IL FUTURO DELL’UNIONE – Forza e debolezze dei sovranisti

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Sergio Fabbrini

Il Sole 24 Ore domenica – 8 Luglio 2018

Se ci fosse un novello Karl Marx, potrebbe affermare che uno spettro si aggira per l’Europa, anche se questa volta si tratta del “sovranismo” (e non del comunismo). Il sovranismo è meno di una teoria e più di un sentimento. In esso confluiscono e si mischiano interessi e predisposizioni che provengono dal nazionalismo, dal populismo e dalle culture illiberali (di destra e di sinistra). Esso esprime l’insoddisfazione verso i processi di globalizzazione e, nel nostro continente, di integrazione. Costituisce la reazione all’interdipendenza tra Paesi. L’interdipendenza ha risolto vecchi problemi, ma ne ha creato anche di nuovi (come ha mostrato Dani Rodrik). Il sovranismo si sviluppa questo contesto. Il suo successo elettorale ha punti di forza e di debolezza. Vediamoli.
Considero due punti di forza, uno geo-politico e l’altro sociale. Quello geo-politico si chiama Stati Uniti. È stato il Paese più forte dell’occidente che ha attivato una dinamica di reazione ai processi di interdipendenza, quindi trasferitasi sulla sponda europea dell’Atlantico. Come ha scritto Angelo Panebianco, con l’arrivo di Trump alla presidenza americana hanno cominciato ad incrinarsi gli equilibri politici europei. Trump ha inaugurato una politica sovranista che non va confusa con l’isolazionismo ottocentesco di quel Paese. Essa consiste nella visione del sistema internazionale come arena in cui imporre il potere unilaterale degli Stati Uniti.
Il presidente americano non vuole distruggere le organizzazioni internazionali su cui si è basato l’ordine liberale post-bellico, bensì mira a svuotarle dall’interno. Come nel caso dei dazi, Trump persegue politiche (per lui) elettoralmente convenienti, anche se il loro esito conduce all’indebolimento del sistema collettivo delle negoziazioni. Con Trump che soffia sulle loro vele, anche i sovranisti europei stanno perseguendo una azione simile, lo svuotamento dall’interno dell’Unione europea.
Oltre al fattore geo-politico, vi è anche un fattore sociale che sostiene i sovranisti. Settori delle società europee hanno maturato un sentimento di paura nei confronti delle politiche di apertura, anche perché ne hanno pagato i costi. I sovranisti parlano a quelle paure, spesso le alimentano. Si guardi all’immigrazione. Rivendicano il controllo della piena sovranità territoriale dei loro Paesi proprio per inviare un messaggio di protezione ai cittadini più socialmente espost. Sul controllo delle frontiere nazionali, infatti, vi è una vera convergenza ideologica tra i vari sovranisti europei. Il 18 giugno scorso, il primo ministro ungherese Viktor Orban ha sostenuto che «la difesa della frontiera è un compito obbligatorio da fare a casa e non già un compito europeo». Pochi giorni dopo, il ministro degli Interni tedesco Horst Seehofer ha minacciato la sospensione di Schengen se non venivano bloccati gli spostamenti verso la Germania dei rifugiati accettati in altri Paesi europei. Il 27 giugno, il primo ministro italiano Giuseppe Conte, intervenendo alla Camera dei deputati, ha affermato che non è questo «il tempo di proporre cessioni di sovranità in ordine alle politiche pubbliche sulla gestione dei flussi migratori». Pure in Europa, rassicurare i cittadini attraverso la difesa del territorio nazionale, e accompagnare questa azione con politiche d’ordine, è elettoralmente vantaggioso.
Tuttavia, i sovranisti hanno anche punti di debolezza (senza considerare che la stessa politica americana potrebbe cambiare in futuro). Ne considero due, uno politico e l’altro economico. Sul piano politico, i sovranisti hanno difficoltà intrinseche a coordinarsi per generare un esito conveniente per tutti loro. Se nella riunione che si terrà tra pochi giorni a Innsbruck tra i ministri degli Interni italiano, austriaco e tedesco, ognuno di loro rimarrà fedele alla propria visione sovranista, allora il controllo dei movimenti migratori tra quei Paesi non farà molta strada. Se decidessero poi di perseguire una coerente politica sovranista, allora sarebbe il Paese più esposto a pagarne le conseguenze. Cioè noi. Infatti, la Germania potrebbe chiudere le sue frontiere meridionali, l’Austria potrebbe chiudere il Brennero, ma l’Italia non potrebbe chiudere il Mediterraneo. Ma anche sul piano economico, i sovranisti incontreranno difficoltà. Ammesso che funzioni, “prima il mio Paese” può valere per gli Stati Uniti, non già per i Paesi europei (come ha rilevato Walter Russell Mead). Il protezionismo commerciale, se applicato in Europa, porterebbe alla frammentazione del mercato unico, un esito inaccettabile per molti elettori dei partiti sovranisti. Se ogni Paese europeo, in nome del proprio sovranismo (come sta facendo la maggioranza di governo italiana), sospendesse l’approvazione dell’Accordo economico e commerciale con il Canada (CETA) e perseguisse politiche del lavoro e delle pensioni scaricandone i costi sugli altri Paesi, il risultato sarebbe la crisi del Paese che i sovranisti vogliono governare.
Insomma, in Europa la critica all’integrazione ha assunto caratteristiche sovraniste, piuttosto che nazionaliste (come è avvenuto invece nel Regno Unito). Probabilmente, è stato il fallimento della Brexit che ha spinto il nazionalismo europeo verso ilsovranismo. Di fronte all’incapacità dell’Ue di governare importanti sfide alla vita dei suoi cittadini, i sovranisti hanno avuto successo nel rivendicare il rimpatrio di cruciali competenze di politica pubblica. Le elezioni per il Parlamento europeo del prossimo maggio 2019 costituiranno un passaggio cruciale per capire le capacità di collaborazione tra i sovranisti e soprattutto la consistenza dell’obiettivo che stanno perseguendo (lo svuotamento dell’Ue). Naturalmente esse consentiranno anche di capire se vi sarà una alternativa efficace al sovranismo. Se quest’ultima tardasse però a formarsi, allora lo spettro del sovranismo sarà destinato ad aggirarsi per ancora molto tempo tra di noi.

