in Estonia guadagna ogni anno una settimana grazie alla digitalizzazione dello Stato che riesce a offrire migliori servizi, in maniera efficiente, utilizzando strumenti digitali per la sanità, il lavoro, l’istruzione, le società, il fisco. «Con una motivazione prevalentemente economica, il driver iniziale verso l’e-governo è stata la necessità della maggiore efficienza possibile, perché, pur con una economia molto aperta, disponevamo di poche risorse naturali e volevamo che lo Stato assolvesse tutte le sue funzioni», spiega Siim Sikkut, vicesegretario per l’It del ministero dell’Economia estone: «La sfida delle nostre amministrazioni è stata strutturare lo Stato e le sue funzioni al meglio per la produttività anche sperimentando con le tecnologie e il digitale».
I risultati si sono visti subito e così la digitalizzazione da esperimento è diventata strategia e sforzo consapevole, sottolinea a Bruxelles per l’evento “A Digital Presidency. Takeaways for a Digital Europe” presso il Ceps. «L’impatto più importante in termini economici – prosegue – è l’efficienza fornita ai cittadini e agli imprenditori grandi e piccoli: il concetto di sportello (e code) quasi non esiste più. Ma sono arrivati anche minori costi di funzionamento della Pa e la trasformazione della burocrazia e della gestione delle politiche governative». Per valutare gli effetti economici sono molto utili quelle che il governo chiama “nicchie digitali”, vale a dire la valutazione della bontà economica di ogni nuovo sistema o tecnologia fatta considerando ogni investimento come un business case a sé. «Una cifra certa è il 2% del Pil, ossia quello che cittadini e imprese si ritrovano ogni anno con la digitalizzazione e la minore burocrazia. E non è nemmeno necessario che la settimana sia reimmessa nel ciclo economico, perché ha lo stesso valore se è dedicata alla famiglia, all’istruzione o altro. Per le aziende, lo snellimento burocratico si traduce in maggiori profitti, più investimenti, più assunzioni e quindi, per lo Stato, più crescita e più entrate fiscali». Sikkut, che è anche Government chief information officer del Governo estone, spiega volentieri come ci sono riusciti quanto a infrastrutture e investimenti.
«Individuando tre pilastri. Il primo è la connettività: ora abbiamo un mercato delle telco molto competitivo, ottenuto con le privatizzazioni, salvo nelle aree rurali dove interviene ancora il governo. Il secondo è l’alfabetizzazione digitale, per la quale è stata adottato un approccio top-down, che ci è sembrata la strada più veloce perché le persone acquisissero la fiducia per accedere con la loro identità digitale ai servizi sociali, sanitari, fiscali e le imprese sfruttassero al meglio servizi altamente digitalizzati. Lo sforzo è continuo anche se oggi solo un 10 per cento degli abitanti è offline».
Il terzo pilastro, spiega il Cio del governo estone, è derivato dai primi due: fornire i servizi più avanzati. Oltre all’identità digitale per persone e aziende, il paese baltico fornisce l’e-residenza a chi ha attività su vari paesi e le può gestire remotamente, “perché no, dalla Norvegia o da una spiaggia in Sicilia, senza bisogno di intermediari o di tasse su ogni transazione. Il successo è andato oltre il previsto: abbiamo circa 30mila e-residenti».
Quanto a cyber sicurezza, l’Estonia è molto esposta perché non dispone di backup: «I rischi devono essere presi molto seriamente, ma non come scusa per evitare la digitalizzazione. La nostra soluzione è stata congegnare sistemi al top».
Che cosa direbbe a suoi interlocutori in Italia, per esempio? «Innanzitutto la nostra esperienza dimostra che “si può fare”, sia pure con molto impegno, con decisioni coraggiose e soprattutto con la volontà di trasformare il funzionamento dello Stato». Senza dimenticare, ricorda Sikkut, che i benefici sono quantificabili. «Guardate dove siamo oggi – conclude -: all’Europa lasciamo la Dichiarazione di Tallin e le nostre best practices a dimostrazione del fatto che la digitalizzazione dello Stato è la strada che tutti dobbiamo percorrere collaborando attivamente».

Un nuovo equlibrio nell’era globale

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Le soluzioni a livello nazionale sono spesso limitate e pertanto serve un modello corretto di cooperazione

Gordon Brown * – Il Sole 24 Ore domenica – 28 Gennaio 2018
I movimenti protezionistici e la tendenza a “riportare tutto sotto controllo” fioriranno fin quando la globalizzazione resterà senza una guida e procederà come un treno in corsa sbandando e andando fuori controllo. È triste ma ci sono buone ragioni per le quali “globalizzazione” sia diventata una brutta parola per milioni di persone. I pilastri del Washington consensus stanno collassando. Molti ora concordano sul fatto che il libero scambio senza commercio equo crea milioni di perdenti accanto ai vincitori. I flussi di capitale non regolamentati possono destabilizzare le economie. E le crescenti disuguaglianze sociali possono sortire effetti negativi sulla crescita.
