Da Vinitaly una nuova via cinese alla commercializzazione

Tempo di lettura: 4 minuti

Il vino italiano, Alibaba e il tesoro del mercato cinese

dii Max Bergami* 17 Aprile 2016   Il Sole 24 Ore

AlibabaCome nella favola di Alibaba e i quaranta ladroni, Jack Ma (presidente esecutivo di Alibaba Group), ha promesso di aprire una porta magica a tutti i produttori italiani di vino. Il tesoro è il mercato cinese e la parola chiave è e-commerce, in un’accezione molto ampia che comprende mercati wholesale e retail, digital marketing e sistemi di pagamento, ma anche servizi tecnologici tra cui cloud-based computing, mobile e servizi di rete. Il 9 settembre sarà la giornata del vino italiano su Alibaba, sfruttando l’assonanza nella lingua cinese tra il numero 9 e il vocabolo “vino”, sulla base dell’esperienza del Guanggun Jie (11 novembre), giornata dedicata agli acquisti on line, che ha portato nel 2015 a vendite on line per 14,3 miliardi di dollari in un solo giorno, di cui 9,3 solo su Alibaba.

Al termine della settimana del Salone del Mobile e del Vinitaly, la prospettiva di una partnership tra il Made in Italy e il più grande gruppo al mondo nel campo del commercio elettronico sembra la notizia più interessante. Nel settore del vino, come in molti altri, le imprese italiane faticano a confrontarsi con mercati lontani dal punto di vista geografico o culturale, a causa di limiti strutturali e cognitivi. L’ipotesi di poter utilizzare i canali distributivi di Alibaba, anzitutto in Cina, apre grandi prospettive di crescita, rispetto alle quali è difficile immaginare strategie alternative.

Conosciuta ancora poco in Italia, Alibaba è un’impresa cinese, fondata nel 1999 da 18 persone, salita agli onori delle cronache occidentali nel 2014, in occasione della sua quotazione al Nyse che, con una raccolta di 25 miliardi di dollari, ha infranto tutti i record degli Ipo. Nata con la missione di sostenere le vendite internazionali dei piccoli produttori cinesi, Alibaba è molto diversa dagli stereotipi che la riguardano. Recentemente, alla vigilia di un dibattito pubblico tra Jack Ma e Mark Zuckenberg, Alibaba ha annunciato il proprio ingresso nel campo della realtà virtuale con l’obiettivo di migliorare l’esperienza di acquisto dei suoi 400mila clienti.

Con questo obiettivo, a febbraio Alibaba ha acquistato una quota di Magic Leap (start up americana nel campo della realtà virtuale, valutata 4,5 miliardi di dollari) e a marzo ha dato vita a GnomeMagic Lab, un nuovo centro di R&D con l’obiettivo di sviluppare nuovi servizi di realtà virtuale e aumentata per lo shopping, giochi online e video streaming. Pochi giorni dopo, al Boao Forum for Asia (la Davos asiatica), Jack Ma ha presentato il progetto di una World e-Trade Platform (eWTP) cioè una piattaforma internet che possa funzionare come una Wto virtuale, ma senza le controversie, definendola un’organizzazione che aiuti «l’80% delle imprese e dei paesi in via di sviluppo che non possono partecipare al commercio internazionale», senza porsi in competizione con la Wto ma «provando a distruggere il protezionismo nel commercio».

Di fronte a questa grande opportunità per tutte le Pmi del Made in Italy, è però necessario porsi una serie di domande. La prima riguarda il potere contrattuale derivante da dimensioni così diverse, anche confrontando Alibaba con la più grande impresa vinicola italiana. È necessario che le imprese siano accompagnate in un percorso di questo tipo, al fine di non restare intrappolate se qualcuno dovesse pronunciare le parole «Chiuditi Sesamo!».

In altre parole, è necessario un impegno istituzionale che riguarda il governo, ma anche un’attività di coordinamento e supporto, come quella del team di Vinitaly International guidato da Stevie Kim, che consenta di dialogare con l’interlocutore sulla base di una relazione meno sbilanciata. Se chiunque può aprire un negozio sulla piattaforma di Alibaba, non è automatico realizzare vendite significative.

L’idea portata avanti di Stevie Kim è che l’unico modo per competere con efficacia sia presentarsi come un player autorevole, creando insieme un unico canale del vino italiano. Diversamente il rischio sarebbe quello di muoversi in maniera frammentata e non riuscire a incidere (attualmente la quota di mercato del vino italiano in Cina è pari a 1/10 di quella del vino francese).

La seconda domanda riguarda quale sia il partner adatto per affrontare i nuovi canali. Alibaba si presenta come un player globale che copre molti segmenti, mentre esistono altre imprese nel campo dell’ecommerce pià focalizzate sui brand posizionati sulle fasce alte dei mercati; si tratta della capacità di gestire in maniera integrata il marketing e le vendite on line dei prodotti di lusso, ma allo stesso tempo della capacità di gestire processi logistici efficienti e rispettosi delle caratteristiche dei prodotti. È importante selezionare con attenzione i partner per valutare i percorsi più appropriati per le imprese italiane di fascia alta.

Infine, è necessario chiedersi se il sistema Italia sia in possesso delle risorse umane adeguate a questa sfida. Se si guardano i tassi di crescita delle imprese dell’ecommerce negli ultimi 3 anni e, in particolare, quelli delle vendite effettuate attraverso il mobile, è evidente che la risorsa scarsa è il capitale umano. Da una parte è necessario investire nello sviluppo di percorsi educativi che portino il digitale in tutti i campi del sapere, ma dall’altra è urgente aumentare l’attrattività nei confronti di talenti internazionali e investire in formazione, soprattutto a livello manageriale. Qui sono necessari percorsi innovativi, interdisciplinari ed esperienziali che consentano soprattutto le capacità di gestione dei processi sottostanti queste attività, forse più che lo sviluppo di competenze verticali monoculturali.

Alla fine della storia, chissà chi si terrà il tesoro.

*Bologna Business School,

Università di Bologna

 

 

 

 

 

 

RISCHIO O OPPORTUNITÀ L’accordo apre grandi prospettive di crescita ma è necessario che le nostre imprese non siano lasciate da sole

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il governo umano delle tecnologie

Tempo di lettura: 4 minuti

Luciano Floridi: «Vietare la pubblicità online» Così si ferma il commercio dei dati e il potere di scelta resta ai cittadini, agli utenti

di Chiara Somajni   NOVA24     17 Aprile 2016   Il Sole 24 Ore

La proposta del filosofo Luciano Floridi è radicale: vietare la pubblicità online. «Così staccheremmo il cordone, metteremmo le basi per un mercato competitivo, obbligando aziende come Google e Facebook a rivedere il loro modello di business»: gli utenti, invece di beneficiare dell’odierno “regalo”, solo apparentemente gratuito, in cambio della loro attenzione e dei loro dati dovrebbero pagare per i servizi che intendono usare, e si orienterebbero verso quelli migliori. Direttore della ricerca e professore di filosofia ed etica dell’informazione all’Oxford Internet Institute, membro del Google Advisory Council e da gennaio dell’Ethics Advisory Group europeo, Floridi vede in questa estrema ipotesi normativa una risposta possibile alla concentrazione di potere raggiunto da un numero ristretto di società americane. È la legge a suo avviso l’unico baluardo e i precedenti dell’industria del tabacco, della farmaceutica e dell’alimentare ne dimostrano l’efficacia.

I frightful five, i terribili cinque, come li chiama il New York Times (Google, Microsoft, Apple, Amazon, Facebook), stanno diventando i provider di default di infrastrutture essenziali, in finanza, nella salute, nell’educazione, osserva il critico Evgeny Morozov. Una posizione dominante problematica per il mercato, che danneggia anche i consumatori e l’innovazione. Robert Bernard Reich, docente di Amministrazione e politiche pubbliche a Berkeley, ricorda un rapporto del 2012 su Google realizzato dallo staff della Commissione federale americana per il commercio, la cui raccomandazione di intraprendere un’azione legale contro la società per abuso di posizione dominante non venne raccolta. Cosa alquanto insolita, sottolinea Reich, ma che trova qualche spiegazione nell’attività di lobbying: negli Stati Uniti gli investimenti volti a influenzare i decisori politici da parte delle società tecnologiche competono con quelli dell’industria militare e petrolifera. «Ha potere chi può influenzare le scelte e i comportamenti umani – dice Floridi -. C’è il potere visibile, del monarca, del politico, del dittatore, e quello che di solito è chiamato grigio, il potere di influenzare chi esercita pubblicamente il potere: molto più interessante, perché non è né legittimato né accountable. Questo era esercitato in passato da chi aveva i mezzi di produzione, gli industriali. Lo definisco il potere sulle cose. Nel frattempo era già emerso il potere sulle informazioni sulle cose, esercitato dalla stampa, il cui culmine è rappresentato dallo scandalo Watergate. Oggi siamo arrivati a una terza fase: a prevalere è chi gestisce la produzione delle informazioni sulle cose».