Ascoltare il battito delle città per rigenerare la democrazia

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Luca De Biase

Il Sole 24 Ore – 8 luglio 2018

A tu per tu. L’economista italiana Francesca Bria oggi è assessore all’Innovazione di Barcellona, dopo un’esperienza a Londra – Si ispira, fra tecnologia e umanesimo, a Giuseppe Sinopoli e Stefano Rodotà
Francesca Bria è entrata dalla porta principale nel Comune di Barcellona. Sale le scalinate tra gli archi gotici, mostra le ampie sale gialle e rosse dell’Ajuntament dove hanno sede gli organi del governo della città, del quale Bria fa parte. Prosegue per i corridoi dell’edificio nuovo e si ferma sulla terrazza mozzafiato da dove si vedono le prospettive dell’incessante trasformazione della città: tra le vie strette dal loro passato medievale e la futuristica classicità della Sagrada Familia, tra gli spazi oltre le ramblas disegnati sul mare per fare posto alla gioia di vivere e i quadrati dagli angoli smussati delle strade produttive dell’alveare interno, mentre l’orizzonte si allunga tra il mare e le montagne. Vista – e raccontata – dall’alto, Barcellona è un ecosistema ricco di diversità, armonico nelle forme e nelle funzioni. Che nelle parole di Bria è abitato da una comunità che si trasforma, restando se stessa; che cerca la sua sovranità, rimanendo aperta e connessa; che sviluppa la sua strategia digitale, coltivando la partecipazione fisica dei cittadini nelle piazze.
Barcellona non è un luogo comune. È un progetto tecnico-umanistico di modernizzazione, interpretato da una squadra di leader usciti dalla terribile crisi del 2008, emersi dall’indignazione popolare e votati alla ripresa civile, sotto la guida di Ada Colau, 44 anni, eletta sindaca nel 2015 sull’onda della sua battaglia per il diritto alla casa e contro le disuguaglianze, in alternativa ai sostenitori dell’indipendentismo. In quella squadra, appunto, è stata chiamata a lavorare Francesca Bria. Economista italiana, umanista cosmopolita e, se così si può dire, ecologista della tecnologia.
«Ero a Londra. Lavoravo alla Nesta, l’agenzia per l’innovazione sociale britannica, con Geoff Mulgan». Basta il nome, in effetti, a qualificare quell’esperienza: il suo ex capo è un’autorità per tutto quanto riguarda i modelli operativi e le riflessioni teoriche intorno alla trasformazione sociale nell’epoca digitale. Tra l’altro è appena uscito in Italia il suo Big Mind. L’intelligenza collettiva che può cambiare il mondo (Codice Edizioni, 2018; versione originale: Princeton University Press 2017). E Nesta è una delle organizzazioni più prestigiose per le attività che servono a comprendere e sperimentare percorsi di modernizzazione partecipata, tecnologicamente avanzata e umanisticamente avvertita. «Gli ho raccontato dell’offerta che avevo ricevuto dal Comune di Barcellona. Diventare Chief technology and digital innovation officer, l’equivalente di un’assessora all’Innovazione della città. Mi ha risposto che dovevo assolutamente accettare: per mettere in pratica quello che avevo studiato per anni». Era il 2016. Bria stava lavorando a diversi piani. Tra questi, coordinava D-Cent, un progetto europeo per la creazione di strumenti digitali, con architettura decentralizzata, software open source, privacy-by-design, per la democrazia partecipata e lo sviluppo delle capacità di emancipazione economica.
«Certo, sono stata chiamata per portare a Barcellona quella filosofia. La città vuole rigenerare la sua democrazia. Qui la partecipazione è molto forte. Le piazze e i luoghi di aggregazione sono ricchi di discussioni politiche, di associazioni che si occupano del quartiere, che fanno proposte urbanistiche e socio-economiche. La tecnologia può aiutare lo sviluppo e la forza di questa attività di base modernizzando gli strumenti. E la città può essere protagonista dell’innovazione, non semplice utente: ritrovando una sovranità tecnologica». Come in D-Cent, costruendo piattaforme che siano basate su sistemi di autenticazione aperti e distribuiti, nelle quali i cittadini controllino pienamente i loro dati, basati su standard open source e sulle quali le attività di tutti siano incentivate con modelli premianti trasparenti, controllabili, affidabili anche grazie al sapiente utilizzo della blockchain. In questo modo, la discussione dei cittadini, le loro deliberazioni e le forme di partecipazione alle decisioni sono attività che producono un valore che resta alla comunità e non viene sequestrato da qualche piattaforma internazionale i cui scopi sono tutto salvo che civici.
L’intera città diventa una piattaforma abilitante, per l’innovazione sociale, politica, economica. «Abbiamo i fab-lab per la sperimentazione e la formazione alle nuove forme della manifattura. Abbiamo gli incubatori per la crescita delle startup. Abbiamo i centri di connessione tra le aziende tradizionali e le più piccole imprese innovative. Abbiamo eccellenti università, pienamente parte del processo di innovazione. Nel quadro di una storia chiarissima: Barcellona lavora sempre cercando di alimentare l’ecosistema pubblico-privato, puntando sulle tecnologie più avanzate, senza lesinare le risorse finanziarie, purché i fondi servano alla crescita del valore comune». Come a Barcelona Activa, che fa mentoring, incubazione di imprese, formazione, su temi come l’intelligenza artificiale, l’economia satellitare, i droni, e così via, nell’intento dichiarato di aumentare l’occupazione nei settori di frontiera in una chiave inclusiva, solidale, plurale.
Già. Le istanze umanistiche ritornano costantemente nel racconto tecno-politico di Barcellona. E Francesca Bria ci si trova benissimo. Figlia di uno psicanalista e di una ballerina e ginnasta olimpionica, a sua volta campionessa italiana di ginnastica ritmica, Bria non cessa di ritrovare nella sua giovinezza romana una fonte costante di ispirazione e indipendenza di giudizio dalle derive tecno-centriche. Dopo la Sapienza ha studiato a Birkbeck, università londinese, ha ottenuto un PhD all’Imperial College di Londra, ha insegnato alla London Business School e allo stesso Imperial College. La qualità culturale dei mentori che ha incontrato nella vita, dal musicista Giuseppe Sinopoli all’economista “cosmopolitico” Daniele Archibugi e al gruppo di design dei servizi di Ezio Manzini, oltre che, appunto, Geoff Mulgan, spiega e ispira il suo impegno innovatore umanisticamente sensibile.
Non per nulla, tra le figure che l’hanno guidata c’è stato Stefano Rodotà, il giurista di riferimento per tutti coloro che hanno cercato una guida per affrontare la trasformazione tecnologica nella chiave dello sviluppo dei diritti umani.
Ed è stato proprio organizzando un convegno con Stefano Rodotà che Francesca Bria ha invitato e dunque incontrato il futuro marito, Evgeny Morozov: intellettuale originalissimo, critico attento e colto della contemporaneità, storico della tecnologia. Con lui, tra l’altro, ha scritto un testo per l’ufficio newyorkese della Rosa Luxemburg Stiftung, intitolato Rethinking the smart city. Democratizing urban technology che è diventato libro (la traduzione è in corso di pubblicazione per Codice). Il libro serve a decodificare l’ideologia tecnocratica della smart city, vista come una proposta centrata sulle esigenze dei venditori di tecnologia più che su quelle dei cittadini; e nello stesso tempo indica la strada per soddisfare il diritto a una città digitalmente avanzata, semplice da usare, aperta all’innovazione e, soprattutto, tecnologicamente sovrana. Non per nulla, a Barcellona, Bria ha introdotto un principio straordinariamente interessante: i fornitori di servizi alla città devono mettere in comune i dati sui cittadini che raccolgono, nel rispetto ovviamente della privacy, in modo che possano essere pienamente controllati dai cittadini e riusati da diverse piattaforme senza inutili duplicazioni e così trasformando quei dati in una conoscenza abilitante per la nascita di nuove imprese, invece che lasciarli diventare fonte di lock-in a favore delle piattaforme esistenti.
Si forma così un commons della conoscenza digitale. I dati registrati sono un bene comune a disposizione della comunità. E che la comunità alimenta e manutiene. La città democratica che Barcellona vuole essere e che Francesca Bria contribuisce a progettare e implementare, dunque, è costruita con una logica di co-design, nella quale il Comune coltiva una leadership culturale e valoriale, ma che la partecipazione dei cittadini rende possibile. «La smart city a Barcellona non parte dalla tecnologia ma dalle esigenze dei cittadini e dalle politiche pubbliche», dice Bria: «Ascoltiamo i cittadini, spieghiamo le nostre soluzioni, andiamo nelle assemblee di quartiere, aggiustiamo le tecnologie sui bisogni emergenti. Dopo il movimento degli Indignados la democrazia andava rigenerata. Oggi il 70% delle istanze di governo sono direttamente proposte dai cittadini. E si parla di mobilità. Si pianificano le linee del bus e le chiusure delle strade al traffico. Si parla di casa. Si parla di occupazione. Di inclusione. Abbiamo l’aiuto di istituzioni universitarie straordinarie». E di interpreti come Manuel Castells, da sempre una guida globale per lo sviluppo della cultura della rete.
Francesca Bria ha un ufficio nell’Ajuntament di Plaça de Sant Jaume, ma anche all’Institut Municipal d’Informàtica – la società in-house che con i suoi trecento tecnici realizza le piattaforme e gestisce i dati che la città mette a disposizione dei cittadini – e a Barcelona Activa che fa, appunto, le politiche di innovazione per lo sviluppo economico e democratico.
La capitale della Catalogna, regione tentata dall’indipendentismo, sviluppa piuttosto la sua strategia di modernizzazione e connessione internazionale. «La città è la dimensione giusta per sviluppare la democrazia. E le reti internazionali di città possono avere un peso fondamentale per il futuro». C’è molto da imparare da tutto questo.
ascoltare il battito delle città per rigenerare la democrazia

La questione europea. Se l’Italia diventa il laboratorio sovranista

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Sergio Fabbrini –Il Sole 24 Ore domenica -3 Giugno 2018