Questa consapevolezza colpisce al cuore il libero mercato e a distanza di dieci anni dalla crisi globale non si può fare a meno di riconoscere che persone o aziende che agiscono esclusivamente nel proprio interesse non sempre siano al servizio del pubblico. Ma non è ancora emerso un nuovo paradigma economico per l’era globale. Nel vuoto che ne consegue, il protezionismo e il populismo anti-commercio, il nazionalismo illiberale – e spesso xenofobo – hanno guadagnato terreno, alimentati dalle preoccupazioni per i salari stagnanti, la disoccupazione tecnologica e la crescente insicurezza. E statene certi: coloro che sono stati abbandonati e lasciati indietro dalla globalizzazione stanno cercando qualcosa e qualcuno che ascolti il loro malcontento e li protegga.
Ma nessun nazionalismo – sia esso quello propugnato dal presidente Trump o da altri – né un sistema eccessivamente stereotipato o elaborato di governance soddisferanno le esigenze delle persone in termini di prosperità, sicurezza, giustizia. Se dobbiamo domare la globalizzazione e rispettare le identità nazionali, dobbiamo trovare il giusto equilibrio tra autonomia nazionale auspicata da molti cittadini e accordi internazionali agognati da molti Paesi.
Il nazionalismo del tipo America First di Trump propone di tagliare le importazioni, limitare l’immigrazione e abbandonare l’accordo di Parigi sul clima e gli accordi di libero scambio. Per un Paese che beneficia del suo ruolo di leader nelle catene di distribuzione globali, questa è una strategia autodistruttiva.
Trump non sa – o forse non vuole sapere – che tagliando le importazioni rischia di tagliare le esportazioni, perché miliardi di dollari di esportazioni Usa contano sui componenti importati. E si dimentica che la redditività di molte aziende Usa dipende più dai lavoratori asiatici che utilizzano tecnologia americana che dai più costosi lavoratori americani che impiegano le stesse tecniche di produzione.
L’alternativa progressista che è il “nazionalismo responsabile” è un programma per compensare i ceti medi con la riqualificazione e i sussidi salariali. E anche i sedicenti sistemi di welfare europei consentono di far uscire dalla povertà solo un terzo dei poveri.
Negli Usa le disuguaglianze sono ora così evidenti che il credito d’imposta sul reddito federale fornisce solo il 2,5% di ciò che sarebbe necessario per riportare la distribuzione del reddito tra la fascia più bassa, 80%, e quella più alta, 20%, ai livelli degli anni 80. Affrontare elevati livelli di disuguaglianza richiederà la cooperazione internazionale per rimpatriare i miliardi dei paradisi fiscali.
La battaglia contro il degrado ambientale pone lo stesso problema: il progresso sostenibile contro l’inquinamento non si può realizzare se gli stati-nazione non riescono a prendere seriamente le proprie responsabilità per ridurre le emissioni e passare all’energia rinnovabile.
Le soluzioni a livello nazionale hanno un limite e pertanto urge un modello corretto di coopePer bilanciare autonomia e cooperazione iniziare da azioni nelle aree in cui i vantaggi sono più elevatirazione per conseguire la prosperità nazionale in quest’era iper-connessa. Per puntare sul giusto equilibrio tra autonomia e cooperazione bisogna chiarire la distinzione tra il concetto di sovranità di Stato del XIX e del XX secolo. Nel primo caso il potere è centralizzato nelle mani di un singolo Stato che è visto come indivisibile; nel secondo il potere è focalizzato sull’autogoverno popolare, con i cittadini che scelgono se il potere debba risiedere a livello locale, nazionale o internazionale.
Nel 2018 e negli anni a venire, dovremo stabilire piani realistici per rispondere alle reazioni negative nei confronti della globalizzazione gestendo meglio proprio la globalizzazione. Nessuno dispone di una roadmap per bilanciare autonomia e cooperazione. Ma il modo migliore per iniziare è focalizzarsi su azioni internazionali di cooperazione in aree in cui i vantaggi sono più elevati, o i costi di non-cooperazione sono i più pesanti. Ma dovremo anche affrontare le questioni distributive, nel commercio, nel cambiamento climatico o nello sviluppo e nell’impiego di tecnologie.
È tempo di creare a livello mondiale un sistema di preallerta per i mercati finanziari che si basi su standard applicabili a livello globale in materia di adeguatezza patrimoniale, liquidità, trasparenza e responsabilità, e includa punti di azione concordati di fronte al moltiplicarsi di rischi.
Dobbiamo ampliare la portata degli interventi di ristrutturazione finanziaria post-crisi per coprire i centri finanziari globali. Altrimenti, quando la prossima crisi colpirà, non sapremo affrontarla.In secondo luogo, dobbiamo riformare l’offerta globale e le catene di valore. Ovviamente dovremmo avere regole eque in materia di proprietà intellettuale e barriere tariffarie e non. Ma occorre affrontare anche le ingiustizie che sono alla base delle catene di distribuzione globali e alimentano le odierne proteste anti-globalizzazione. In terzo luogo, dovremmo migliorare la cooperazione macroeconomica. Nel decennio passato, la crescita della produzione globale e del commercio è stata inferiore a quanto avrebbe dovuto e potuto essere.
Nel 2009 ho proposto un target di crescita nominale per l’economia mondiale per garantire una ripresa più rapida dalla recessione post-crisi. Allora, nel 2010, il G20 raggiunse un accordo in base al quale i maggiori Paesi esportatori come la Cina avrebbero limitato i surplus di parte corrente al 4%, e i maggiori Paesi importatori come gli Usa avrebbero messo un tetto ai deficit.