Le implicazioni sono di ordine politico, sociale, etico. Quanto pregnanti e attuali lo evidenziano casi di conflitto tra i diritti alla privacy, alla libertà di espressione e alla sicurezza, tra interessi privati e interesse pubblico. Il contenzioso tra Apple e Fbi, ad esempio: un braccio di ferro che ridotto ai minimi termini può essere visto come il tentativo della società californiana di affermare la propria autonomia, e il proprio potere, rispetto allo Stato, ergendosi a difesa degli interessi degli individui. Con quale legittimazione e quali limiti vadano posti al diritto alla privacy dei cittadini è oggetto di discussione. Ci si schiera a favore di Apple, ma contro chi si è visto esposto dai Panama Papers, facendo una distinzione tra good guys e bad guys difficile da argomentare dal punto di vista del diritto, osserva l’avvocato David Allen Green sul Financial Times: in entrambi i casi, c’è un provider commerciale che offre un servizio per il quale i clienti si aspettano la sicurezza dei dati cui si contrappone un interesse pubblico. Sul piano della legittimazione, un potere per sua natura non accountable, basato su contratti poco comprensibili all’utenza e spesso modificati, il cui perno è la fiducia. Ma se Facebook può indurre gli utenti ad andare a votare, chi assicura che il suo invito non sia rivolto a un target di parte, come paventa Martin Moore, direttore del Media Standards Trust? L’esperimento condotto da Facebook nel 2012 per verificare l’influenzabilità dell’umore degli utenti è di per sé un inquietante precedente. Per Floridi c’è da attendersi che il contenzioso tra big tech e autorità pubblica salga di grado, fino a investire i governi eletti.

In che misura società tecnologiche dalle ambizioni imperiali, per riprendere la penultima copertina dell’Economist, abbiano interesse a difendere la privacy dei cittadini è pure questione dubbia, considerato che sul riuso dei dati a fini commerciali si fonda il loro successo economico. Per Morozov ci vorrebbe una Bbc dei dati, un servizio pubblico dove raccogliere i contenuti scollegati dagli identificativi personali, a tutela degli utenti e a beneficio dell’innovazione e della concorrenza. L’emergere di soggetti come Telegram, che sfida WhatsApp/Facebook garantendo privacy e sicurezza, va in questa direzione.

«In gioco – sostiene Floridi – c’è il progetto umano: vogliamo che sia politico-sociale o commerciale?». Al di fuori degli Usa la resistenza al monopolio di big tech è più marcata, Europa in testa, con risultati come il diritto all’oblio imposto a Google o la legge per la protezione dei dati personali appena approvata dal Parlamento europeo, apprezzata da Floridi come «un passo fondamentale, che spero contribuirà a ricollocare le persone e i loro diritti al centro del progetto socio-politico, offrendo all’Europa la leadership etico-legale in questo ambito». Ma è disarmante, osserva Floridi, che sia proprio l’Europa a definire i cittadini data subjects, invece che persone: della portata culturale che questa deviazione linguistica tradisce, ormai neppure ci rendiamo conto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Una nuova strategia italiana per l’Europa

Tempo di lettura: 2 minuti

Migranti, banche e conti pubblici: ora Roma parla alla Ue con i documenti

Beda Romano   17 Aprile 2016Il Sole 24 Ore

La settimana appena trascorsa ha visto il governo italiano intervenire tre volte in ambito europeo. Non con l’ennesima intervista giornalistica o l’ennesima battuta pubblica, ma con tre iniziative e tre documenti che hanno il merito di restare agli atti. Coincidenza del destino? Forse. Fatto sta che in questi giorni qui a Bruxelles l’Italia appare proiettata nel medio-lungo termine, e soprattutto preoccupata ad avere una strategia politica, più costruttiva e meno estemporanea. Due in particolare i fronti aperti dal governo italiano: la politica migratoria e la politica economica. Sul primo fronte fa testo naturalmente il piano strategico presentato venerdì, tutto basato sulla consapevolezza che la dimensione esterna dell’Unione è decisiva per la tenuta interna della stessa Unione. L’iniziativa non è una proposta legislativa da prendere o lasciare; piuttosto è un elemento per alimentare il dibattito comunitario in un contesto politicamente delicato. Sempre su questo versante, e con l’obiettivo proprio di difendere la tenuta interna dell’Unione e soprattutto il futuro dello Spazio Schengen, martedì i ministri degli Esteri Paolo Gentiloni e degli Interni Angelino Alfano hanno chiesto con una lettera congiunta inviata al commissario all’Immigrazione Dimitri Avramopoulos di verificare urgentemente se l’Austria, nell’imporre maggiori controlli al Brennero, stia violando le regole europee, con misure non necessarie e sproporzionate.

Sul fronte di politica economica, la settimana è stata segnata da una iniziativa franco-italiana nella quale Parigi e Roma propongono, in linea peraltro con antiche proposte dell’establishment comunitario, di rafforzare il nuovo Fondo unico di risoluzione bancaria con un prestito del Meccanismo europeo di Stabilità. Da Berlino ieri si rumoreggiava: «Non vi sarà ulteriore condivisione dei rischi senza una significativa riduzione dei rischi» nei bilanci bancari, ha spiegato un portavoce tedesco. Pochi giorni prima, il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan si era associato ad altri sette ministri delle Finanze della zona euro per chiedere alla Commissione europea modifiche temporali alle previsioni sull’output gap, vale a dire la differenza tra crescita potenziale e crescita effettiva, un criterio con il quale viene calcolato il deficit strutturale di un paese. La richiesta è molto tecnica, e potrebbe non essere soddisfatta, ma ha certo una sua valenza politica.

È ancora presto per valutare pienamente la strategia italiana. Sarà il tempo a dimostrare se sarà segnata da costanza e coerenza (due qualità non proprio nazionali). Si intravede però il tentativo di cambiare registro. Dimostrare un atteggiamento più fattivo, meno sfilacciato. La trattativa diplomatica a Bruxelles è naturalmente scivolosa, fatta di alleanze effimere e veti temporanei. Dichiarazioni scritte hanno il merito di impegnare sia il destinatario, che il mittente.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Gianroberto e noi

Tempo di lettura: 10 minuti

Il grillismo, fase adolescenziale della cittadinanza digitale

 Cittadinanza digitaleIl Carosello informativo sul Referendum farlocco ha determinato una rapida archiviazione della prematura dipartita di Gianroberto Casaleggio.

Ciononostante, ritengo sia utile tornare a riflettere sui toni e sugli argomenti che su di essa i media italiani hanno usato: sono riusciti – anche nel caso di un tal evento traumatico e doloroso – a dare una dimostrazione di approssimazione e superficialità nell’informazione….

E’ così successo che, tra un oroscopo di Ilvo Diamanti (che insiste nella caccia alle farfalle delle previsioni elettorali) ed un editoriale rancido di Ernesto Galli Della Loggia (con cui conferma che uno storico dovrebbe essere più cauto nelle valutazioni sull’attualità politica – anche se già la sua passioncella senile manifestata per il successo elettorale del M5S era stato un indizio di scarsa lungimiranza), ci siamo dovuti trangugiare anche una serie di “omaggi” al leader del M5S, in cui superficialità, retorica e misconoscenza hanno di fatto contribuito ad alimentare ulteriormente la nebbia esoterica che circonda la vicenda grillina e il “Sacro Blog”, la magica Piattaforma (che ora è diventata “Rousseau”) centro nevralgico intorno a cui ruota la strategia organizzativa del Movimento.

Visionario, profeta incompreso (da chi!? ), testa pensante al confine più avanzato tra scienza e modernità…: aggettivi roboanti ed attribuzione di ruoli immaginati da giornalisti abituati ad attingere alla fantasia piuttosto che a documentarsi.

In questo modo la novità della fenomenologia politica grillina, con la complessità di un processo storico in cui si sommano e s’intrecciano protagonismi, idee-valori e contraddizioni, invece di essere analizzata con rigore e profondità, è diventata l’occasione per la ricerca del “colore”, dell’aneddoto, dell’aspetto biografico saliente per la costruzione del personaggio misterioso, con le caratteristiche – va da sé –   del guru: il soggetto predestinato a ispirare e guidare un popolo di lemming, piuttosto che una figura aderente ad una personalità (quale era) semplice, timida, ma – nell’ambito del suo mestiere – capace e determinata.

Tra i molti articoli e commenti che, invece, hanno tentato di focalizzare i meriti e la funzione reale esercitata da Casaleggio, segnalerei da un lato quello rimasto con “i piedi per terra” : Il sociologo delle reti di Daniele Bellasio de Il Sole m24 Ore

http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2016-04-13/il-sociologo-reti-073901.shtml?uuid=ACbUIe6C

 

e dall’altro, quello che mi ha suscitato maggiore curiosità, ovvero il post di Patrizio Donnini nel quale, dopo aver espresso un giudizio pacato, viene formulato un interrogativo intrigante (“È la politica che orienta la comunicazione o è la comunicazione che detta le leggi alla politica? Oggi se ne va un uomo che avrebbe da dire ancora tanto in merito, di cui molto spesso non ho condiviso né i toni né le battaglie, ma di cui non posso non riconoscere il valore come comunicatore e la sua straordinaria capacità nel dare vita – in un paese immobile come il nostro – a un nuovo partito/movimento. Non ho avuto il piacere di conoscerlo ma la domanda che gli avrei fatto sarebbe stata “Perché hai scelto proprio Beppe Grillo?” Una risposta che non avrò.”)