Dopo quasi tre mesi, l’Italia ha finalmente un governo. La difficoltà a formarlo è stata dovuta ad un sistema istituzionale inadeguato, ma anche alla complessità della trasformazione della politica nazionale. È di quest’ultima che voglio discutere, riflettendo sulle ragioni strutturali che hanno condotto a quel governo. Procederò a punti, per essere il più chiaro possibile.
Ieri è stato ufficializzato un governo sovranista. Esso è l’espressione di una frattura politica che si è venuta formando a partire dalla crisi finanziaria del 2008 e che è emersa in evidenza nell’autunno del 2011. Le dimissioni del governo Berlusconi e la nascita del governo Monti costituirono un punto di svolta della politica italiana. Dopo quell’autunno, una parte della società nazionale ha riconosciuto la necessità di avviare una politica di risanamento fiscale congruente con la nostra partecipazione al regime dell’Eurozona, mentre un’altra parte ha ritenuto che tale politica fosse contraria ai suoi interessi e culturalmente illegittima. Mentre la strategia politica perseguita dal governo Monti è stata fatta propria (con le inevitabili variazioni) dai governi successivi (di Letta, Renzi e Gentiloni), essa è stata invece contrastata duramente dalla Lega (l’unico partito che rifiutò di dare la fiducia al governo Monti) e quindi dai nascenti Cinque Stelle. Infatti, la crescita elettorale di questi ultimi è iniziata proprio con l’opposizione populista al governo Monti, considerato l’espressione del potere delle tecnocrazie sostenute da Bruxelles.
Dall’autunno del 2011 si è dunque avviato un processo di convergenza tra Lega e Cinque Stelle verso una piattaforma politica caratterizzata dal disconoscimento dei vincoli dell’Eurozona e dalla delegittimazione dei governi che avevano accettato quei vincoli. Tale convergenza ha trovato la sua celebrazione operativa nella mobilitazione contro la riforma costituzionale proposta dal governo Renzi. Quest’ultimo è anzi diventato, nella propaganda dei due partiti, il simbolo dell’Italia asservita agli interessi della grande finanza oppure della grande Germania.
Al punto che l’anti-renzismo costituisce, oggi, la condizione per poter salire sul loro carro. Indubbiamente, gli stessi leghisti e pentastellati hanno faticato a riconoscersi come alleati, così come la loro obiettiva convergenza non è stata compresa da buona parte della cultura democratica italiana. Tuttavia, se si considerano i fatti, dal 2011 si è formata in Italia una coalizione spuria di populisti (Cinque Stelle) e nazionalisti (Lega e quindi Fratelli d’Italia) che ha messo in discussione la collocazione europea dell’Italia, rivendicando il recupero di una (generica) sovranità nazionale. Un recupero necessario per restituire il potere al popolo (al singolare). Chiunque si opponga alla volontà del popolo (anche se è il presidente della Repubblica) è necessariamente un servo di poteri stranieri.
La coalizione sovranista rappresenta interessi ed umori che dipendono dal mercato e dalla politica domestiche. C’è in Italia una area di ceti sociali, spesso privi di connessioni organizzative, che ritiene che l’integrazione monetaria costituisca un regime non-necessario. È vero che la Lega e i Cinque Stelle rappresentano elettorati geograficamente distinti, ma è anche vero che quegli elettorati hanno un comune interlocutore per soddisfare i propri interessi. Il bilancio pubblico e i suoi gestori. Ecco perché i due partiti avevano bisogno di andare al governo. Solo così possono allocare al Sud maggiori risorse pubbliche ovvero garantire al Nord una minore invasività fiscale (oltre che il controllo delle frontiere). È evidente, però, che le due constituencies non sono facilmente conciliabili. Per questo motivo il governo sovranista si è dato una presidenza del Consiglio collegiale (costituita di ben quattro esponenti politici, due leghisti e due pentastellati), così da tenere sotto controllo le tensioni che emergeranno tra quelle constituencies. Qualsivoglia mediazione verrà trovata, però, condurrà a un esito di politica di bilancio poco o punto compatibile con il funzionamento dell’Eurozona.
La composizione del governo sovranista è stata di conseguenza pensata per preparare il confronto, che avverrà, con le istituzioni e le autorità dell’Eurozona. Da tempo, la politica europea non è più una componente della politica estera, ma costituisce la sostanza della politica interna. In tutti i Paesi dell’Eurozona, essa viene decisa all’interno di un cerchio ristretto di attori governativi, costituito dal presidente del Consiglio (a cui fa riferimento il responsabile delle Politiche comunitarie) e dal ministro dell’Economia. In Italia, da tempo, la Farnesina è stata ridotta a un ruolo secondario nella politica europea, anche se il nostro Rappresentante permanente a Bruxelles proviene generalmente dai suoi ranghi. Le cose continueranno a essere così anche con il governo che ha appena giurato, con la differenza (questa volta) che la presidenza del Consiglio avrà una leadership collegiale. La nomina di un esponente europeista agli Esteri difficilmente cambierà questo equilibrio, anche se ci consentirà di preservare (almeno) le distanze da un avversario divenuto improvvisamente un amico, come la Russia.
Se si guarda il gruppo incaricato di gestire la politica europea del nuovo governo, è evidente che i suoi componenti sono critici (più o meno) implacabili dell’Eurozona. Naturalmente, nessuno di loro è un anti-europeo, nel senso di Nigel Farage. Il loro obiettivo è quello di mettere in difficoltà l’Eurozona, senza mettere in discussione la nostra partecipazione all’Unione europea (Ue). Che la possibile uscita dall’Eurozona sia percepita come necessaria a componenti della maggioranza è dimostrato da ciò che è avvenuto giovedì scorso nel Parlamento europeo. Durante la discussione sul bilancio della Ue per il periodo 2020-2027, i 6 parlamentari della Lega e 14 dei 15 parlamentari dei Cinque Stelle hanno insieme proposto un emendamento per introdurre (nel nuovo bilancio comunitario) un fondo speciale per rimborsare i Paesi che, decidendo di uscire dall’Eurozona, dovranno sostenerne i costi. L’emendamento è stato bocciato.
In conclusione, dall’altro ieri l’Italia ha un governo che ritiene che il nostro interesse nazionale corrisponda con la messa in discussione dell’Eurozona nella sua attuale forma, ritenuta impropriamente espressione del dominio tedesco. Per questo motivo, la politica europea del governo è controllata strettamente da esponenti sovranisti. Più il percorso si farà conflittuale, più la coalizione di governo si dovrà rafforzare, a cominciare dal coinvolgimento dei Fratelli d’Italia. Tuttavia, la radicalizzazione del rapporto con l’Eurozona è destinata a creare divisioni all’interno delle varie constituencies dei partiti sovranisti. Una parte influente dell’elettorato leghista così come componenti urbane della gioventù meridionale avrebbero molto da perdere dalla marginalizzazione europea dell’Italia. Chi ritiene che il nostro interesse nazionale corrisponda invece con un rafforzamento del nostro ruolo in Europa, farebbe bene a considerare quegli interessi. Proponendo soluzioni innovative al loro malessere.

Un abbraccio ai nostri figli e nipoti (elettori grillini), suggerendo loro:

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di fuggire dalla Prigione di Alkatraz (Piattaforma Rousseau)
• di sottrarsi al fascino dello Sciamano genovese
• di passare dal sesso virtuale (democrazia diretta) ad una sana vita sessuale (democrazia rappresentativa)

Sono giornate davvero problematiche per chi ha a cuore il futuro del Paese ed in particolare dei giovani alla ricerca di sentimenti autentici, sfide motivanti, obiettivi elettrizzanti, ma anche mete gratificanti e rassicuranti.
Il risultato elettorale ci ha offerto un risultato incontrovertibile ed una chiave di lettura illuminante sul disagio e sulla ricerca di speranza e nuovi orizzonti espresso dal voto giovanile.
Ma il dibattito che ne è seguito, che ha avuto al centro ipotesi di alleaze e tattiche parlamentari per la formazione del Governo, ha rappresentato uno spettacolo inverecondo che ha messo in mostra la miseria morale, l’impudicizia professionale, la totale insufficienza pedagogica di molti padri.
Focalizzando l’attenzione sul Titti Di Maio lo vediamo circondato da tanti Gatti Silvestro che lo vorrebbero adottare e difendere, dai nonni affettuosi come Scalfari e Cacciari allo stuolo di giornalisti che – di fronte alla personcina tanto amabile – si sentono in grado di assumere un ruolo di suggeritori e sceneggiatori per l’esercizio della sua leadership.