Per ridurre gli squilibri macroeconomici e incentivare la crescita serve un G20 più solido. Il “Premier forum for economic cooperation” dovrebbe avere una capacità esecutiva, un maggior numero di Paesi aderenti e una maggiore rappresentanza.
Quando ero premier del Regno Unito, il governo lottò per trovare un accordo commerciale mondiale, mentre India e America continuavano a rifiutarsi di tagliare le importazioni agricole per tutelare i mezzi di sussistenza dei contadini indiani. Oggi, senza l’aiuto dell’America, i Paesi del Pacifico discutono dei propri accordi commerciali multilaterali, e questo suggerisce di prepararci a un periodo, post-Trump, in cui un nuovo accordo mondiale sarà nuovamente possibile.
Nel frattempo, l’economista e premio Nobel Michael Spence ha eloquentemente sostenuto che l’Fmi dovrebbe maggiormente focalizzarsi sulla sorveglianza globale, con l’obiettivo di identificare e rimuovere le debolezze strutturali in un’economia mondiale in rapida evoluzione.
Sarebbe d’aiuto se i piani volti a finanziare gli Obiettivi di sviluppo sostenibile Onu per il 2030 includessero la ricapitalizzazione della Banca mondiale per conferirle maggior potere di contrarre debiti. Le risorse della Banca potrebbero essere aumentate effettuando una fusione del fondo per i Paesi a basso reddito, l’International Development Association, con il fondo per i Paesi a medio reddito, l’International Bank for Reconstruction and Development, e incoraggiando una maggiore cooperazione tra la stessa Banca mondiale e altre banche regionali per lo sviluppo.
Mentre i partecipanti discutevano sul dare inizio al forum Billions to Trillions ad Addis Ababa, Etiopia, quasi tre anni fa, i target di sviluppo per ambiente, salute, parità di genere e occupazione invocavano piani innovativi di esecuzione per usare al meglio il budget mondiale di aiuti pari a 160 miliardi di dollari. L’International Commission on Financing Global Education Opportunity, che ho presieduto in passato, ha proposto un sistema di finanziamento pubblico-privato che possa fare da completamento alle esistenti istituzioni e raccogliere altri 10 miliardi di dollari l’anno per l’istruzione in tutto il mondo.
Dobbiamo sviluppare meccanismi che non si limitino a recuperare elemosina. Solo con l’innovazione possiamo occuparci dei 20 milioni di rifugiati del mondo e dei 60 milioni di sfollati, che hanno patito indicibili atrocità, e che il sottosegretario generale Onu António Guterres si sta impegnando ad aiutare.
È giusto che la comunità internazionale fissi obiettivi di sviluppo ambiziosi. Ma se non riusciremo a realizzare tali obiettivi pioveranno accuse di tradimento. I nazionalisti continueranno a sostenere che non ci si può fidare degli attuali leader politici e gli estremisti di ogni bandiera insisteranno sul fatto che non sia possibile la coesistenza tra Paesi, culture e religioni.
Con l’America in ritirata e la Brexit che minaccia di isolare la Gran Bretagna, il 2018 quasi certamente registrerà delle battute d’arresto. Ma è pronta una nuova agenda in grado di assicurare prosperità a tutti i Paesi, non solo con azioni nazionali, ma anche attraverso una maggiore cooperazione internazionale, a partire dalle aree più promettenti, per poi diffondersi in molteplici ambiti.
Ex premier e cancelliere dello scacchiere del Regno Unito, è inviato speciale Onu per l’educazione globale e presidente della Commissione internazionale per il finanziamento di opportunità educative globali
Un nuovo equilibrio nell’era globale

«Globalizzazione inclusiva unica via per la prosperità»

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INTERVISTA a RAGHURAM RAJAN ECONOMISTA – Davos
La crescita globale è forte ma abbiamo avuto otto anni di politiche molto espansive
Gianluca Di Donfrancesco – Il Sole 24 Ore – 24 Gennaio 2018
«Non c’è una scelta possibile tra la globalizzazione e il suo contrario: se vogliamo un mondo più prospero bisogna insistere sulla globalizzazione, facendo partecipare tutti ai suoi benefici». L’ex governatore della Banca centrale indiana (Rbi) ed ex capo economista dell’Fmi, Raghuram Rajan, è a Davos nella sua nuova vecchia veste di professore della Booth School of Business dell’Università di Chicago, dove aveva iniziato la sua carriera accademica. Nel frattempo, è stato uno dei pochi a prevedere già nel 2005 la grande crisi finanziaria, e quando ha assunto la guida della Rbi, in un solo mandato ha domato la crisi valutaria del Paese e la sua iperinflazione. Il magazine di finanza Barron’s lo aveva proposto come successore di Janet Yellen alla guida della Fed.
Quanto bisogna essere preoccupati dalla ripresa del protezionismo, anche alla luce delle ultime mosse degli Stati Uniti, e del populismo?
Protezionismo e populismo sono in un certo senso un grido contro le élite e le politiche economiche che nel dopoguerra hanno generato tanta prosperità, ma che ora vengono accusate di essere corrotte, le prime, e di non funzionare più, le seconde. Di qui la richiesta di una nuova leadership che risponda più direttamente alla gente. È un grido più che legittimo, ma va affrontato risolvendo i problemi che lo generano, non ripudiando il sistema.
Rendere la globalizzazione più inclusiva è appunto uno dei temi di Davos. Ma come si fa?