Ebbene, tale interrogativo è sicuramente interessante e merita di essere affrontato – soprattutto all’interno del Partito Democratico; per parte mia, proseguendo nella riflessione avviata con precedenti interventi, cerco di dare una parziale risposta, corredandola di alcune rapide annotazioni sul significato e sull’eredità del lavoro del co-Fondatore del M5S.

Egli va innanzitutto ricordato come un onesto ed appassionato Perito informatico che, nel corso di una vita professionale dedicata alla programmazione e ad osservare da vicino gli effetti sociali della rivoluzione digitale, ha incrociato dapprima Antonio Di Pietro (nella funzione di leader “padrone” di Italia dei Valori) e successivamente Beppe Grillo (nella versione di comico fustigatore del ceto politico nonché protagonista del travolgente spettacolo dei V Day).

A questi due rappresentanti del neopopulismo nostrano (il primo in fase declinante ed il secondo in piena ascesa nel ranking della popolarità) è riuscito ad “inoculare” il linguaggio del web, ma soprattutto la progressiva consapevolezza dell’esistenza di un bacino sotterraneo formato da due vaste platee di cittadini elettori formate, una prima dai fuoriusciti delusi dal perimetro tradizionale della vita politica ed una seconda – in formazione – costituita dal popolo dei Giovani in sofferenza, immersi nella crisi di prospettive ed orientati a praticare il conflitto sociale privilegiando la blogosfera come spazio di relazione ed aggregazione.

La pazienza e la determinazione di Gianroberto sono stati davvero efficaci, ma il motore decisivo nell’attivazione dapprima della mobilitazione (attraverso i Meet up ed i V Day) e successivamente nella creazione e promozione di M5S (attraverso il Blog) è sicuramente stato Beppe Grillo, la cui ultradecennale “militanza” di comico anticasta è diventata un propellente micidiale nel creare un nuovo messaggio politico con il quale irridere ed aggredire polemicamente l’intero ceto politico, ma soprattutto suggestionare un vasto pubblico con la proposta di azzerare la distanza politica tra istituzioni e rappresentati attraverso una versione accattivante e semplificatoria della democrazia diretta praticata con i socialnetwork.

Tale operazione è sfociata nel successo elettoraledel 2013 che è stato reso possibile ed ha assunto proporzioni debordanti perché s’è trovata di fronte una nomenclatura partitica non solo delegittimata, ma soprattutto priva:

  1. della capacità di interpretare il malessere e le conseguenze sociali della crisi economico-finanziaria accentuatasi dal 2007
  2. Inoltre, mancante delle strutture organizzative aperte ed in grado di dialogare ed interagire con i ceti popolari portatori di nuove istanze etiche veicolate attraverso le nuove agorà digitali di partecipazione e socializzazione.

Per comprendere il livello di sfasatura – lontananza dei Partiti tradizionali dall’elettorato (clamorosamente evidenziato dal 25 % dei voti andati al M5S) segnalo un denso ed illuminante articolo di Aldo Schiavone (Serve una guida politica al nuovo individualismo fragile ma creativo) nel quale si sostiene che “L’Italia è il Paese dell’Occidente sul quale la rivoluzione del lavoro ha avuto l’impatto più travolgente. Dietro la maschera del populismo ci sono cambiamenti che vanno capiti per affrontare al meglio le sfide del futuro

http://www.corriere.it/opinioni/16_marzo_30/serve-guida-politica-nuovo-individualismo-fragile-ma-creativo-87d94730-f5cc-11e5-a42a-1086cb13ad60.shtml

e l’agile libretto di Paolo Mancini IL POST PARTITO. La fine delle grandi narrazioni, nel quale vengono messi a nudo i limiti ed i ritardi strutturali – in termini di linguaggio e procedure di coinvolgimento – delle Organizzazioni politiche affermatesi nel ventennio della Seconda Repubblica.

Ma ancor più evidente appare il gap se si ripercorre rapidamente l’ultimo decennio della vita politica italiana focalizzando i contenuti progettuali, le proposte e le sperimentazioni che, vanamente, da più parti e da molteplici soggetti, sono state elaborate e realizzate allo scopo di orientare le Istituzioni (in particolare a livello territoriale) ed i Partiti a prendere atto dei profondi mutamenti intervenuti con l’avvento dell’ICT (eDemocracy, eParticipation) e adottare nuovi modelli di coinvolgimento-consultazione dei cittadini resi praticabili dalla rivoluzione digitale.

In Toscana, Puglia, Emilia Romagna e Veneto si è assistito (dal 2004 in poi) ad un fiorire di iniziative portatrici di una nuova ventata di innovazione sociale    e di spinta al cambiamento della cultura organizzativa dei Partiti e delle Istituzioni.

Solo per restare al Veneto, ne rappresentano una documentazione inequivocabile due testi ai quali rinvio:

  • L’evoluzione dei modelli e delle tecnologie per la partecipazione. L’esperienza del Consiglio regionale del Veneto

 

http://www.marsilioeditori.it/libri/scheda-libro/3170625/l-evoluzione-dei-modelli-e-delle-tecnologie-per-la-partecipazione

  • L’onda di Civil Life. Una nuova didattica della cittadinanza attiva

 

http://www.marsilioeditori.it/ebook/libro/3170843-londa-di-civil-life

 

Non vi sorprenderà sapere – ma dovrebbe scandalizzarvi – che tutta la vasta “mobilitazione dal basso” per avviare un processo di rigenerazione della partecipazione democratica, ha trovato negli apparati e nelle Rappresentanze partitici, un autentico muro di gomma, risultante da un concorso di cause: pigrizia, autoreferenzialità, analfabetismo digitale, incomprensione   delle trasformazioni socioeconomiche in atto.

E’ così successo che molta parte delle energie e pulsioni che covavano sotto la superficie di un sistema bloccato nella disputa faziosa tra berlusconiani ed antiberlusconiani, ha trovato modo di esprimersi ed essere canalizzato nel “contenitore” elaborato e realizzato dalla Casaleggio & Associati

Se questa è una verosimile –seppur tracciata sommariamente – ricostruzione della la storia recente, è ora necessario guardare dentro la realtà composita costituita dall’eredità che Gianroberto ha lasciato al suo Movimento.

    1. Il primo aspetto da chiarire è rappresentato dalla colossale aporia con cui – ora – M5S dovrà fare i conti; accertato che il coFondatore si è guadagnato un posto nella storia della Rete, a lui verrà anche addebitata la responsabilità di una “distorsione ideologica e procedurale”, avendo abusato del mito della democrazia diretta per ottenere un autentico successo elettorale attraverso un controllo organizzativo top down. Con effficacia espressiva, Mauro Calise ha parlato di “centralismo cybernetico” per definire “una gestione poco trasparente, affidata a una società privata, che però ha reso possibile convogliare le spinte partecipative dal basso in un meccanismo sia rappresentativo sia decisionale funzionante” (l’Unità, 13 Aprile)
    2. La discussione avviata già il giorno del funerale sul rapporto intercorrente tra Casaleggio & Associati e Movimento per quanto attiene la gestione proprietaria della Piattaforma ROUSSEAU, non riguarda un Commercialista ed il Direttorio bensì l’intero Movimento ed il popolo di cittadini che vi ha riposto la propria fiducia: l’anomalia di un “passaggio di consegne” tra il padre Gianroberto ed il figlio Davide, non potrà essere camuffato a lungo ed è prevedibile che tale questione inneschi un (salutare) conflitto per la trasparenza ed una governance non familistica del Movimento
    3. All’interno di questa tensione, resta tutto da comprendere e valutare lo scandalo sopito e non (ancora) affrontato del Server di posta elettronica del Gruppo parlamentare grillino violato dai tecnici incaricati della Casaleggio & Associati
  • Ma la contraddizione più esplosiva, destinata a segnare l’evoluzione del M5S, è propriamente l’incidenza che il lascito ideologico di Gianroberto avrà sulla subcultura politica dei leader e dei militanti; fatto salvo il rispettabile ed ammirevole richiamo al principio ispiratore dell’onestà, è inverosimile ed irrealistico che il mondo favoleggiato di Gaia (aggiornato dal libretto del figlio Davide Tu sei rete) possa costituire un ancoraggio credibile e duraturo per un Movimento che dovrà necessariamente misurarsi con le sfide del governo del territorio, ovvero un magma di problematiche concrete e dilemmi socio-culturali diametralmente opposto alla vita despazializzata immaginata attraverso una lettura ingenua e fuorvinate del libro di Nicholas Negroponte Essere digitali

 

  1.  
  2. La tentazione, già manifesta e presente, in particolare nei Gruppi parlamentari che – coadiuvati dal sistema acondiscendente dei media – si sono “inceloffanati” nella loro autoreferenzialità contro tutto e contro tutti, è la costruzione mentale della cittadella assediata dagli impuri e la progressiva autosegregazione come Terzo Polo indisponibile a misurarsi con le mediazioni ed ossessivamente impegnato a diffondere uno sterile messaggio populista.
  3. Il rischio di non investire la propria rappresentatività nel gioco politico-parlamentare e nel condizionamento delle scelte di riforma e cambiamento in corso, potrebbe essere accentuato se la presunzione e l’impotenza si saldassero con il neomovimento giustizialista promosso da quei segmenti della Magistratura (in primis Magistratura Democratica) desiderosi di intestarsi la battaglia per la conservazione e la difesa corporativa della Costituzione e ben lieti di poter disporre di megafoni e galoppini delle Procure, utili idioti da usare contro le Rappresentanze politiche democratiche in una (folle) competizione tra legalità e libertà.