Ed il malcapitato, tanto è grossolano e sfottente il suo competitor in felpa, tanto lui sfoggia grisaglie rassicuranti ed espressioni concilianti: non siamo né di destra né di sinistra, siamo aperti alla collaborazione di tutti i fornai, sono fiducioso sulle decisioni del Presidente della Repubblica, ma anche no (e lo minaccio di impeachment), con noi arriva la terza Repubblica….
Mi preme soffermarmi non tanto su previsioni e valutazioni per quanto riguarda l’evoluzione del quadro politico scaturito dall’incestuosa alleanza M5s-Lega tradottasi Contratto lunare, bensì sul macigno ingombrante che la maggior parte dei commentatori politici, per disonestà e pavidità, non vuole prendere in considerazione, ovvero il fatto che la straordinaria quantità di consenso elettorale attribuito al M5s (che potrebbe trasformarsi in una ventata di aria pulita per il sistema politico) non trova una rappresentazione democratica affidabile e duratura.
Ci troviamo infatti in presenza di una forza politica (che ha raggiunto il primato elettorale) in cui il leader – che dopo una rincorsa “forsennata e fortunata” è arrivato ad assumere la carica di vicePresidente del Consiglio – i programmi, le candidature e le stesse scelte strategiche non sono la risultante di processi di partecipazione democratica, bensì di manipolazioni gestite da un’Impresa privata con la copertura di un comico santone ed attraverso una Piattaforma proprietaria.
Le conseguenze di questa situazione sono davvero preoccupanti per l’assetto democratico ed il corretto funzionamento delle dinamiche parlamentari, ma per dare un orientamento strategico alla domanda di partecipazione e presa in carico dei programmi votati dagli elettori grillini, non ci si può limitare alla stucchevole polemica delle valutazioni espresse sulla base di posizioni ideologiche e schieramenti contrapposti (oltretutto sterili in un contesto di tripolarismo) bensì innescare un processo dialettico di confronto finalizzato a smascherare le contraddizioni e le oscurità di M5s, ma anche valorizzarne, assumerne e mediarne le proposte che possono concorrere a dare uno sbocco riformista alla governabilità del Paese.
Vasto programma, complesso ed irto di ostacoli e per affrontarlo bisogna guardare in profondità la genesi storica, il tortuoso cammino, valori-disvalori e ragioni sostanziali che hanno determinato il successo elettorale grillino del 4 marzo: lo dobbiamo fare se vogliamo comprendere le scelte soprattutto del mondo giovanile ed esercitare – mi si conceda l’espressione apolitica – una paternità autorevole.
E’ partendo da questo approccio che i due articoli indicati in calce e linkati intendono dare esclusivamente un contributo esplorativo

1. ANALISI (DALL’INTERNO) DELLA NASCITA, CRESCITA E INVOLUZIONE DI M5S

https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/digitalismo-politico-movimento-cinque-stelle-marco-morosini 
https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/digitalismo-politico-caso-m5s-2

2. GIANROBERTO E NOI. IL GRILLISMO, FASE ADOLESCENZIALE DELLA CITTADINANZA DIGITALE

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Oeconomicae et pecuniariae quaestiones. Considerazioni per un discernimento etico circa alcuni aspetti dell’attuale sistema economico-finanziario

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Commento del prof. Giovanni Tonella

Il documento da poco reso pubblico ma licenziato nel gennaio del 2018 da parte della Congregazione per la Dottrina della fede e del Dicastero per il servizio dello sviluppo umano integrale: Oeconomicae et pecuniariae quaestiones Considerazioni per un discernimento etico circa alcuni aspetti dell’attuale sistema economico-finanziario è rilevante perché, sulla base dei riferimenti dottrinali della Chiesa Cattolica, organizzazione che si propone di essere strumento (sacramento) di salvezza universale e quindi promotrice di una civiltà dell’amore, avanza alcune riflessioni critiche sui mercati finanziari e alcune proposte politico-pratiche per governarli coerentemente con il fine del bene comune. Tali riflessioni e proposte sono da valutare con estremo interesse, tanto più che si riconosce che dalla recente crisi finanziaria non si è in realtà usciti con riforme in grado di neutralizzare gli aspetti predatori e speculativi e rafforzare il servizio all’economia reale dei mercati. Anzi, nella sostanza non vi è stato un ripensamento di quei “criteri obsoleti che continuano a governare il mondo” (cit.).
Il documento è suddiviso in quattro parti, nella prima, introduttiva, appunto si parte dalla premessa prima evidenziata, ponendo con forza la necessità di intraprendere una “riflessione etica circa taluni aspetti dell’intermediazione finanziaria”.
Nella seconda parte si propongono delle elementari considerazioni di fondo. Tali considerazioni evidenziano la tesi di base che orienta le considerazioni etiche e politiche che poi nel documento seguiranno: l’uomo è da considerarsi come essere in comunione con gli altri essere, in rapporto relazionale e dotato di una razionalità alla perenne ricerca di un guadagno e di un benessere che siano interi, irriducibili ad una logica individualistica, irresponsabile e puramente guidata dalla massimizzazione di un profitto meramente monetario e di un consumo privo di limiti. Insomma vi è una idea di benessere che implica la relazione giusta con gli altri. L’uomo ha un “originario carattere comunionale” (cit) e “Nessun profitto è … legittimo quando vengono meno l’orizzonte della promozione integrale della persona umana, della destinazione universale dei beni e dell’opzione preferenziale per i poveri” (cit.).
Partendo da una tale premessa antropologica ed etica, si pone la necessità di un appello alla politica affinché essa, perseguendo il bene comune, regoli i mercati e i networks economico-finanziari, in un mondo finanziario dove emergono clamorosamente elementi di immoralità e comportamenti a rischio. Si tratta di contrastare una certa asimmetria informativa, a volte connaturata alla complessità dei prodotti finanziari a volte gestita intenzionalmente con logiche truffaldine, il carattere speculativo e di azzardo delle negoziazioni ad alta frequenza, l’applicazione di tassi eccessivamente elevati, il vero e proprio intento speculativo che persegue il guadagno a breve termine senza alcuna responsabilità sugli effetti (ad esempio sui debiti pubblici). Sarebbe necessario insomma una “riscossa dell’umano” (cit.).
Nella terza parte si individuano una serie di puntualizzazioni nel contesto odierno e si fanno anche alcune precise proposte generali di regolamentazione dei mercati finanziari. Tra le misure concrete che vengono individuate possiamo enumerare le seguenti: introduzione di una certificazione pubblica sui prodotti di innovazione finanziaria, separazione tra gestione del risparmio e gestione dell’investimento per mero business (il tema della separazione tra le banche di investimento e quelle tradizionali), misure di tutela del risparmio familiare quale bene pubblico, istituzione di comitati etici da affiancare ai consigli di amministrazione delle grandi imprese, una regolazione più stringente dei credit default swaps, per evitare che si scommetta da parte di chi non ha assunto un rischio di credito sul fallimento di una terza parte, limitazione della finanza offshore (operata in luoghi totalmente deregolamentati) e tassazione delle transazioni offshore, misure di trasparenza e rendicontazione per le aziende multinazionali ecc.
L’insieme di queste misure, come altre che vengono proposte, richiede evidentemente un coordinamento sovranazionale degli Stati, evidentemente all’insegna di una indipendenza dagli interessi dei pochi. Quindi vi è un richiamo alla funzione della politica, che secondo il documento eserciterebbe una forma di carità. La mia sintesi non è esaustiva e quindi invito all’attenta lettore del documento, soprattutto di questa terza parte.
Infine la quarta parte del Documento come conclusione invita alla speranza e non solo all’attivazione dei poteri pubblici ma anche alla società civile internazionale sotto forma di opinione pubblica che deve agire da sentinella della “vita buona” (mi pare che si possa ravvisare in questo senso un richiamo alla logica del potenziale comunicativo inteso secondo l’intesa ragionevole, che preserva il mondo vitale dalle logiche stringenti del dominio strategico).
Personali conclusioni. È del tutto evidente che i mercati deregolamentati permettono ad attori economici di massimizzare i profitti e socializzare le perdite al massimo grado. Come è del tutto evidente che una applicazione stringente della logica della massimizzazione dei profitti secondo i calcoli della matematica finanziaria dissuade da investimenti pazienti i capitali ed è fonte di grande instabilità. Mi pare quindi assolutamente da accogliere l’indicazione di una regolamentazione dei mercati. Purtroppo la vittoria di Trump e di altre forze politiche invece sembra all’insegna da una parte dell’aumento della deregolamentazione dei mercati e degli sconti fiscali per operatori dell’azzardo e dall’altra dello scontro tra frazioni di borghesi nazionali in lotta, che alimentano nazionalismi e protezionismi e comunque dinamiche strategiche di forza (costruendo operazioni egemoniche su larga parte dei ceti medi, dei proletariati e sottoproletariati nazionali). Si tenga peraltro conto che le odierne democrazie, in crisi per n fattori (delegittimazione da parte di perfomance sociali insufficienti, problemi di sovraccarico, rivolte fiscali, dumping fiscali e sociali), subiscono la delegittimazione dei grandi partiti popolari anche attraverso la critica interessata ai costi della politica e al finanziamento pubblico dei partiti (misura deterrente e limitante del fenomeno per cui la politica e quindi gli Stati divengono al servizio in ultima istanze di frazioni di borghesia nazionale o internazionale). Insomma è evidente che l’indebolimento della politica e della sua autorevolezza, nonostante le crisi economiche e i loro andamenti distruttivi, allontanano il proposito di regolamentare i mercati secondo le sagge indicazioni proposte dal discernimento della Chiesa Cattolica.

http://www.vatican.va/roman_curia/congregations/cfaith/documents/rc_con_cfaith_doc_20180106_oeconomicae-et-pecuniariae_it.html

GeCCo: generare, condividere, conoscere per il rinnovamento culturale ed etico-civile della Comunità veneta