Non c’è una soluzione semplice. Molti direbbero con l’istruzione, la riqualificazione, ma non è facile per un 55enne che è stato nella siderurgia per molto tempo adeguarsi alla nuova realtà. Quello che è assolutamente necessario è non perdere la prossima generazione. Non possiamo concentrarci solo su chi perde il lavoro, ma dobbiamo pensare anche ai giovani che ancora non lo hanno.
Cosa pensa allora del reddito minimo di cittadinanza?
Anche se suona attraente, comporta alcuni problemi. Il primo è l’enorme costo. Un altro problema è che se puoi guadagnare decentemente senza dover lavorare, diventa molto più complicato trovare persone disposte a fare lavori difficili senza pagarle molto di più. Ci sono altre strade, è troppo facile dire che questo è il futuro. Per esempio, si potrebbe ricorrere a forme di occupazione alternative per persone non qualificate: sarebbe uno stipendio per fare qualcosa e non per non fare niente.
Proprio da Davos, l’Fmi ha parlato di una robusta ripresa dell’economia globale. Ma lo sarà abbastanza da sostenere la fine delle politiche monetarie espansive?
La verità è che non lo sappiamo. La buona notizia è che la crescita globale è forte, ma abbiamo avuto otto anni di politiche molto espansive e di enorme liquidità che hanno alimentato indebitamento e dipendenza dal finanziamento delle banche centrali. Se il cambio di politiche monetarie sarà graduale, i mercati sapranno adeguarsi. In caso contrario, più che la crescita mi preoccupa appunto la tenuta dei mercati finanziari. Comunque non c’è alternativa, le banche centrali non possono continuare a dare liquidità ancora a lungo, perché aggrava quelle fragilità.
Da governatore della Rbi, ha definito l’inflazione una tassa sulla povertà. Nelle economie avanzate c’è invece un tema di inflazione troppo bassa.
Credo che un’inflazione stabile sia più facile da gestire di una volatile, alta o bassa che sia. Quindi avere un po’ di inflazione ogni anno aiuta a risolvere certi problemi, compresa la necessità, quando c’è, di tagliare i salari. Il problema è che non sappiamo come far salire l’inflazione con la stessa facilità con cui sappiamo farla scendere. Una bassa inflazione può essere un problema, ma se è bassa e stabile, non è così grave. In effetti, dovremmo chiederci se dobbiamo sforzarci tanto per alzarla, soprattutto nei casi in cui il debito il pubblico è basso. Dobbiamo ripensare il mandato delle banche centrali.
Come valuta le politiche economiche di Trump?
La riforma fiscale di Trump ha benefici che non vanno sottovalutati, può spingere gli investimenti. Avrei però voluto vedere maggiore enfasi sulla promozione del capitale umano, che è il tema fondamentale nei Paesi industrializzati. D’altro canto, ci sono le perplessità sulla sostenibilità di lungo termine dei conti pubblici Usa. Credo sia necessario fare qualcosa al riguardo.

Il nuovo mondo va governato come una startup

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Klaus Schwab – Fondatore e presidente esecutivo del World Economic Forum
Il Sole 24 Ore domenica – 21 Gennaio 2018
Mentre la Quarta rivoluzione industriale continua a rimodellare l’economia politica globale, molti sono in cerca di idee su come attuare un cambiamento sistemico positivo. In un mondo in cui la tecnologia è allo stesso tempo l’agente disgregatore e la forza motrice del progresso, l’approccio migliore potrebbe essere quello di applicare le lezioni della tecnologia allo stesso processo decisionale. I responsabili delle politiche, come le startup, devono cercare altri modi per perpetuare ciò che funziona e abbandonare ciò che non va.
Per qualsiasi osservatore di affari mondiali, è chiaro che dopo un periodo relativamente lungo di pace e prosperità senza precedenti, e dopo due decenni di crescente integrazione, apertura e inclusività, il pendolo adesso oscilla indietro verso la frammentazione, il nazionalismo e il conflitto.
In effetti, l’ordine post-globale si è già frammentato in molti modi. Accordi commerciali multilaterali ambiziosi sono crollati dopo che le principali parti interessate hanno lasciato il campo. Una cooperazione globale senza precedenti sui cambiamenti climatici, espressa dall’accordo sul clima di Parigi del 2015, viene minacciata. I movimenti separatisti hanno sempre più voce, poiché le comunità subnazionali cercano motivi di identità che ristabiliscano un senso di controllo. E il presidente degli Stati Uniti ha dichiarato che perseguirà gli interessi nazionali sopra ogni altra cosa, e che gli altri leader nazionali dovrebbero fare altrettanto.
Questi sviluppi seguono decenni di globalizzazione, che hanno inaugurato un sorprendente periodo di progresso in molteplici dimensioni, dalla salute globale e i redditi nazionali alle disuguaglianze tra Paesi. Ma la frammentazione odierna non riguarda statistiche sterili. Piuttosto, essa è una reazione viscerale alle forze che hanno scavato un solco tra economia e politica. Nella distanza tra le due, adesso c’è tensione; ma esiste anche l’opportunità di spingere a favore della cooperazione e del progresso condiviso.
Le fondamentali forze economiche che spingono verso l’integrazione rimangono potenti. La rivoluzione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (Ict) ha avvicinato le persone di tutto il mondo; ha cambiato il rapporto tra gli individui e le loro comunità, i datori di lavoro, e i governi; e ha preparato il terreno per un nuovo periodo di sviluppo economico e sociale del tutto diverso da quello precedente. Eppure l’aspirazione delle persone alla libertà – la possibilità di costruire una vita significativa e realizzata per se stessi e la propria comunità – rimane immutata.