La situazione prefigurata, con il possiile impasse strategico-operativo di M5S, seppur accompagnato dalla persistenza di un’elevata “quotazione” elettorale e da qualche successo a livello amministtativo-locale, è uno scenario da non augurarsi, perché introdurrebbe ulteriori elementi di ingovernabilità in un contesto che – di fronte alle sfide epocali in corso (riforme costituzionali e risanamento economico-finanziario, rilancio Progetto Europa, immigrazione, terrorismo) richiedono il concorso di tutte le forze politiche.

Un dato politico è sicuro: con il M5S bisogna instaurare un rapporto franco, duro e leale, bandendo ogni approccio ruffiano e/o di sottovalutazione dei principi e delle impostazioni programmatiche che ne contradddistinguono la mission, sin dal suo apparire sulla scena politica.

Ciò significa attrezzare il PD ad una competizione esplicita su tutti i versanti del campo politico in cui sono in gioco temi “popolari” per i quali alla visionarietà e demagogia bisogna saper contrapporre la concretezza e

l’efficacia delle soluzioni praticabili: dalla sostenibilità delle scelte di sviluppo al reddito di cittadinanza, dalla riorganizzazione della PA e delle Partecipate alla riformulazione del Patto di Unione Europea, dalla drastica riduzione della pressione fiscale all’efficientamento della Spesa pubblica, dalla emergenza dell’occupazione giovanile al pieno sostegno della progettualità per l’affermazione del Made in Italy, dalla piena attuazione del Programma per la Buona Scuola all’aggiornamento del modello di Ricerca e del suo rapporto con il istema delle Imprese…

Sono i contenuti il terreno di confronto e scontro sul quale bisogna sfidare i Casalegggio boys, allo scopo di sgonfiarne la retorica e sottoporre la loro reale volontà di dare un contributo al cambiamento, alla prova della democrazia rappresentativa la cui vitalità e rigenerazione costituiscono l’antidoto decisivo per demistificare l’aleatorietà, supponenza ed inconcludenza della vagheggiata democrazia diretta dei cittadini.

Ma c’è un passaggio cruciale, una precondizione per rendere credibile e vincente tale strategia aggressiva, concorrenziale e vincente.

Innanzitutto bisogna premetttere che essa non pone l’obiettivo dell’ammiccamento con i vertici grillini, bensì mette in palio il recupero di credibilità e consenso nei confronti di un elettorato che si è fatto affascinare dal messaggio grillino ed attrarre dalla Rete casaleggiana, per superare la delusione e surrogare la frustrazione provocate dall’irresolutezza decisionale, dalla debolezza etico-valoriale e progettuale dei numerosi leader bolliti della Seconda Repubblica.

E’ quindi giustificata la discussione interna per rigenerare il Partito Democratico e liberarlo degli zoombie che si ostinano a pensare il futuro con i paradigmi culturali ed organizzativi di un passato ideologico remoto: l’occasione immediata e propizia per un confronto chiarificatore è costituita dal Progetto di Legge per la riforma dei Partiti che può consentire sia il confronto in casa che la comparazione con il modello del M5S, sollecitato anche per questa via ad adottare delle regole che lo sottraggano alla gestione “proprietaria” che l’ha finora contraddistinto.

L’ulteriore e decisiva occasione è data dalla opportunità di cogliere nell’esperienza di Gianroberto Casaleggio la lezione e le indicazioni che ne possono derivare per rivitalizzare la vita interna del Partito, in particolare la struttura dei Circoli che proprio con un adeguato supporto della Rete potrebbero diventare spazio e strumento per quella indispensabbile “mobilitazione cognitiva” necessaria per ricomporre il “Triangolo rotto: Partiti, Società, Stato” di cui hanno parlato Fabrizio Barca e Piero Ignazi.

Imbocccare queste strade significa prendere atto che la rivoluzione digitale da fenomeno spiazzante per le forze politiche tradizionali e potenzialmente divisivo nella sua gestione centralistica ed autocratica, può diventare la leva per rinvigorire la partecipazione democratica.

La “versione digitale” del Partito Democratico potrebbe-dovrebbe diventare un modello di cittadinanza consapevole, responsabile, solidale, che supera la stagione dell’adolescenza grillina, adottando tecnologie e metodologie che alimentano la riflessità, la mutua comprensione, un’interattività finalizzata ad accrescere le competenze e l’intelligenza colletttiva, indispensabili per orientare i processi decisionali verso gli interessi generali delle Comunità e dell’intero Paese.

Credo che il mite Gianroberto non si adonterebbe se vedesse il suo “giocattolo” rivisitato criticamente con l’entrata in campo di un PD 4.0.

A ben vedere, lui ha ideato, realizzato e difeso la sua “creatura” da buon artigiano affascinato dal web e dalla possibilità di usarlo per sottrarre le relazioni sociali e politiche all’intermediazione di molti “parassiti” disattenti all’interesse generale, e dentro di sé si sentirebbe gratificato nel vedere attuato il disegno di una comunità più vasta dialogante ed operante in Rete, potendo affermare: sono stato io ad indicarvi la strada!

 

Sul tema della disruption digitale e dei nuovi modelli di cittadinanza rinvio anche a due mie Presentazioni in PowerPoint:

 

Web 4.0Questa ulteriore fase del Web dovrebbe integrare pienamente le due fasi precedenti per realizzare un Web Ubiquitous: in pratica le applicazioni presenti sul Web avrebbero lo scopo di mettere in connessione in modo automatico le persone (così come il Web semantico mette in connessione in modo automatico i contenuti), sulla base delle attività che stanno svolgendo, per aiutarle a collaborare e raggiungere scopi condivisi mettendo insieme le loro risorse e le loro competenze. Si tratterebbe quindi di un Web pienamente integrato con la realtà fisica, al servizio delle relazioni, per moltiplicarle e potenziarle. Un aspetto importante dal punto di vista tecnologico è la diffusione delle tecnologie wireless che possono consentire effettivamente alle persone di essere sempre online in qualsiasi luogo e in qualsiasi momento.

L’idea fondamentale in questo tipo di evoluzione è che il Web diventi sempre più uno strumento di servizio per aiutare le persone a raggiungere i loro obiettivi (conoscenza, lavoro) sfruttando l’enorme patrimonio di risorse che deriva dall’essere in rete: non solo risorse “statiche” (contenuti) ma sempre di più “intelligenze”

 

Tratto da:     http://www.didael.it/sito/blogdida/?p=13

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Se l’intelligenza è una proprietà umana il pc potrà solo imitarla

Tempo di lettura: 3 minuti

di Francesco Varanini NOVA24   Il Sole 24 Ore   10 Aprile 2016

Macchine per pensareCosa vuol dire Supercomputer? Più che spiegare di cosa si tratta, la propaganda punta a ricordare che Watson ha sconfitto di fronte alle telecamere esseri umani a Jeopardy!, che sarebbe Rischiatutto. Di lì si passa direttamente a dire che Watson sostituirà vantaggiosamente medici nel fare diagnosi e direttori del personale nello scegliere i talenti, nel premiare e punire e nel descrivere il clima aziendale. Finalmente con Watson, questo campione dell’Intelligenza artificiale, le decisioni saranno depurate dalla distorsione umana. È questo il futuro che vogliamo?

Cosa è, del resto, l’intelligenza? Proprietà strettamente umana, l’intelligenza è, alla lettera, inter ligere, “leggere tra le righe”. Ora, non è possibile programmare la macchina affinché essa legga tra le righe. Leggere tra le righe vuol dire andare al di là di una qualsiasi programmazione. Se l’intelligenza è una proprietà umana una macchina non potrà possederla, potrà solo imitarla. Però: Crozza è abilissimo, ma non è né Renzi nel quel tal chef. Vogliamo sostituire l’uomo con una sua imitazione, con un simulacro? Oggi molti degli sforzi di chi opera nel campo dell’Intelligenza artificiale si volgono nella direzione di simulare nella macchina un’apparenza umana: macchine ci parlano con una voce che sembra umana; macchine sembrano rispondere in modo sensato a nostre domande; macchine hanno un aspetto antropomorfo. Molti si soffermano a osservare come noi esseri umani ci caschiamo, emozionandoci e interagendo con la macchina come se fosse un essere umano. Ma la domanda importante è un’altra: perché ingannare l’uomo? In fin dei conti, l’uomo interagisce senza problemi con cani e gatti e altri esseri viventi riconoscendoli diversi da sé. E interagisce anche con macchine che appaiono agli occhi degli esseri umani senza infingimenti in quanto macchine.