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Alcune riflessioni dopo il risultato elettorale
Anche in Veneto, si conferma la forza del messaggio politico semplificatorio e fortemente ideologizzato, con il ricorso a suggestioni vetero-nazionaliste e mirabolanti promesse fiscali (vedi flat tax) ed assistenziali (vedi reddito di cittadinanza), peraltro ben difficilmente realizzabili.
Nella legislatura 2013/2018 si è operato per riportare il Paese verso la stabilità dei conti, per i primi seppur parziali provvedimenti di equità sociale e per l’innovazione dei processi economico-produttivi necessari ad affrontare il mare aperto della competizione internazionale e senza dazi. La nostra Regione se ne è giovata particolarmente e vi ha trovato una nuova spinta per la crescita e l’export. Quella stagione di api laboriose, viene ora messa a repentaglio dalle locuste e cicale che si sono candidate a governare con programmi che, se attuati, scardinerebbero gli equilibri finanziari-monetari ed i vincoli di coesione sociale a livello nazionale e di integrazione a quello europeo.
Tale deriva demagogica viene non solo dalle paure e dal risentimento che attraversano il corpo sociale della popolazione più esposta alle insidie della crisi, ma anche dalle pulsioni ribelliste di parte del ceto borghese arricchito e delle corporazioni interessate a farsi proteggere e tutelare dai rischi della globalizzazione da un partito come la Lega, che ha abbandonato la vocazione federalista per la scelta sovranista ed antieuropeista, soffiando sull’esasperazione delle preoccupazioni di chi si sente minacciato nelle sue proprietà e rendite di posizione.

Ma il fatto più eclatante che emerge dalle urne di questo 2018, a settant’anni dalla scelta occidentale del fronte democratico, è il crollo del rapporto fiduciario verso la classe dirigente “storica” che, al di là delle fluttuazioni tra Prima e Seconda Repubblica e delle articolazioni tra maggioranze ed opposizioni, è stata sempre espressione istituzionale del percorso imboccato nel ’48. Oggi una vasta platea di cittadini esasperati dall’inefficienza e dalle scarse prestazioni ed attenzioni delle istituzioni nei confronti delle loro domande di partecipazione, ascolto, trasparenza e – soprattutto – sicurezza, ha preferito forze antisistema per un radicale cambiamento.
Non è quindi sorprendente che una parte cospicua delle attese popolari, in particolare nel Mezzogiorno laddove le contraddizioni sono più acute, si sia riversata su un movimento propostosi come alternativa messianica e vendicatrice dei torti subiti, punendo la rappresentanza politica governativa a cui è stata attribuita la responsabilità di non aver dato risposte più convincenti alla voragine delle ingiustizie sociali apertasi nell’ultimo decennio.
Gli effetti del nuovo quadro politico ed il Veneto
Il nuovo quadro politico uscito dalle urne e – per quanto riguarda il Veneto – anche dalla votazione per l’Autonomia, ci consegna un’Italia ed una Regione con un ceto politico interessato a programmi più rivolti ad esorcizzare le difficoltà ed a catturare il consenso nel frammentato mercato delle domande e delle proteste, piuttosto che a soluzioni che facciano sintesi della complessità territoriale, settoriale, sociale di un Paese pieno di fratture e divaricazioni (la più eclatante è quella tra Nord e Sud), disorientato e senza quella bussola che una classe dirigente all’altezza delle sfide deve offrire.
Così la ventata demagogica rischia di portare alla rottura dei legami comunitari, sabotando nei territori i progetti di coesione sociale perseguiti attraverso il rispetto delle regole, per esempio sulla questione immigrazione, laddove si sono avviati sostenibili processi di integrazione.
Non è accettabile che la legittima aspirazione all’identità culturale e la giusta pretesa della partecipazione comunitaria vengano private della loro valenza solidale e trasformate in strumenti di aggressività politica ed in pratiche di chiusura.
Allo schieramento forza-leghista arriva anche il consenso delle lobbies corporative e speculative operanti sul territorio ed in particolare sull’ambiente. I casi MOSE, PFAS, BANCHE POPOLARI, PEDEMONTANA, ECOMAFIE sembrano non aver prodotto ancora una completa elaborazione delle loro cause e relative responsabilità, piuttosto dando luogo ad una sorta di ulteriore deformazione del venetismo.
Le solite lobbies sono dedite al sistematico sabotaggio dell’efficienza amministrativa pubblica, impedendo innanzitutto l’istituzione di efficaci sistemi di controllo, con la conseguenza di favorire la corruzione, il degrado del territorio e la cancellazione di qualunque possibilità di attivare una moderna sinergia tra pubblico e privato, tra sviluppo e territorio.
Nessuna forte reazione positiva della classe dirigente è stata avvertita, né alcuna azione è stata fatta a livello regionale per innovare e rafforzare il corretto funzionamento del sistema né tantomeno i meccanismi di verifica.
D’altro canto, la campagna elettorale nazionale, così come la recente vicenda referendaria regionale, ci dicono in modo incontrovertibile che i valori e i contenuti programmatici del centrodestra sono stati piegati ad un uso banalizzante, scivolando pure nella volgarizzazione del linguaggio e nella propaganda.
Il manifesto di GeCCo
È a partire da questa sofferta diagnosi dello stato delle cose che alcuni cittadini impegnati in ambito professionale, culturale e scientifico ed animati da passione civile hanno pensato di contribuire ad una maggiore consapevolezza, ad un progetto di cittadinanza responsabile, promuovendo una piattaforma per la generazione, discussione, condivisione e diffusione di idee e proposte per l’agenda pubblica.
Siamo convinti che c’è bisogno di conoscenza e di competenze adeguate per affrontare problematiche sempre più complesse. Occorre tentare di cambiare in meglio la società in cui viviamo, a partire dal territorio e dalle micro comunità, perseguendo la loro coesione attraverso modelli codificati di partecipazione e cittadinanza anche digitale, nell’auspicio che ciò possa servire per sviluppare uguaglianze ed opportunità nelle comunità locali e nel Paese.
Serve uno sforzo collettivo che ponga al centro l’esame della complessità della realtà e un sistematico dialogo fecondo per mettere a frutto l’intelligenza sociale come strumento di evoluzione della democrazia, senza cristallizzazioni e regressioni: saperi e competenze al servizio di un progetto di rigenerazione democratica, per la ricerca delle necessarie innovazioni istituzionali ed in particolare di autonomia responsabile.
Questa idea o, meglio, questi ideali non possono che connettersi ad una forte ripresa dei valori civili, sociali ed economici – aggiornati alle contraddizioni del tempo presente – così come sono stati declinati e testimoniati dalle più importanti esperienze riconducibili all’area del riformismo cattolico, liberaldemocratico e della sinistra storica, riprendendo lo spirito più dinamico del nostro patriottismo costituzionale, ridando animo all’onda lunga del Risorgimento – o Sorgimento – nazionale.
Nell’era della rete universale, della digitalizzazione progressiva, della globalizzazione dei fattori produttivi, delle trasmigrazioni di massa, lo sforzo deve essere quello di interpretare ciò che pulsa in Veneto, offrendo una proposta di programmazione elaborata da persone che, provenendo da differenti esperienze, vogliono rendersi utili alla propria Comunità.
La domanda alla quale rispondere è: in questa fase storica di disorientamento e di forte cambiamento, come possiamo contribuire a far crescere un pensiero ed un agire collettivo ben piantato in scienza, conoscenza e consapevolezza?
La risposta è nella Politica: con essa dobbiamo ragionare sul futuro e vincere gli scetticismi che ci schiacciano sugli errori del passato o sulle difficoltà del presente.
La Politica quale disciplina che orienta le scelte necessarie per la crescita sociale e civile del cittadino e delle nostre comunità.