Allo stesso tempo, c’è stata una reazione politica contro le forze economiche e tecnologiche del cambiamento. Il potere è stato conquistato da coloro che promettono di proteggere le identità tradizionali e rallentare o invertire il cambiamento, piuttosto che adattarlo. Per tali politici, il discorso è chiaro: il sistema penalizza chi è senza potere o influenza; e forze aliene rendono difficile la vita, una volta più semplice ma più soddisfacente.
Certo, nessuno nega che un’economia globale guidata dalla tecnologia crei squilibri o che si possa raggiungere una maggiore efficienza senza maggiore equità. Il sistema che ha prodotto gli ultimi decenni di crescita ha rafforzato i diritti degli azionisti rispetto ad altri stakeholder, concentrando così la ricchezza ed escludendo quelli che non dispongono di capitali. Scambi commerciali più aperti hanno determinato uno spostamento dei modelli occupazionali tra i Paesi e al loro interno. E ora che una nuova ondata di cambiamenti tecnologici è pronta a travolgere le strutture economiche e sociali esistenti, la natura stessa del lavoro sta cambiando.
Tuttavia, molti di coloro che sono riusciti ad avere la giusta diagnosi hanno sbagliato la cura. Per cominciare, nessuna delle forze tecnologiche ed economiche globali al lavoro oggi può essere regolata a livello nazionale. Quando le forze che guidano l’economia globale sono più grandi di qualsiasi altro Paese o parte interessata, il perseguimento di interessi ristretti ed egoistici semplicemente non può funzionare. Nella Quarta rivoluzione industriale, le politiche devono tenere conto dei sistemi industriali globali, regionali e intersettoriali che stanno plasmando il nostro mondo, e tutte le parti interessate – siano esse espressioni del governo, degli affari o della società civile – non hanno altra scelta che agire insieme, attraverso inedite forme innovative di collaborazione.
La formula per costruire società inclusive è ben nota: investire nell’istruzione, ridurre gli ostacoli alla mobilità sociale ed economica e incoraggiare la concorrenza. Ma, come sempre, il diavolo è nei dettagli, e non esiste un’unica misura che vada bene per tutti. Mentre alcuni Paesi avranno bisogno di più formazione o garanzie salariali, altri potrebbero aver bisogno di programmi di reddito minimo garantito e interventi per ridurre le differenze di genere. Governo, imprese e società civile devono collaborare per la sperimentazione in questi e in molti altri settori; e i cittadini hanno bisogno di ragioni per credere che i loro leader agiscano per il bene comune.
A tal fine, i responsabili politici dovrebbero ascoltare le lezioni del settore tecnologico. Data la complessità dei moderni sistemi economici e sociali, l’esito di una singola azione difficilmente può essere previsto con certezza. Un tratto inestimabile per qualsiasi organizzazione efficace, quindi, è l’agilità. I responsabili delle politiche dovrebbero chiedersi quando agire e quando interrompere un’azione. E dovrebbero sperimentare delle politiche con risultati chiaramente comprensibili, in modo da poter determinare se una politica ha funzionato o dovrebbe essere chiusa.
Questo tipo di dinamismo definisce l’economia tecnica e creativa, in cui una startup che non è pronta a muoversi agilmente, ove necessario, non resisterà a lungo. Coloro che hanno successo comprendono chiaramente ciò che vogliono raggiungere, e raggiungono i loro obiettivi adattandosi rapidamente alle mutevoli condizioni.
Inoltre, il settore tecnologico ci insegna che la collaborazione tra le parti interessate è il modo migliore per attingere a talenti efficaci e creare un ambiente favorevole e propositivo. In circostanze perennemente imprevedibili, i leader devono essere disposti ad adattarsi, esplorare, imparare e adeguarsi all’infinito.
La leadership in un mondo frammentato significa guardare oltre gli attuali dissensi verso un nuovo futuro condiviso. Esso richiede il coraggio di provare qualcosa di nuovo, con la consapevolezza che potrebbe fallire. Non abbiamo altra scelta che assumere tali rischi. Il pendolo da solo non tornerà indietro verso il progresso collettivo. Dobbiamo spingerlo, dimostrando che la collaborazione tra soggetti interessati è ancora possibile, anche in un mondo frammentato.

Le cause della crisi

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Quei valori moderni che spingono a innovare
Il Sole 24 Ore – 19 Gennaio 2018

Il testo riprodotto  è un ampio stralcio della lectio magistralis che il Nobel per l’Economia, Edmund S. Phelps ha tenuto ieri, all’Università Luiss di Roma, in occasione del conferimento della Laurea honoris causa durante l’inaugurazione dell’anno accademico dell’ateneo.

In Occidente, le nazioni soffrono da tempo di un insieme di sintomi: tassi di rendimento del capitale investito modesti; livelli dei salari e del reddito nazionale che crescono a ritmo da lumaca; soddisfazione lavorativa limitata, in particolare tra i giovani; rapporti tra patrimoni e salari elevati, che riducono gli incentivi a lavorare e risparmiare; livelli di debito pubblico patologici nella maggior parte dei Paesi; e (in alcuni Paesi) un incremento considerevole del numero di persone in età lavorativa che non vogliono o non riescono a trovare un lavoro. Alcuni autori parlano di «fine del capitalismo».