Ci sono poi i ricercatori che perseguono il progetto di creare macchine in grado di apprendere e di autosvilupparsi. Queste macchine, se il progetto avrà successo, se ne fregheranno di apparire simili all’uomo, di imitare l’uomo. Imporranno all’uomo la loro diversità. Non basta firmare qualche petizione per vietare ad esempio lo sviluppo e l’uso di soldati robot. Ogni ricercatore dovrebbe chiedersi se vuole giocare a essere il demiurgo, il creatore di nuovi mondi e nuovi esseri, o se sceglie di stare dalla parte degli esseri umani. Intanto io, come altri essere umani, mi preparo a vivere in un mondo popolato da macchine. Il modo per prepararsi è: assumersi la responsabilità di usare appieno la propria intelligenza umana.

Si dice anche: l’Intelligenza artificiale oggi non è più quella di una volta, quella che pretendeva di sostituire l’uomo. Si dice: noi informatici oggi non facciamo altro che rendere più fruibili le grandi masse di dati prodotti dall’uomo, le grandi masse di conoscenze umane.

Giusto: servono macchine che ci accompagnino nell’utilizzare efficacemente ciò che l’uomo stesso ha generato, e che oggi si tende a chiamare “saggezza della folla”. Ma anche qui siamo di fronte a un confine sottile. Se ci fidiamo dell’essere umano, metteremo grandi masse di conoscenze in mano al medico, acciocché possa fare migliori diagnosi, o in mano al direttore del personale, affinché scovi e valorizzi i migliori talenti. Purtroppo l’informatico non si fida dell’umana capacità di connettere indizi, scoprire soluzioni, decidere tempestivamente. Crede necessario sostituire il lavoro della mente umana con un algoritmo predittivo.

Ascoltate questa storia: negli Anni Venti si coltivò un importante progetto di valorizzazione della “saggezza della folla”. La rivista Black Mask, diretta da Joseph Cap Shaw perseguiva un preciso disegno. Educare le folle a muoversi in un contesto di complessità, assumendosi la responsabilità di trovare soluzioni. Il campione di questo atteggiamento è l’investigatore privato, protagonista delle narrazioni della rivista: caso esemplare il Philip Marlowe di Chandler. Ma poi, nel decennio successivo, persa la fiducia nella capacità popolare di prendere decisioni, il campione cambia. In luogo dell’investigatore Chandler, il supereroe dotato di superpoteri: Superman. Ecco: oggi, invece di coltivare l’umanità, qualcuno preferisce affidarsi a Watson, Supercomputer.

Reimpaginare la comunicazione

Tempo di lettura: 6 minuti

ANEMIA CULTURALE, DEBOLEZZA NARRATIVA, ENTROPIA POLITICO-ORGANIZZATIVA: I TRE (VERI) NODI CHE L’ASSEMBLEA REGIONALE PD DEVE SCIOGLIERE

DissolvenzaParafrasando l’affermazione di Roger De Menech nel commentare la debacle elettorale e (di fatto) congelare il Congresso regionale – necessario per sostituirlo alla guida del Partito – si può dire che nei nove mesi trascorsi dalla pronuncia della fatidica frase, è andata in scena la commedia del “tutti senza tutti”.

Credo che, ovviamente, egli fosse in buona fede, quando proponeva di affrontare lo shock evitando gli scossoni delle faide interne; ma la sua posizione costituiva una lettura miope e colpevole della situazione:

  1. perché sopravvalutava la funzione terapeutica che la trazione renziana della politica economica nazionale poteva esercitare (meglio, surrogare) per la legittimazione del PD in Veneto;
  2. e, soprattutto, sottovalutava il livello di insufficienza strutturale di un Partito che si presentava: anemico sul piano -culturale, privo di una strategia di comunicazione e di un linguaggio caratterizzanti, rattrappito da una gestione unitaria connotata da un velo di ipocrisia che mascherava (ed ha continuato ad occultare) le linee di frattura tra vecchie appartenenze e le diverse interpretazioni del rapporto tra periferia e centro.

La contraddizione mortifera che l’Assemblea regionale convocata per sabato 9 aprile deve affrontare è ora la seguente: esiste una diffusa consapevolezza, soprattutto tra gli iscritti e gli elettori veneti, dello stato febbricitante del Partito regionale (inteso nel suo insieme), ma non emergono posizioni, indicazioni, polemiche esplicite che indichino terapie efficaci, evidenzino l’esigenza di una discontinuità nella governance.

Sulle ragioni e sui contenuti di tale necessario processo di rigenerazione mi sono già espresso ripetutamente e pertanto rinvio ad alcuni degli interventi con i quali ho inteso contribuire ad alimentare una riflessività critica e formulare delle proposte operative:

http://www.slideshare.net/dinobertocco1/ilvenetochevogliamob?qid=e0b85842-760e-4ce2-85c6-415e2e2980b6&v=&b=&from_search=4

https://www.dinobertocco.it/il-sentiment-democratico-dei-veneti/

https://www.dinobertocco.it/salviamo-il-soldato-roger-e-rigeneriamo-il-pd-veneto/

Reimpaginare la Comunicazione

 

Aldilà, però, dei miei opinabili suggerimenti e delle stesse scelte, relative alla guida del Partito, che verranno assunte, è giusto attendersi dai Membri dell’Assemblea regionale che affrontino l’improcrastinabile esigenza di reimpaginarne i contenuti progettuali e la governance, a partire dalle modalità di gestione della Comunicazione “istituzionale”: essa rappresenta infatti uno strumento decisivo per la rivitalizzazione dei processi di partecipazione interna e di interfacciamento più dinamico, trasparente e coinvolgente con i cittadini e l’opinione pubblica.

Siamo prepotentemente entrati in una temperie da “guerricciola civile” in cui la metastasi del linguaggio politico e lo squadrismo digitale debbono essere affrontati e contrastati con strategie di informazione supportate da tecnologie, metodologie e narrazioni innovative.

Nella degenerazione della competizione politica   il gioco sporco dei Salvini e Casaleggio boys (ma anche degli aspiranti leader antirenziani di casa nostra), dovrà essere smascherato e sbugiardato con la capacità di veicolare autonomamente informazione pulita e di creare climax favorevoli alle scelte ed alle battaglie riformiste del PD.

Sui molti fronti aperti con le iniziative per rafforzare il processo di crescita e sviluppo (si pensi alla querelle di questi giorni sulle Trivelle, nella quale il populismo di qualche ex magistrato in cerca di visibilità si manifesta attraverso la manipolazione argomentativa) le scelte e le posizioni dovranno essere sempre più sostenute dalla elaborazione autonoma di contenuti e dalla loro discussione & comunicazione, senza che esse siano intermediate da un giornalismo arruffone e da talk show che alimentano il qualunquismo e l’antipolitica.

Per queste ragioni, la prima operazione da mettere all’ordine del giorno è il restyling del sito regionale del Partito, attualmente caratterizzato da un “abito” fortemente istituzionale, ovvero con una struttura comunicativa I cui principali riferimenti di persone e di contenuti riguardano gli organismi e i programmi del governo regionale.

Tale impostazione burocratica si evidenzia sia nella scelta delle immagini e dei simboli che nell’organizzazione dei contenuti cosicché vi traspare un tono dirigistico di vecchio conio che risulta sterile rispetto alla necessità di costituire il punto di riferimento aperto e dialogico con tutti gli aderenti e simpatizzanti al partito.

Nell’unica finestra di dialogo presente, si chiede all’interlocutore di “raccontare una storia o una esperienza”: con ciò si intende consolidare i programmi presentati sul sito, instaurando un rapporto comunicativo che evidenzia la posizione di ascolto mettendo in scena una sorta di confessionale laico: “noi restiamo in ascolto, garantendoti la massima privacy” (!?).

Non c’è e non è prevista una situazione di confronto di gruppo; in questo modo viene a mancare completamente una visione di apertura ed un messaggio di comunità che promuove la partecipazione e la cooperazione nella elaborazione dei progetti, prevedendo gli strumenti che possano consentire situazioni di condivisione, di proposta, di confronto.

La Presentazione dunque si risolve in una monade chiusa alla interlocuzione con la realtà viva dello stesso Partito nel territorio e con la molteplicità dei soggetti sociali, culturali, amministrativo-istituzionali interessati ad entrare in relazione.

Il Programma tocca alcuni temi della politica nazionale che sono però esposti in modo abbastanza generico, senza entrare nel merito delle specifiche situazioni riguardanti la Regione. Anche le slide dedicate al “Cantiere veneto” sono abbastanza superficiali e focalizzate sull’Ente regionale, ma con indicazioni che hanno più il carattere di slogan che di percorsi programmatici finalizzati alla riflessività ed all’approfondimento.

Alle Aree provinciali sono dedicate informazioni scarne e poco aggiornate; se ne può dedurre che si tratta di spazi del sito non particolarmente curati.

Insomma, il ”messaggio” che www.partitodemocraticoveneto.org invia ai visitatori è l’assenza di attenzione nei loro confronti ed il manifesto disinteresse a coltivare un rapporto con gli interlocutori.

La domanda che i futuri responsabili del Partito regionale si dovranno porre è: chi possono essere i nostri interlocutori? Con chi di essi vogliamo avviare un dialogo?