Padova, 13 aprile 2018                                               F.to Sig.ri:

Il digitale a scuola promosso con riserva

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Guido Romeo – Il Sole 24 Ore domenica – 20 Maggio 2018

Più coinvolti, supportati e meno ansiosi i ragazzi: una ricerca italiana sul campo misura i progressi e sottolinea tutte le criticità
Più disposti a imparare, meno ansiosi e in grado di superare meglio gli eventuali problemi di apprendimento come disortografia o dislessia. È questa la prima fotografia che emerge dalla più vasta indagine sul campo sugli effetti del digitale nella scuola primaria italiana. I risultati saranno presentati domani a Bergamo nel quadro del seminario “Digitale Sì, Digitale No”. La ricerca, condotta tra novembre 2017 e maggio 2018, dal centro studi ImparaDigitale e dal Cnis (Coordinamento Nazionale degli Insegnanti Specializzati) dell’Università di Padova, con il supporto di Acer for Education, ha coinvolto 1.400 insegnanti di 45 scuole primarie e oltre 1.300 bambini tra i 6 e gli 11 anni provenienti da 28 scuole da tutta Italia (8 al nord, 4 al centro e 16 al sud) e divisi equamente per genere.
La ricerca è un passo importante nel dibattito sull’utilizzo del digitale nella scuola italiana perché l’esperienza di una classe connessa, che ha quindi accesso allo sterminato mondo di risorse della rete, è profondamente diversa da quella offerta, fino a qualche anno fa, dalle tecnologie multimediali come cd-rom e dvd. La connettività, e in particolare la diffusione dei dispositivi mobili ai quali i bambini hanno accesso fin dall’età prescolare, è un salto di paradigma i cui effetti insegnanti e ricercatori ancora faticano a mettere a fuoco. Anche tra molti addetti ai lavori, il punto di vista sul digitale a scuola sembra spesso fondato su un approccio più ideologico che su solide evidenze sperimentali.
L’obiettivo del lavoro del Cnis è perciò portare finalmente il dibattito su evidenze sperimentali. La ricerca indaga «i cambiamenti cognitivi, di motivazione e di apprendimento» degli allievi confrontando i risultati ottenuti su un gruppo sperimentale nel quale gli allievi utilizzano il digitale e uno di controllo. Le aree di indagine sono state tre: l’impatto della multimedialità sull’apprendimento, la scrittura nel digitale e sul cartaceo, l’impatto dei videogame e della realtà aumentata sulla motivazione dei ragazzi. «I risultati della ricerca sono ancora in fase di elaborazione – sottolinea Maria Lidia Mascia, la ricercatrice del Cnis che, insieme alla collega Simona Perrone, ha condotto la ricerca –, ma i primi risultati indicano chiaramente che ci sono vantaggi in alcune aree specifiche dell’apprendimento, a patto che gli allievi siano guidati con competenza su un percorso adeguato».
Mentre non sembrano esserci differenze complessive nell’apprendimento della scrittura tra allievi digitali e analogici, ci sono cambiamenti molto chiari all’interno del gruppo che usa il digitale. «Sul fronte della scrittura – spiega Mascia – abbiamo visto che tra chi ha imparato a scrivere con un dispositivo personale come per esempio un tablet, sono migliorati notevolmente soprattutto i bambini con disturbi di apprendimento o con bisogni particolari».
Buoni risultati arrivano anche sul fronte della multimedialità che ha visto le classi sperimentali esposte all’uso di app, software didattici web based e contenuti multimediali interattivi praticamente in tutte le materie, dalla matematica, all’italiano, la storia, la geografia o l’inglese, attraverso computer o dispositivi personali. Qui è emerso un vantaggio dei bambini che già avevano accesso a strumenti digitali in famiglia, più rapidi nel muoversi in questi ambienti. «Credo sia ancora presto per trarre conclusioni su questo fronte dai nostri dati – osserva Mascia –, ma in letteratura è descritto un potenziamento spazio-cognitivo dei ragazzi con più padronanza del digitale che risultano perciò più rapidi nell’esecuzione di alcuni compiti”. Un segnale importante arriva anche dalle osservazioni dirette degli insegnanti coinvolti: «Utilizzare le tecnologie nella didattica, per i ragazzi è una scoperta. Avere i computer a loro disposizione e mettere alla prova le loro acquisizioni fa sì che anche l’alunno meno incline all’impegno si applica! Si cimentano in app via via sempre più complesse».
Risultati analoghi arrivano sul fronte dei videogiochi perché i bambini che hanno usato giochi didattici hanno mostrato il più alto grado di motivazione. «Il lavoro fatto utilizzando il videogioco incide tantissimo sulla motivazione dei bambini – osserva una delle insegnanti coinvolte -, i livelli di ansia erano molto più bassi quando si usava il videogioco perché percepivano le attività svolte più come un gioco che come un compito». «È un percorso che deve però essere guidato dagli insegnanti per non diventare semplicemente entertainment e avere un vero impatto didattico», osserva Mascia.
Non mancano però i punti critici del digitale a scuola. Sia sul fronte neuro-psicologico come ha accuratamente documentato Daniela Lucangeli, docente di Psicologia dello sviluppo e pro-rettore dell’Università di Padova oltre che presidente del Cnis (si veda l’articolo in realtà aumentata), che su quello delle infrastrutture (meno del 15% di istituti è dotato banda larga) e per le competenze degli insegnanti.
Per quanto il 42% degli insegnanti coinvolti nella ricerca ritenga che il digitale sia utile in molte aree di apprendimento, meno della metà si dichiara capace di utilizzare il digitale per creare risorse online per alunni con problemi di apprendimento e più della metà dichiara di saper navigare in rete. E quasi quattro su dieci dichiarano di non conoscere Google Scholar, una delle fonti più quotate a livello internazionale per la verifica delle fonti.