La causa immediata della stagnazione in Occidente è il persistente rallentamento della produttività, che è cominciato in America intorno al 1968 per poi estendersi all’Italia e alla Francia intorno al 1998, e al Regno Unito e alla Germania intorno al 2004.
La causa di fondo dei rallentamenti della produttività in queste economie, parlando in senso lato, sono le perdite nette dell’innovazione autoctona complessiva, al netto dei guadagni derivanti dalla rivoluzione digitale e da altre fonti. Questo calo netto è stato più accentuato negli Stati Uniti, nel Regno Unito e in Francia, e da solo è stato sufficiente a rallentare la crescita della produttività in tutte le economie occidentali.
Sorprende che l’Italia, che aveva un elevato tasso di innovazione «importata» finché era impegnata a colmare il distacco dai Paesi più ricchi, negli anni 50 e 60, avesse cominciato ad accumulare un livello significativo di innovazione «autoctona» solo intorno al 1980, per poi perderlo quasi interamente già nel 1995 o giù di lì.
Secondo alcuni economisti, come il mio amico Joseph Stiglitz, l’importanza principale delle perdite di innovazione – in Italia, Francia, Regno Unito e Stati Uniti – sta soprattutto nel fatto che i membri della forza lavoro si sentono danneggiati dal rallentamento della crescita dei salari. Ma quanti secoli di crescita dei salari deve avere un Paese prima che la gente si senta appagata?
Frank Ramsey e John Maynard Keynes ritenevano, nel 1928, che di lì ad alcuni decenni la gente si sarebbe saziata di consumi. Tutto questo strepitare sulla crescita dei salari comincia a suonare falso, almeno alle mie orecchie.
L’importanza principale di ciò a cui stiamo assistendo è che le perdite di innovazione, in particolare l’innovazione autoctona, hanno privato molti lavoratori delle ricompense individualistiche, che sono qualcosa di molto più profondo delle ricompense «collettive», come guadagnare il tasso salariale generale e comprare al livello dei prezzi generale. Mi spiego meglio. Noi esseri umani non siamo delle macchine. La cosa più preziosa per noi è la capacità di agire e la portata dell’azione che siamo in grado di esercitare. Le soddisfazioni moderne sono individualistiche, non «collettive». Per come la vedo io, ci sono tre tipi di ricompense individualistiche.
Il primo è che una persona può ricavare soddisfazione dal fatto di realizzare qualcosa attraverso i propri sforzi, e può trovare soddisfazione nel fatto di ottenere, come risultato, migliori condizioni o un maggior riconoscimento. Queste ricompense sono empiriche e possono avere un aspetto creativo. Sono legate al «successo» o, per usare un termine più ristretto, alla «prosperità» (dal latino pro spere, che significa come sperato, secondo le aspettative). I successi assumono forme diverse: un’impiegata che ottiene un aumento come riconoscimento degli ottimi risultati sul lavoro; un artigiano che vede la sua bravura, acquisita in anni di duro lavoro, tradursi in un prodotto migliore; un mercante che vede con soddisfazione le sue navi che arrivano; uno studioso che vede convalidate le sue capacità quando riceve una laurea ad honorem.
Il secondo tipo di ricompensa è quando una persona ricava soddisfazione dal fatto di vivere una vita gratificante: il brivido di addentrarsi nell’ignoto, l’eccitazione delle sfide, la gratificazione di superare gli ostacoli e il fascino dell’incertezza. Emerson scriveva che «una vita è un viaggio, non una destinazione».
Ultima, ma non meno importante, c’è la soddisfazione di «agire sul mondo», per usare la terminologia hegeliana, e, con un po’ di fortuna, «lasciare un segno», magari cambiando il mondo («creare un debito», come dicevano i Beatles). A mio parere questi due ultimi tipi di soddisfazione corrispondono a quello che si intende con il verbo fiorire.
C’è qualche prova a supporto di questa tesi che una perdita di innovazione autoctona in un Paese provochi una grave perdita di soddisfazione umana nelle persone che hanno un impiego? Il mio libro Mass Flourishing, che uscirà in traduzione italiana quest’anno, segnala evidenze ricavate dalle World Values Surveys, che mostrano come nel 1990-1991 il livello medio di soddisfazione lavorativa dichiarata fosse molto basso nei Paesi affetti da livelli ridotti di innovazione autoctona (Italia e Francia, per esempio) e relativamente alto nei Paesi con livelli relativamente alti di innovazione autoctona (in particolare Svizzera, Danimarca e Stati Uniti). Ora lo stesso team di ricercatori ha estratto evidenze dai dati 2008 delle European Values Surveys, mostrando come, nei 13 Paesi economicamente avanzati dell’Europa occidentale, quelli agli ultimi posti per numero di persone che dichiarano una soddisfazione lavorativa «alta» o «abbastanza alta» – Spagna, Francia e Italia – sono in fondo alla classifica anche per tassi di innovazione autoctona, mentre quelli ai primi posti per soddisfazione lavorativa – Svizzera e Danimarca – lo sono anche nell’innovazione autoctona.
Qual era la fonte di innovazione autoctona che, in molti Paesi, procurava quel genere di soddisfazioni che definisco «prosperare» e «fiorire»? E quali sono le cause del calo di questa innovazione?