Detta molto prosaicamente: qualsiasi comunicazione orientata alla promozione deve tenere presente il target e gli interessi rappresentati dal target. Di questa elementare regola dell’attività informativa, nel sito del PD non esiste nemmeno l’ombra!

Il coinvolgimento e la partecipazione, che costituiscono una leva essenziale per la rigenerazione del Partito, vanno realizzati anche strutturando spazi di attività riservata a Gruppi di lavoro su temi specifici che possano riguardare sia il policy making che issue-progettualità di ampio respiro e/o oggetto di diverse visioni.

Si potranno, per esempio, indicare alcune linee programmatiche su cui il Partito sollecita la riflessione e sulle quali saranno fornite schede descrittive, predisponendo i Forum nei quali ed attraverso i quali si svilupperà la discussione e prevedendo che il dibattito e lo scambio dei contenuti e dei documenti sia riservato a chi si iscrive e dimostra un reale interesse per l’iniziativa.

Si potranno-dovranno altresì presentare contenuti formativi e informativi strettamente correlati alla congiuntura politica (come per esempio sta avvenendo per il decisivo appuntamento del Referendum per le Riforme Costituzionali).

Per concludere: senza riaprire il capitolo sul “modello organizzativo di Partito” (che ho affrontato in un precedente intervento) e le polemiche interne su declino del tesseramento & dintorni, è il caso di ricordare che le strutture partitiche del passato erano pensate e gestite (anche) per consentire l’incontro delle persone, scambiare idee ed opinioni sulle questioni amministrativo-locali, alimentare un sistema di conoscenze e condivisione attraverso cui le identità e le convinzioni si consolidavano o aggiornavano.

Ebbene, il fatto straordinario e la risorsa decisiva (ancor più della nomina del nuovo Segretario regionale) di cui il PD veneto deve prendere atto è che oggi le Tecnologie di Rete e la Rivoluzione digitale mettono a disposizione gli strumenti ed il contesto che possono ricreare il clima favorevole al coinvolgimento ed alla condivisione.

Diversamente dal Movimento 5 Stelle che ha “bruciato” l’esperienza e le opportunità dei Meet up con la deriva populistica e dirigistico-proprietaria della Casaleggio & Associati, un Partito che si dichiara democratico ha il dovere di affrontare l’utilizzo dei mezzi di networking in un modo più strategico, più intelligente e più efficace.

Per quanto riguarda il Veneto, in particolare, la tanto auspicata maggiore “Autonomia Istituzionale” non è separabile dall’assunzione di competenze e modalità operative nell’ambito della Comunicazione che valorizzino le identità e le risorse culturali espresse dal territorio, evitando che lo stesso diventi una semplice articolazione organizzativa per la diffusione di contenuti e messaggi “pensati” da Jim Messina, il “superconsulente” americano arruolato dal Partito a livello Nazionale.

L’esperienza realizzata con la campagna elettorale alle regionali ci dovrebbe aver suggerito che la scorciatoria dell’appalto non sortisce grandi risultati…..

 

 

 

Post scriptum

Senza che ne ce rendiamo conto, stiamo effettivamente scivolando verso una dimensione di post-democrazia, con una progressiva crescita dell’influenza dei poteri economici sulle scelte politiche, con una evanescenza del concetto di bene pubblico, con la perdita di potere reale da parte dei cittadini, con la disaffezione alla partecipazione e con una sostanziale perdita di identità da parte dei diversi soggetti che compongono la realtà sociale ed esercitano funzioni di rappresentanza. Il modello di partito e l’esercizio del diritto di i partecipazione hanno subito un mutamento profondo in questi ultimi anni; non si può pensare di affrontare i cambiamenti con le logiche di solo un decennio fa. Una cosa è comunque indubbia: il modo di impostare la comunicazione per un Ente o un organismo rispecchia in modo puntuale e preciso il rapporto che si ha in animo di attivare con i propri interlocutori. E gli interlocutori di un Partito hanno alcuni bisogni precisi: la chiarezza degli obiettivi, la ricostruzione di una identità e l’esigenza di sentirsi parte di un gruppo che valorizzi, faccia partecipare e faccia crescere i suoi membri e non li consideri solo numeri necessari per raggiungere obiettivi elettorali.

 

Un libro per chi crede nell’Italia

Tempo di lettura: 4 minuti

La patria? Sempre in costruzione

di Emilio Gentile – STORIA E STORIE – 3 Aprile 2016   Il Sole 24 Ore

Patria in costruzioneFabio Finotti esamina l’invenzione dell’Italia patriottica dall’epoca romana sino all’identità di Stato, nel 1861: da allora si è visto che la coscienza nazionale va curata e alimentata

«La nostra patria ha il volto mutevole della montagna e del mare… La storia della nostra patria è dunque lunga e movimentata»: tali espressioni non sono di un patriota del Risorgimento, né di un irredentista, un liberale, un repubblicano o un interventista dell’Italia liberale, quando la patria era collocata fra i massimi valori dell’etica civica, consacrata sull’altare di una religione laica che venerava in essa, con pari devozione, la nazione e la libertà; e neppure appartengono a un più recente retore d’occasione, inneggiante alla patria italiana nel cronologico evento del centocinquantesimo anniversario della fondazione dello Stato unitario.

Della “nostra patria”, della “storia della nostra patria” scrive oggi uno storico della letteratura italiana, Fabio Finotti, docente nella Pennsylvania University di Philadelphia, dove dirige il Centro di studi italiani, in un robusto libro – quasi seicento pagine – intitolato Italia. L’invenzione della patria. Dall’antica Roma al Medioevo, al Rinascimento, all’Illuminismo, al Risorgimento, al fascismo, alla Resistenza, fino agli anni della repubblica, Finotti ripercorre la storia del connubio fra le parole “patria” e “Italia”, attraverso una colta e brillante rapsodia di citazioni, tratte da poeti, scrittori, politici, intellettuali, insieme a esempi di raffigurazioni iconografiche, accompagnandole con osservazioni e riflessioni storiche, letterarie, filologiche, estetiche, per mostrare come siano stati vari, mutevoli e contrastanti, i significati generati da tale connubio nel corso dei secoli.

Le prime tracce dell’invenzione dell’Italia come patria risalgono all’epoca romana. Virgilio (70-19 a.C.) concepiva l’Italia come la patria comune delle genti che abitavano la penisola, mentre Plinio il Vecchio (23-79 d.C.) inneggiava all’Italia «terra che è insieme la figlia e la madre di tutte le altre, scelta dalla volontà degli Dei» per «divenire l’unica patria di tutte le nazioni del mondo». Sarà questa originaria “invenzione” dell’Italia come una patria universale a esercitare una potente influenza sulla “invenzione” dantesca dell’Italia come «la più nobile regione d’Europa», patria, per volere di Dio di una monarchia universale. In un’epoca in cui prevaleva nella penisola l’identificazione della patria con il comune nativo, la patria di Dante non era Firenze e neppure il «bel paese dove il sì suona», ma il mondo intero. Con Petrarca, e successivamente con Machiavelli, ebbe inizio, secondo Finotti, l’invenzione dell’Italia come «una patria ben distinta dalle altre nazioni», prefigurando e auspicando la creazione nella penisola di una unità statale simile a quelle instaurate dalla monarchia in Inghilterra e in Francia. Per tutti i secoli successivi, fino al Risorgimento, il connubio fra patria e Italia, attraverso continue invenzioni letterarie di immagini del passato, generò nuovi modi di concepire la patria italiana, sempre oscillanti fra una dimensione locale e una dimensione universale, ma restando sempre confinati entro la ristretta cerchia della cultura, che lasciava fuori l’innumerevole moltitudine della popolazione, ignorante e ignara d’appartenere a una patria comune.

Italia fu per secoli una patria per poeti, letterati, artisti. Solo con la Rivoluzione francese e durante il Risorgimento, assunse un significato politico nel pensiero e nell’azione dei patrioti, che tramutarono una immagine culturale e una realtà geografica in una individualità storica, la nazione, avviandola alla conquista di un proprio Stato indipendente e sovrano, fondato sulla libertà dei cittadini. Distaccandosi dall’immagine universalistica della patria di Dante e dell’Umanesimo, il Risorgimento celebrò nella letteratura, nelle arti, nella storiografia e nel pensiero politico il connubio fra patria e libertà, secondo il moderno concetto della nazione. All’invenzione di una patria immaginaria, con l’unificazione politica seguì dopo il 1861 la costruzione di una patria reale nella concreta entità di uno Stato liberale che, nonostante tutti i limiti e le contestazioni che l’afflissero, estese a tutte le popolazioni della penisola la condizione di una cittadinanza comune, premessa necessaria per consentire lo sviluppo di una dignità individuale e collettiva. Anche se nel nuovo Stato italiano il sentimento patriottico e la coscienza nazionale rimasero a lungo patrimonio ideale di una minoranza, è pur vero che questa minoranza divenne sempre più numerosa nel corso del tempo.