“America first” sta diventando America da sola

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Gideon Rachman – – © THE FINANCIAL TIMES LIMITED, 2018-
Il Sole 24 Ore domenica – 20 Maggio 2018
L’America può fare da guida al mondo senza alleati? Questa è la domanda che sorge dalla decisione del presidente degli Stati Uniti Donald Trump di ritirarsi da un accordo internazionale messo a punto con grande fatica per contenere le ambizioni nucleari dell’Iran.
L’esercizio unilaterale del potere statunitense è un’idea che attirava da tempo John Bolton, il Consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca. Nel 2000, Bolton aveva suggerito: «Se dovessimo rifare oggi il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, annuncerei un unico membro permanente, quello che riflette davvero la distribuzione del potere nel mondo».
Oggi Bolton lavora per un presidente col quale ha in comune lo stesso disprezzo nei confronti della cooperazione internazionale. Decidendo di ritirare gli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare con Teheran, Trump ha respinto gli appelli personali giuntigli dalle autorità di Francia, Germania e Regno Unito.
La decisione nei confronti dell’Iran è soltanto l’ultimo esempio, e il più serio, dell’unilateralismo aggressivo dell’amministrazione Trump. Nel giugno scorso, Trump decise di far compiere agli Stati Uniti un’altra inversione di rotta rispetto a un accordo internazionale fondamentale, il Trattato di Parigi sul cambiamento del clima. Qualche giorno fa gli Stati Uniti hanno compiuto un ulteriore passo simbolico, trasferendo la loro ambasciata in Israele a Gerusalemme, mossa criticata da tutti i suoi più stretti alleati. Trump, inoltre, sta lanciando un vero e proprio assalto al sistema commerciale internazionale, minacciando di imporre dazi tassativi non soltanto alla Cina, ma anche ad alleati di primo piano come Giappone, Canada e Unione europea.
Queste politiche non nascono soltanto in virtù della sua politica dell’“America first”. Sempre più spesso, infatti, paiono ispirate a uno slogan diverso, quello dell’“America alone”, un’America da sola. La posizione dell’amministrazione Trump rispetto all’Iran è stata disapprovata da tutti gli altri firmatari dell’accordo (Francia, Germania, Regno Unito, Cina, Russia, Unione europea), anche se gode dell’appoggio di Israele e dell’Arabia Saudita. Nello stesso modo, l’approccio di Trump agli scambi commerciali e al cambiamento del clima non ha attirato alcun sostegno significativo da parte degli alleati.
L’unilateralismo americano avrà ripercussioni dirette in Medio Oriente. E ne avrà anche di indirette per il mondo nel suo complesso.
Jake Sullivan, funzionario dell’Amministrazione Obama che ha assunto un ruolo di primo piano nei colloqui segreti in corso tra Stati Uniti e Iran, pensa che Teheran si sentirà obbligata a rispondere al ritiro americano, ma «non in modo da scatenare una crisi immediata». Sullivan intende dire che gli iraniani sceglieranno di compiere alcuni passi relativamente poco provocatori, per esempio «incrementare la ricerca e lo sviluppo di centrifughe avanzate».
Ma anche la reazione più cauta conferirà maggior potere a coloro che negli Stati Uniti, in Arabia Saudita e in Israele vogliono che si proceda a un intervento militare contro l’Iran. Il presidente stesso potrebbe considerare la sua mossa come un mezzo per aumentare le pressioni sull’Iran, e costringerlo così a concessioni più grandi. Al contrario, alcuni consiglieri intimi di Trump come Bolton potrebbero desiderare davvero una guerra, con l’obiettivo ultimo di provocare un cambio di regime a Teheran. In un articolo del 2015 su un quotidiano, Bolton sosteneva la sua opinione scrivendo che «solo un intervento militare… potrà farci ottenere ciò che è indispensabile ottenere».
Anche se non dovesse portare inevitabilmente a un nuovo conflitto in Medio Oriente, la decisione di fare a pezzi l’accordo con l’Iran ha aperto un’enorme voragine all’interno dell’alleanza occidentale. Quando George W. Bush decise di invadere l’Iraq nel 2003, gli Stati Uniti ruppero i rapporti con Francia e Germania. L’amministrazione Bush, tuttavia, aveva ancora alcuni alleati importanti in Europa contro l’Iraq, compresi Regno Unito, Spagna, Paesi Bassi e Polonia. Ma, nel caso dell’Iran, gli Usa non godono di alcun appoggio evidente da parte dei Paesi europei.
Anzi, in Europa dilaga una rabbia calma. Gli europei hanno affrontato il problema di capire se potrebbero continuare a rispettare gli accordi di Teheran semplicemente rifiutandosi di essere vincolati dalle sanzioni statunitensi. Farlo, però, sarebbe molto difficile, per ragioni che vanno al cuore del potere unilaterale dell’America. Gli Stati Uniti potrebbero obbligare aziende europee come Airbus e Total a scegliere tra il mercato Usa e quello iraniano.
Il potere economico americano va ben oltre l’accesso ai mercati. In extremis, i dirigenti europei che continueranno a fare affari con l’Iran potrebbero essere arrestati qualora viaggiassero negli Stati Uniti. E le banche europee che fanno affari con l’Iran potrebbero trovarsi estromesse dal sistema finanziario americano, oppure perseguite legalmente e costrette a pagare ingenti multe in America. «Le aziende tedesche che fanno affari in Iran dovrebbero ridurre immediatamente le loro operazioni» ha avvisato su Twitter mercoledì scorso il nuovo ambasciatore americano in Germania Richard Grenell. Tutto ciò riflette il ruolo del dollaro statunitense di valuta di riserva globale – realtà che l’ex presidente francese Valéry Giscard d’Estaing definì un «privilegio eccessivo». A consentire agli Usa di usare la mano pesante con i suoi alleati – e così pure con i suoi avversari – è il dollaro. Almeno quanto la potenza militare americana.
La forza delle sanzioni americane e la portata del sistema giudiziario statunitense sono state comprovate negli ultimi anni. Sono questi elementi ad aver consentito agli Usa di recente di dare un giro di vite agli affari di Oleg Deripaska, un oligarca russo con legami col governo di Putin. Le imprese e le banche europee sono state obbligate a tagliare i rapporti con la società Rusal di Deripaska, sotto la minaccia di sanzioni indirette da parte degli Stati Uniti. Perfino i dirigenti della Fifa, la federazione internazionale di calcio, hanno toccato con mano il potere internazionale del dollaro quando nel 2015 furono arrestati in Svizzera per essere poi estradati negli Stati Uniti per rispondere dell’accusa di corruzione. La loro vulnerabilità legale, si è scoperto, era dovuta al fatto di essersi serviti di banche americane.
Il ruolo centrale dell’America nel sistema finanziario globale offre all’Amministrazione Usa un’arma economica immensamente potente. Il potere di quest’arma, però, potrebbe usurarsi se lo si usasse troppo di frequente. Sia Russia sia Cina hanno discusso di come provare a dar vita a sistemi di pagamento internazionali alternativi che facciano a meno degli Stati Uniti e utilizzino valute diverse dal dollaro. Anche gli europei adesso potrebbero essere tentati dall’idea di unirsi a questi sforzi, soprattutto se ciò fornisse loro l’occasione di dare slancio al ruolo internazionale dell’euro.
L’euro però è una valuta relativamente ancora recente. Il renminbi cinese non è del tutto convertibile. E il rublo non è un concorrente plausibile. Oltretutto, in teoria anche le aziende che commerciano fuori dagli Usa e che usano l’euro sono soggette al rischio di esclusione dai mercati americani. Il giorno in cui un’azienda internazionale potrà dire addio al dollaro e tenersi alla larga dai mercati statunitensi appare ancora molto lontano.
Un simile potere potrebbe indurre Trump a credere di godere di un campo d’azione considerevole per il suo unilateralismo a costo zero. Gli alleati dell’America, dal canto loro, potrebbero esprimere la loro disapprovazione dichiarando che è inaccettabile che gli Stati Uniti escano dagli Accordi di Teheran o dal Trattato di Parigi sul clima, ma in concreto c’è veramente poco che possano fare in proposito. Dopotutto, gli alleati europei dipendono non soltanto dal dollaro ma anche, come Trump non riesce a fare a meno di ricordare loro di continuo, anche dalla protezione militare americana.
Si sente dire che adesso gli europei sarebbero determinati a “fare di più” per la loro difesa, e così pure per una maggiore integrazione dell’euro. La cancelliera tedesca Angela Merkel ha dichiarato senza mezzi termini di credere che gli Stati Uniti «stiano in sostanza abdicando al ruolo di leadership globale», dice Sullivan. Date le difficoltà politiche e pratiche dell’integrazione, però, qualsiasi decisione probabilmente sarebbe solo incrementale.
Anche gli alleati asiatici dell’America devono affrontare un dilemma simile. Il Giappone è palesemente insoddisfatto per iniziative quali il ritiro dall’accordo per il Trattato di libero scambio nel Pacifico e per le minacce di dazi più onerosi. Ma Tokyo – che osserva con distacco e circospezione Trump programmare colloqui con il leader nordcoreano Kim Jong-un – ha ben poche alternative alla garanzia di sicurezza offerta dagli Stati Uniti.
In ogni caso, l’unilateralismo dell’amministrazione Trump non sarà a costo zero, anche se le spese non diventeranno subito apparenti. La sua rete di alleanze colloca gli Usa su un altro piano rispetto alle nazioni che l’Amministrazione ha identificato come i concorrenti strategici dell’America: Russia e Cina. I suoi alleati possono mettere sul tavolo asset concreti. Le basi militari oltreoceano sono i capisaldi del suo campo d’azione globale. La condivisione delle informazioni tra alleati contribuisce a far sì che gli Stati Uniti pongano un freno alla minaccia terroristica. Partner con le medesime opinioni contribuiscono a dar forma a standard legali e commerciali.
In particolare, più di ogni altra cosa, queste alleanze danno legittimità agli Stati Uniti quando cercano di esercitare il loro potere. Rispondere a ogni singola sfida con il ricorso alla forza militare o le sanzioni economiche non è fattibile per l’America. In tempi normali, gli Usa fanno affidamento sull’“ordine internazionale basato sulle regole” – un complesso di leggi e istituzioni a cui gli Usa e i suoi alleati hanno in buona parte dato forma nel corso di molti decenni. Cercando di reagire all’annessione della Crimea da parte della Russia o alle pretese avanzate dalla Cina sul Mar Cinese Meridionale, gli Usa hanno fatto appello alla legge internazionale e hanno fatto il possibile per mettere insieme il sostegno di altre nazioni alle Nazioni Unite e in altre sedi.
Affinché un ordine basato sulle regole possa funzionare, però, gli Stati Uniti devono essere in grado di dimostrare di essere disposti, di tanto in tanto, a essere vincolati dalle regole – accettando anche i giudizi sfavorevoli del Wto, per esempio, oppure clausole non proprio ideali contenute nell’accordo con l’Iran.
Sono proprio questi vincoli al potere americano quello che Trump e i suoi consiglieri come Bolton non sembrano essere più disposti ad accettare. Di conseguenza, invece di fare affidamento su un sistema basato sulle regole, l’amministrazione Trump sta cercando di orientarsi verso un ordine basato sul potere: un ordine nel quale gli Usa stabiliscono le regole e gli altri sono obbligati a seguirle. Questo sistema potrebbe anche funzionare, per un po’, ma costituisce un invito agli avversari a mettere alla prova la volontà dell’America con azioni unilaterali in Europa, Asia e Medio Oriente. E questa, in definitiva, è la formula per un mondo estremamente più pericoloso.