Nel mio libro fornisco alcune evidenze del fatto che l’innovazione era anche pervasiva – in tutti o quasi tutti i settori – e inclusiva – dagli strati più bassi della società a salire. Buona parte, forse la maggior parte, del contributo dell’innovazione alla crescita economica può essere ascritta alle nuove idee delle persone comuni che prendono parte alla vita economica.
Prima di andare avanti: ci sono prove a supporto dell’affermazione che il desiderio di innovare è alimentato dai valori? Un’analisi statistica dello stesso gruppo di ricercatori sui dati di un campione di 18 Paesi dell’Ocse mostra che i Paesi che hanno una performance economica maggiore (misurata in livelli di soddisfazione lavorativa e tassi di partecipazione della forza lavoro) hanno livelli più alti dei valori giusti o livelli più bassi di quelli sbagliati.
Orbene, io sostengo che la grave carenza di innovazione autoctona in molti Paesi dell’Europa occidentale e del Nord America non viene da un’assenza di occasioni di profitto e non viene da una qualche omissione del settore pubblico (come ponti e gallerie non costruiti), ma da un declino dei valori moderni che accendevano il desiderio di innovare.
Gli economisti questa cosa non l’avevano capita. Erano schumpeteriani, convinti che le innovazioni che osserviamo siano applicazioni ovvie da parte di un imprenditore esperto della scoperta di uno scienziato, oppure hayekiani, convinti che quello che osserviamo in realtà siano gli «adattamenti» che risultano quando un uomo d’affari perspicace intuisce opportunità inedite e in evoluzione.
Che cos’è successo, nella sfera dei valori, che può spiegare la debolezza dell’innovazione autoctona in Italia e nel Regno Unito, in Francia e in America? Quando pensiamo alle importantissime innovazioni in quei Paesi sembra impossibile pensare che i valori moderni siano andati perduti.
Ma che dire del vitalismo? Ce n’è ancora in abbondanza nelle nostre società? Non ne sono convinto. Mi chiedo se gli americani siano ancora persone che amano agire. Hanno ancora il gusto della competizione, come nei decenni tra gli anni 50 dell’Ottocento e metà anni 60 del Novecento? O sono dei pantofolai ossessionati dal flusso continuo di tweet?
Mi sembra che nell’era attuale (dopo la guerra) ci sia il terrore dell’«incertezza di Knight». Ne ha appena parlato il papa. La gente è infastidita dall’assenza di direzione che i valori modernisti hanno inoculato nell’economia.
L’ossessione per il breve termine dei capitani d’impresa e dei nostri rappresentanti parlamentari (basta guardare i tagli delle tasse proposti a Washington) è un’altra ipotesi.
Ho la sensazione anche che ci sia stato un declino dell’individualismo in Occidente.
Sono scioccato nel vedere i giovani rispondere nei sondaggi che vogliono rimanere nella loro città natale, vicino ai loro amici o addirittura continuare a vivere a casa! È un ritratto dell’America quasi irriconoscibile per me.
C’è qualcosa di più di una carenza di valori moderni dietro al declino dell’innovazione. La società ora aderisce a una serie di valori antitetici, che possono interferire con i valori moderni. Negli anni 90 dell’Ottocento emerse – in Germania, Francia e Italia – un nuovo sistema di valori conosciuto con il nome di corporativismo, che venne messo in pratica nel periodo fra le due guerre. L’essenza di questa dottrina è che la società è un «corpo» coordinato, e le aziende, quindi, non devono fare cose che danneggino le Stato e possono essere obbligate ad agire per il bene della società: è antitetico all’individualismo. Un aspirante innovatore potrebbe essere considerato egoista, e se la sua innovazione ha successo essere giudicato dirompente e quindi antisociale.
L’emersione dell’uso distorto dei brevetti e di normative protezionistiche sono altri esempi. Vorrei limitarmi a sottolineare che un’economia ha bisogno di un certo grado di tutela dei brevetti e di alcune regole di base, ma una giungla di regolamenti rende complicato creare nuove imprese e presenta rischi legali per i dipendenti e i manager delle imprese che vogliano provare a sperimentare nuovi metodi.
Infine, i politici hanno preso misure specifiche che bloccano direttamente la concorrenza che può venire da idee nuove. L’ingresso delle nuove aziende è ostacolato con una serie di azioni (dai dazi e le quote fino agli aiuti alle aziende già esistenti) per preservare le imprese consolidate dal rischio di perdere quote di mercato. Inoltre, quando le aziende esistenti sono al sicuro dalla concorrenza di imprese con idee nuove, possono permettersi di ridimensionare i loro sforzi di innovazione difensivi. Tutto ciò rappresenta un rigetto dell’individualismo in favore dell’azione collettiva.
Insomma, siamo di fronte a un importante distanziamento dai valori moderni – il necessario individualismo, il vitalismo e l’espressionismo – che hanno alimentato un’innovazione su larga scala nelle maggiori economie occidentali. E siamo di fronte a un’ascesa dei valori postmoderni, che attribuiscono alle imprese non a scopo di lucro un valore maggiore che alle imprese capitalistiche. Per riconquistare il dinamismo di un tempo dobbiamo tornare a quei valori modernisti e rigettare i valori postmoderni.