Nei successivi centocinquanta anni di unità politica, le vicende dell’Italia come patria, come Stato, come collettività di cittadini, hanno dimostrato che «la patria non è un dato di fatto che gli uomini si trovano pronto tra le mani, una volta per tutte, destinato a restare immutabile nel corso della storia. La realtà della patria sta proprio nella sua creazione incessante da parte della collettività che in essa si riconosce. Di quella collettività la patria è in un certo senso madre e figlia al tempo stesso». Così conclude Finotti il suo lungo viaggio fra le tante invenzioni della patria italiana. Nelle ultime pagine, iniziate da un’arguta polemica contro le prefazioni di tipo accademico «che si rivolgono a un lettore che sembra chiedere di essere portato per mano come un bambino», Finotti avverte che il titolo, L’invenzione della patria, «può generare equivoci», perché la parola “invenzione” può essere intesa sia in senso negativo, come menzogna per ingannare il prossimo, «facendogli credere quel che non è né sarà mai», sia come «creazione del nuovo, non del falso». Per evitare tale equivoco, nel descrivere il processo storico di formazione e trasformazione del connubio fra le parole “patria” e “Italia”, sarebbe forse più opportuno avvalersi del termine “costruzione” invece che “invenzione”. Per il fatto stesso di avere una storia, l’Italia come patria è stata una realtà continuamente costruita, piuttosto che continuamente inventata. E così come è stata costruita, potrebbe essere distrutta. Se mai ciò dovesse accadere, è prevedibile che sulle sue rovine, poeti, letterati, intellettuali e retori continueranno comunque a inventare nuovi modi di intendere la patria e l’Italia.

Fabio Finotti, L’invenzione della patria , Saggi Bompiani, Milano,

pagg. 572, € 28

Un altro testimone dell’orrore esce di scena (Imre Kertész – 1929-2016 -)

Tempo di lettura: 3 minuti

Aveva nostalgia del lager

di Boris Pahor* 3 Aprile 2016  KesnetzIl Sole 24 Ore

Ciò che mi colpì di più in Essere senza destino (Feltrinelli, 1999) di Imre Kertész fu la confessione della nostalgia per il campo di concentramento. Un sentimento che capisco e che avevo intuito quando ero andato a visitare Natzweiler-Struthof, dove fui internato, dieci anni dopo la fine della guerra e, una seconda volta, vent’anni dopo il conflitto. Fu allora che mi venne l’idea di scrivere Necropoli (Fazi, 2008). Io non provavo nostalgia del lager, sarebbe stato il colmo! Ma sentivo il bisogno di ritornarvi per assicurarmi che quello che avevo vissuto fosse vero, che c’era ancora il palo della tensione su cui impiccavano la gente, che c’era la stufa per alimentare il forno dove bruciavano i prigionieri e le cui ceneri finivano nel buco assieme ai liquami dei gabinetti, ossa humiliata. Capisco la sua nostalgia: perché una società come la nostra non merita di prosperare; come sosteneva Umberto Eco, una società così dovrebbe autodistruggersi.

Ho saputo della morte di Kertész dal notiziario della radio slovena e sono stato sopraffatto dal dispiacere di non aver avuto occasione di rivederlo dopo l’incontro (registrato nel documentario La memoria ostinata di Tomaž Burlin, anche sceneggiatore assieme a Neva Zajc, Tv Capodistria, 2009 , n.d.r.) che facemmo assieme al teatro dell’Odeon di Parigi il 17 gennaio del 2009. Eravamo ospiti alla Maison des ecrivains del Tour de France degli scrittori stranieri tradotti in francese. Ci incontrammo nel camerino e ci abbracciammo, ci demmo spontaneamente del tu, lui sapeva della mia Necropoli. Eravamo stati destinati in campi di lavoro vicini, lui a Buchenwald, io in una sua dipendenza. Buchenwald, che era stato pensato per prigionieri politici, era molto ben organizzato, perché inizialmente avrebbe dovuto ospitare solo detenuti tedeschi socialisti e comunisti. Kertész vi era arrivato, nonostante fosse ebreo e quindi destinato a essere eliminato, per via della sua corporatura robusta: i nazisti invece di mandarlo a morte nei forni lo avevano ritenuto idoneo al lavoro.

Nell’incontro a Parigi abbiamo parlato delle sofferenze, dei colpi che ci infliggevano i kapò, delle nostre malattie e del dover lavorare nonostante la malattia, fino a che non cadevamo a terra prostrati. Parlammo di quando ci facevano salire su uno sgabellino con una camicetta che penzolava fino all’ombelico e controllavano il nostro pene rasato per vedere che non si annidassero i pidocchi. A subire questa umiliazione c’erano uomini anche di settant’anni. Ci sarebbe voluta una macchina da presa per registrare tutto, solo quella avrebbe reso davvero l’orrore. Kertész e io in letteratura abbiamo cercato di raccontarlo con il nostro stile realistico, senza fronzoli: una poesia del male. Quando parlammo all’Odeon, invece, eravamo impacciati da una pessima traduzione dall’ungherese: l’interprete rendeva male i pensieri di Kertész e lui ne era imbarazzato. Così i momenti più belli furono prima e dopo l’incontro, quando eravamo soli e ci esprimevamo nel nostro francese.

Quando ho saputo della sua morte non ho potuto fare a meno di ricordare lo scrittore Stéphane Hessel, mancato nel 2013. Con Hessel avevamo in comune l’esperienza del campo di Dora, dove si costruivano i missili V2, ma ci incontrammo solamente in Slovenia una decina di anni fa. Proprio come Kertész entrambi constatammo che la società di oggi non è degna dei morti dei lager. Hessel scrisse anche un libro, dal titolo Indignatevi! (Add editore, 2011), per scuotere la gente. Una società che non si interessa più dei morti nei campi di concentramento non è solo egoista ma schifosa. Lo dirò al parlamento europeo dove sono invitato a parlare il prossimo maggio. Capisco perché Kertész sentisse nostalgia del campo di concentramento.

 

*Testo raccolto da Cristina Battocletti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il nostro Paese, in Europa, è meglio di quanto pensiamo

Tempo di lettura: 4 minuti

La strategia politica che manca all’Europa

di Alberto Quadrio Curzio –  3 Aprile 2016 Il Sole 24 Ore

Italia in EuropaTra pochi giorni il governo dovrà presentare al Parlamento il Documento di economia e finanza, che include il programma di Stabilità e quello nazionale di riforme che entro fine mese andranno alla Commissione europea. Poi ci sarà il tormentone sui decimali dei parametri europei e sulle raccomandazioni della Commissione e del Consiglio europeo che ci accompagneranno fino alla legge di stabilità. Per non essere travolti da un fiume di dati e di opinioni tentiamo qualche valutazione generale che ci porterà a concludere come l’Italia sta cambiando in un’Europa frenata.

Europa che frena. Il 2015 e l’anno corrente non sono quelli della ripresa, come dimostra chiaramente l’Ocse.

Una tanto sintetica quanto efficace paginetta dell’“interim economic outlook ” Ocse di metà febbraio in tre punti mette l’Eurozona (e la Ue) di fronte alle proprie responsabilità. Il primo punto evidenzia il rischio di una euro-stagnazione per carenza di investimenti e di innovazione e per troppa enfasi sul rigore. Il secondo evidenzia la lentezza delle riforme economiche europee sulle varie tipologie di mercati interni, la debole partenza del piano Juncker e la troppa prudenza della Bei. Il terzo punto rileva i rischi politico-istituzionali di reazione all’austerità, ai movimento migratori, al terrorismo. La conclusione è netta «l’Europa deve riconquistare un senso di identità e parlare con una sola voce per promuovere unità e crescita».

È una richiesta di strategia politica delle istituzioni europee che invece procedono con misure tampone adesso rivolte alla crisi migratoria. Segna invece il passo il progetto “Completare l’Unione economica e monetaria dell’Europa” elaborato dai 5 presidenti e cioè: Juncker, Tusk, Dijsselbloem, Draghi e Schulz. Eppure si tratta dell’unica solida (anche se migliorabile) base per fare innovazioni istituzionali nella Eurozona.

Italia che cambia. Che il nostro Paese stia invece facendo delle riforme (anche se non sempre chiare) è una opinione ormai diffusa confermata da molti dati. Ciò non significa che i nostri punti deboli di antica data siano superati. Bisogna esserne consapevoli, non per autodenigrarci ma per migliorare. Anche il recente rapporto della Commissione europea sull’Italia riconosce che sono state fatte molte riforme pur sottolineando che il debito pubblico sul Pil è preoccupante e che siamo carenti nella produttività sistemica. È vero ma non è tutto perché da molti punti di vista l’Italia non ha avuto nella crisi comportamenti opportunistici mentre ha contribuito a smuovere in meglio l’Europa. Ed anche in questo periodo di euro-scetticismo o euro-disfattismo continua a farlo. Due esempi tra i molti meritano di essere fatti: uno istituzionale e uno industriale.