Corsa agli investimenti. Intelligenza artificiale 20 miliardi dalla Ue

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JAIME D’ALESSANDRO, la Repubblica, 30 aprile 2018

Auto, traffico, meteo finanza e medicina È la nuova tecnologia
L’Italia ora insegue ma è una eccellenza della robotica

Il taxi a guida autonoma che domani ci porterà a casa, l’assistente personale che tradurrà in tempo reale le nostre frasi in un’altra lingua, il sistema che gestirà i semafori della città, quello che riconoscerà ogni elemento delle nostre foto ordinandole, il programma che leggerà le radiografie.
«L’intelligenza artificiale è qui per restare. Questo ormai è chiaro a tutti. Ecco perché è cominciata la corsa all’oro: chi resta indietro rischia la sudditanza tecnologica». Massimiliano Versace, friulano di 45 anni, lo dice al telefono da Boston, dove dirige la Neurala che sviluppa intelligenza artificiale (Ai). Un decano: ha condotto ricerche per conto della Defense Advanced Research Projects Agency (Darpa, quella che ha inventato Internet) e ora lavora con la Nasa e big dell’elettronica cinese. La notizia che sia cominciata ufficialmente la gara fra governi per le Ai non lo stupisce. Anzi. «La politica si muove in ritardo», aggiunge.
Eppure in pochi giorni sono scesi in campo tutti. La Commissione europea ha appena annunciato di voler portare a 20 miliardi di euro gli investimenti complessivi da qui al 2020. «Come hanno fatto vapore ed elettricità in passato, l’intelligenza artificiale sta già trasformando il mondo». Parola del vice presidente della Commissione Andrus Ansip. Il Presidente francese Emmanuel Macron lo ha preceduto di qualche settimana. Alla conferenza “AI for Humanity” ha spiegato di voler stanziare un miliardo e mezzo di euro per fare del suo Paese un’avanguardia. Con l’obbiettivo di arrivare a un sogno alla Prometeo e non a un incubo distopico dove robot e Ai finiscono per annichilirci come temono Elon Musk e come temeva l’astrofisico Stephen Hawking.
Anche l’Inghilterra non vuol restare indietro, considerando che la Brexit la taglierà fuori dall’Ue.
Il timore è che aumenti la distanza con gli Stati Uniti e soprattutto con la Cina. A luglio il governo di Pechino ha messo sul tavolo 18 miliardi di euro che diverranno circa 40 l’anno nel 2025. E intanto l’intero settore sta esplodendo, anche in borsa.
«Tempismo perfetto», applaude Alessandro Curioni l’iniziativa della Commissione Ue. Dirige a Zurigo i laboratori di ricerca della Ibm che in fatto di Ai è uno dei grandi nomi. «Stiamo sommersi di dati, ne produciamo sempre più.
L’unica risposta per analizzarli sono le Ai». Curioni è uno dei tanti italiani che a vario titolo sono in prima linea. Peccato che molti lavorino all’estero. Il nostro Paese, che in fatto di robotica e macchinari per l’industria è fra i primi, non brilla nell’intelligenza artificiale. A settembre l’Agenzia per l’Italia Digitale (AgID) ha presentato un gruppo di lavoro nato per studiare le opportunità offerte dalle Ai per migliorare i servizi pubblici. Il gruppo ha prodotto un libro bianco con alcune linee guida. Utile, ma nulla di paragonabile a quanto stanno facendo Francia e Inghilterra.
Stando ai dati dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (Ocse), il nostro Paese è al quinto posto per quanto riguarda la produzione dei documenti scientifici più citati sul cosiddetto “apprendimento delle macchine”, una delle tecnologie principali usate nelle Ai. Veniamo dopo Stati Uniti, Cina, India e Gran Bretagna. In teoria non saremmo messi male se volessimo partecipare a questa corsa.
Mentre l’amministrazione Trump fa sapere che intende bloccare la collaborazione fra le sue aziende e quelle cinesi in fatto di Ai, Sergey Brin, uno dei due fondatori di Google, nell’ultima lettera agli investitori scrive: “La nuova primavera dell’intelligenza artificiale è lo sviluppo più significativo nell’informatica di tutta la mia vita”. Commento interessato: Google sulle Ai ha investito tanto e ne magnifica le capacità ben oltre i tanti limiti che ancora dimostrano. Ma certo, difficile immaginare che domani un qualsiasi processo non sia gestito da loro. Compresi quelli legati a difesa e armamenti. Di qui l’appello di agosto alle Nazioni Unite per una moratoria. Che è rimasto però lettera morta, almeno fino ad ora.

Cara Sat, se ci sei fatti sentire

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Paolo Mantovan – Il Trentino – 30 APRILE 2018

La nostra è un’epoca in cui viviamo con isteria troppe questioni che riguardano l’ambiente. E qui, in un territorio di montagna, un territorio ancor più fragile, le viviamo forse con un grado di isteria ancora maggiore. Basti pensare a ciò che è avvenuto (e che tuttora avviene) rispetto alla presenza di orsi e lupi. Oppure pensiamo ai grandi scontri per l’eliski e per il più recente elicottero per ciclisti in quota. O ancora guardiamo alle folla da tremila persone sul Brenta per il concerto di un dj. E non è strano pensare anche alle vicende degli alberi di Rovereto. In tutto questo dov’è la Sat?
La (quasi) assenza della Sat dal confronto sui temi centrali dell’ambiente in questi ultimi anni è una questione centrale. Per più ragioni.1) Interrogarsi sul ruolo della Sat è naturale in questi giorni. Da venerdì c’è un nuovo presidente, Anna Facchini, ed è la prima volta di una donna alla guida della Sat. E domani, sullo Stivo, ci sarà l’inaugurazione ufficiale del rifugio restaurato, il rifugio intitolato a Prospero Marchetti che fu fondatore e primo presidente della Sat. Fra la prima presidente donna e il ritorno a splendore del rifugio che ricorda il primo presidente della gloriosa Società degli alpinisti tridentini è come mettersi sulla vetta e scrutare nuovi orizzonti con lo zaino ricco di un passato straordinario. E questa riflessione oggi non può assolutamente mancare.2) Interrogarsi sul ruolo della Sat è una questione di prim’ordine per questa terra che rivendica l’autonomia. Perché l’autonomia si costruisce anche nella piena consapevolezza del proprio territorio e dalla salvaguardia dell’ambiente, si costruisce imparando a non svendere mai nulla per mere questioni turistiche, si consolida nel saper governare e gestire al meglio questa terra di montagna e di confine. La montagna è ambiente, l’ambiente siamo noi. La Sat, insomma, è una colonna fondamentale in questo impegnativo e costante lavoro di attenzione spasmodica ad ogni iniziativa che ci porta fuori dal sentiero.3) Interrogarsi sul ruolo della Sat, al contempo, è fondamentale oggi perché negli anni, negli ultimi anni, la Sat, come tante altre associazioni ambientaliste peraltro, si è un po’ spenta. Ha abbassato il volume.
L’isteria su tanti temi ambientali prosegue senza sosta ma della Sat non si sente la voce. La Sat resta in silenzio. O quasi. Procede lentamente e indefessamente con i volontari nel suo insostituibile lavoro di sentinella dei sentieri d’alta quota. Ma la sentinella, si sa, dovrebbe avvisarci cacciando un urlo, se necessario, di fronte al pericolo. E di pericoli sul versante ambientale ce ne sono tantissimi.Qualcuno ricorda negli ultimi anni degli interventi duri e precisi? Degli ammonimenti importanti? Di fronte all’impazzimento collettivo sui grandi predatori abbiamo avuto prese di posizione particolarmente degne di nota da parte della Sat? E su questi concerti da discoteca con folle oceaniche in quota qualcuno ha alzato la mano, sì, ma poi l’ha subito abbassata, nonostante ormai si tratti di un fenomeno fuori controllo, che sta ricalcando perfettamente la voglia di “riminizzazione” che torna e non abbandona mai gli operatori turistici.
4) Interrogarsi sul ruolo della Sat è fondamentale, per altro verso, anche per capire se la Società è troppo assorbita dalla gestione dei rifugi. E qui entriamo in un capitolo delicato, certo. Perché occorre essere rassicurati che ogni attività culturale, qualsiasi presa di posizione e anche soltanto la voglia di ritornare ad essere pienamente “sentinella” non siano affatto condizionate dalla necessità di ottenere dalla Provincia i fondi necessari per mantenere in ottimo stato i rifugi. Occorre sapere che c’è grande libertà ed autonomia, perché una voce fondamentale per la nostra identità di montagna, di popolo delle terre alte, non può zittirsi. Certo, la Sat non deve assumere tinte troppo forti, non deve divenire un “organo politico”. Ma non può rinunciare a ritagliarsi il suo ruolo, libero e forte, di voce della coscienza, vera “sentinella” della montagna e dell’ambiente.La nuova presidente Anna Facchini è partita subito col tono giusto, annunciando che non si asseconderanno “mode passeggere”. Ora attendiamo i fatti: prese di posizione che ci dicano che la Sat c’è. Altrimenti conosceremo una cronaca sempre più fittà di “helibike”, raduni di trial sotto le vette, gare di quad sui sentieri, concerti metropolitani in quota, in una frenesia totalmente fuori controllo. E, ancora, non udiremo un po’ di saggezza su temi, ormai troppo divisivi, come quelli di orsi e lupi. La Sat ha un ruolo che va ben oltre il non assecondare mode passeggere. E soprattutto non può restare a guardare.

Cara Sat, se ci sei fatti sentire