USA-UE, quattro partite ad alta tensione

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Dal clima al commercio, dal fisco a Teheran, l’America first di Trump sfida l’Europa
Chiara Bussi
15 Gennaio 2018 – Il Sole 24 Ore lunedì
Donald Trump tornerà in Europa la settimana prossima. Non a Bruxelles, cabina di regìa dell’Unione, ma a Davos, in Svizzera, che del club dei Ventotto non fa nemmeno parte. Il Presidente americano festeggerà il suo primo anniversario alla Casa Bianca sul palcoscenico del World economic forum di fronte al gotha dell’economia globale per «promuovere – come ha già fatto sapere la sua portavoce – la sua agenda politica e rafforzare l’immagine del business e dei lavoratori americani». Su di lui saranno puntati gli occhi della comunità internazionale, pronta a cogliere nuovi indizi sull’atteggiamento che Washington terrà nei prossimi mesi.
Una delle incognite riguarda proprio il rapporto tra le due sponde dell’Atlantico: il mito dell’America first – coltivato spesso a colpi di tweet – contrapposto a un’Unione alla ricerca di una nuova identità, tra le ambizioni della Francia di Emmanuel Macron e lo scossone della Brexit. Con quattro dossier in primo piano lo scorso anno, dal clima al commercio, fino al fisco e ai rapporti con il Medio Oriente e la Russia, che hanno contribuito a creare un grande fossato tra le due aree e dovrebbero complicare i giochi anche nei prossimi mesi. Almeno fino al “tagliando” di novembre, quando le elezioni di metà mandato mostreranno i reali margini di manovra dell’attuale amministrazione americana.
Il cocktail pericoloso
«Nel 2017 – sottolinea Jacques Pelkmans, senior fellow del Ceps – la relazione tra Ue e Usa è stata caratterizzata da un mix tra tre principali sentimenti», spesso scaturiti da annunci o decisioni assunte dagli Usa per tenere fede a impegni presi in campagna elettorale. Un cocktail potenzialmente pericoloso, perché ha già iniziato a incrinare i rapporti tra Ue e Usa, e che dovrebbe dispiegare i propri effetti anche quest’anno. Pelkmans cita la «disillusione sulle questioni climatiche», in seguito al dietrofront di Washington sull’accordo di Parigi sul clima, già ratificato dal suo predecessore Obama. Su questo fronte la Ue andrà avanti, mentre è difficile che gli Usa tornino sui propri passi (almeno per ora). Ma anche la «frustrazione» sui dossier commerciali, con la minaccia di superdazi sui prodotti provenienti dall’Europa e il riemergere di un atteggiamento protezionista che prende di mira le organizzazioni nazionali multilaterali (come la Wto) o gli accordi siglati con altre aree del mondo (dal Nafta con Canada e Messico) alla Tpp (Trans Pacific Partnership). Senza dimenticare lo scontro all’Onu su Gerusalemme capitale. A questo si è aggiunta una certa «confusione» su varie tematiche, come la riforma fiscale varata a fine anno con l’introduzione di una tassa che penalizza le multinazionali estere e rischia di dare il via a un nuovo contenzioso. L’ultimo in ordine di tempo è il dossier sull’Iran. Venerdì scorso gli Usa hanno per il momento salvato l’accordo sul nucleare siglato nel 2015, ma hanno avvertito la Ue di voler migliorare l’intesa.
«Le decisioni di Trump – fa notare Damiano Palano, ordinario di filosofia politica all’Università Cattolica di Milano – sono state finora quasi sempre dettate dall’agenda interna. Questo, anche al di là del personaggio, rende poco prevedibili le linee di azione. Ma, al tempo stesso, le difficoltà che lo accompagnano da quando si è insediato alla Casa Bianca, con il Russiagate in primo piano, rendono probabile l’adozione di misure clamorose rivolte all’opinione pubblica americana». La sua Presidenza, aggiunge Palano, «assume un atteggiamento revisionista nei confronti di quell’ordine internazionale liberale che ha visto a lungo nell’egemonia americana la principale garante».
Le prospettive future
Il grande fossato è destinato ad ampliarsi sempre di più e a produrre una frattura insanabile? «Nonostante tutto – dice Maria Demertzis, vice direttore del think tank Bruegel di Bruxelles – gli Usa restano l’alleato più naturale della Ue. Quest’ultima continuerà a rispettare gli accordi internazionali e a promuovere il multilateralismo. Ma fino a quando Washington continuerà a preferire l’antagonismo alla cooperazione l’atteggiamento di Bruxelles dovrà essere rimodulato caso per caso». Il comportamento di Washington, ricorda Tiberio Graziani, presidente dell’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie, non è però del tutto nuovo. «Dagli anni Duemila ad oggi, ma in un contesto geopolitico diverso, gli Usa, nonostante la retorica multilateralista, hanno attuato spesso pratiche unilaterali in numerosi ambiti. Trump non ha fatto altro che squarciare il velo dell’ipocrisia delle amministrazioni precedenti. Che il presidente Usa rappresenti una minaccia è troppo presto per dirlo. Di certo rappresenta una sfida, anche per l’Unione». Superato lo shock iniziale, Bruxelles potrebbe guardare al nuovo atteggiamento degli Usa come un’opportunità per accelerare la coesione dei settori della difesa e della sicurezza e disegnare una politica economica che accompagni la ripresa, combinata a una strategia industriale ed energetica per competere a livello globale. E rispondere così con più Europa al grido dell’America first.