Istituzioni. Il Governo italiano nel suo semestre di Presidenza del Consiglio europeo nella seconda parte del 2014, ha spinto molto sulla flessibilizazione dei conti pubblici per favorire la crescita. La comunicazione della Commissione europea del gennaio 2015 ne ha positivamente risentito e questo ha giovato alla ripresa, per quanto tenue, dell’Italia e dell’Europa. Inoltre,con il documento del febbraio scorso “una strategia europea condivisa per crescita, lavoro e stabilità”, che porta principalmente l’impronta del ministro Padoan, il Governo risulta essere l’unico tra quelli europei con una visione strategica sul futuro dell’Eurozona. Due sono i concetti cardine del progetto italiano che vanno anche a migliorare il documento dei “5 Presidenti”. Il primo è che la fiducia tra Paesi si rafforza se tutti si attengono alle regole comuni che devono essere formulate per premiare il rispetto e scoraggiare le violazioni. Il secondo è che la condivisione di sovranità e la mutualizzazione del rischio vanno di pari passo al rispetto delle regole e servono per stabilità crescita.

Industria. Con questo concetto intendiamo una logica produttiva che rispetta i requisiti di efficienza ed efficacia. Ebbene una parte dell’Italia del settore pubblico e di quello privato ha dimostrato di credere nella ripresa attingendo il più possibile ai finanziamenti Bei e Fei che applicano criteri di valutazione del merito di credito molto severi. Con circa 11 miliardi di euro d’investimenti Bei nel 2015, l’Italia è stata il secondo principale Paese beneficiario delle operazioni della Banca. Il 38% degli investimenti è andato alle Pmi e alle aziende mid-cap, mentre un altro 35% all’energia, telecomunicazioni e trasporti. Anche sul Piano Juncker l’Italia è stata molto pro-attiva non solo nella fase di varo dell’iniziativa ma anche in quella di utilizzo. Con soddisfazione rileviamo che dall’inizio della operatività del Piano, l’Italia è stato il Paese più attivo con 1,7 miliardi di finanziamenti ottenuti (sia per le infrastrutture che per le imprese)che dovrebbero mobilitare ben 12 miliardi di investimenti totali. Per le Pmi sono stati varati accordi tra il Fondo Europeo per gli Investimenti e le banche italiane per 44mila imprese per un importo totale di 318 milioni che dovrebbe mobilitare 7 miliardi di investimenti. Altri 1,4 miliardi di finanziamenti, che riguardano le infrastrutture e l’innovazione, dovrebbero mobilitare 4,8 miliardi di investimenti. Questo dimostra come l’Italia (dove il credito bancario è debole per le sofferenze pietrificate dai dogmi della Commissione sugli aiuti di Stato) cerca in tutti modi di accelerare.

Euro-costruttività. Sono elementi di cui la Commissione europea dovrebbe tenere conto non fossilizzandosi sui decimali di bilancio e considerando anche un importante argomento di recente avanzato dal Centro studi di Confindustria.Lo stesso ha dimostrato come le flessibilità di bilancio concesse ai Paesi che fanno riforme strutturali importanti rischiano di essere vanificate per l’eccessiva rapidità loro imposta al rientro nei parametri del fiscal compact(che tra l’altro la Commissione calcola anche più restrittivamente rispetto all’Ocse). In tal modo le riforme non esplicano i loro effetti positivi che sono di medio termine mentre quelli negativi sono sul breve termine. Ne possono seguire anche reazioni politiche contro le riforme stesse con cambi da Governi euro-costruttivi a Governi euro-scettici o euro-distruttivi. Per ora in Italia non è successo senza rinunciare a criticare costruttivamente le regole europee. Alla fine il nostro Paese è meglio di quanto spesso pensiamo.

 

 

Uno sguardo disincantato (e ragionato) sull’immaturità europea e la strategia USA

Tempo di lettura: 4 minuti

La guerra in casa e il disordine mondiale

di Europa nel mondoAlberto Negri 3 Aprile 2016   Il Sole 24 Ore

In Yemen i sauditi hanno ingaggiato contro gli Houti sciiti una guerra che ha già fatto migliaia di morti: ci sono attentati dell’Isis, c’è al-Qaeda, che fino a qualche tempo fa era un bersaglio dei droni americani e ora controlla l’Hadramaut e il porto di Mukalla, c’è soprattutto una popolazione allo stremo con migliaia di profughi. Eppure questa sorta di Vietnam arabo è menzionato solo di sfuggita. Washington l’anno scorso ha detto: ci pensano i sauditi. Ma vi fidereste di uno Stato che provoca enormi tensioni nel Golfo con l’Iran sciita e da cui provengono i finanziamenti agli imam più radicali dell’Islam? È questa la geopolitica del caos.

Ovunque si volga lo sguardo ci circonda un disordine mondiale che però trattiamo in maniera selettiva. Se a produrlo sono i nostri clienti allora si chiude un occhio: dopo tutto la penisola arabica è il cortile di casa di monarchie petrolifere che hanno il buon gusto di investire nelle nostra finanza. È con questa logica che siamo arrivati ad avere la guerra in casa: la stessa logica perversa che scatenò l’11 settembre 2001.

L’Isis nel 2014 non suscitava alcun interesse negli Stati Uniti: Obama, che oggi chiama alla mobilitazione contro i jihadisti con ambizioni atomiche, definì lo Stato islamico un competitore dilettante di al-Qaeda. Dobbiamo aspettarci altri dilettanti allo sbaraglio?

Si parla tanto di intelligence, ma proprio gli americani sono stati protagonisti del più devastante fallimento dei servizi degli ultimi decenni: mai erano stati bombardati in casa, e ci è riuscito Osama bin Laden la cui famiglia andava a pranzo con i presidenti e che abitava indisturbato in Pakistan, Paese alleato, compiacente con cellule terroristiche che fanno stragi di musulmani e cristiani, dotato pure di armi nucleari di nuova generazione. Ma gli Stati Uniti hanno la Cia, l’Fbi, controllano il traffico mondiale delle comunicazioni e dal tavolo della loro rete fanno cadere agli alleati soltanto briciole di informazioni: quel che basta per tenerli a guinzaglio.

Siamo tutti alleati qui in Occidente, ma definirci amici a volte è un po’ azzardato. In compenso siamo sicuramente concorrenti, al punto che in ogni vicenda oscura, a torto o a ragione, vediamo sullo sfondo, nell’ombra, l’artiglio di interessi economici inconfessabili: non è così anche per il caso Regeni? Prendiamo l’apertura a Teheran, dove sta per andare in missione il presidente del Consiglio: gli Usa vogliono vendere i Boeing e hanno già pronte tutte le triangolazioni finanziare necessarie, ma un’azienda italiana o europea deve stare molto attenta, se non vuole incappare nelle sanzioni Usa, a esportare qualunque prodotto che abbia un contenuto di tecnologia Usa superiore al 25 per cento.

In Iraq – 12 anni di embargo – inglesi e americani avevano un ufficio per controllare l’export “dual use” (militare e civile): monitoravano con un sistema da incubo tutto quello che entrava, un po’ meno quello che usciva, petrolio di contrabbando che ingrassava il curdo Barzani, la Turchia e i dealer del Golfo. Come poi è accaduto anche con l’Isis. Ma anche questo non bastava: nel 2003 Bush jr. e Blair decisero di mettere le mani direttamente sul Paese scoperchiando un vaso di Pandora che non hanno mai richiuso.

Per noi l’Iran, Paese discretamente stabile anche se implicato nel marasma mediorientale, è una cosa seria. Le commesse degli ayatollah, buoni pagatori, devono coprire la perdita di altri mercati, come la Libia e in prospettiva forse anche l’Egitto. Anche l’Italia ha un cortile di casa, ma gli alleati ci fanno spostare continuamente di posto come nel gioco dei quattro cantoni, un giorno in Iran, un altro in Libia. Meno male che siamo ragazzi svelti, se non proprio svegli.

L’intelligence europea fa acqua e quella belga viene sbeffeggiata in barzellette da humor nero. Ma ha perfettamente ragione Emma Bonino quando dice che se nell’integrazione europea la sicurezza è rimasta esclusiva competenza nazionale, per rimediare bisognerebbe rivedere i Trattati, e invece gli Stati dell’Unione si illudono che chiudere le frontiere risolva il problema. È assolutamente stucchevole immaginare un’intelligence europea senza una politica estera e di difesa e sicurezza comuni. Quindi finché non avverrà sarà inutile paragonarsi agli Stati Uniti e dire «siamo in guerra»: siamo chi, visto tra l’altro che le forze armate non sono più di leva ma professionisti che guardano anche loro ai bilanci? Siamo vittime, questo sì, ma non combattenti.

Sono gli Usa che dettano le regole della guerra al terrorismo, non il Califfato, e lo fanno in funzione dei loro interessi che possono coincidere con i nostri ma non sempre. Gli europei continentali hanno una colpa grave: sperano che siano gli altri a occuparsi dei loro guai. Scaricano i profughi a Erdogan e nella guerra all’Isis, dopo avere architettato per anni la caduta del regime di Damasco, si affidano a Putin e Assad, due leader sotto sanzioni. E quando intervengono provocano danni massicci come in Libia nel 2011. Nello specchio deformante che riflette il caos europeo possiamo vedere il nostro disordine politico, l’egoismo nazionale, gli inconfessabili interessi che assegnano medaglie al valore, i fallimenti dell’intelligence e persino i volti sfocati, colti dall’obiettivo delle telecamere, dei jihadisti di casa nostra.