Governo Macron e Juventus: una squadra forte in tutte le zone del campo!

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IL GOVERNO DI MACRON NEL SEGNO DELL’EUROPA
Due socialisti (Le Drian e Collomb) agli Esteri e agli Interni
All’Economia un altro repubblicano, Bruno Le Maire


Marco Moussanet – 18 Maggio 2017 – Il Sole 24 Ore
Diciotto ministri e quattro sottosegretari. Qualcuno in più rispetto ai 15 preannunciati dal presidente. Parità di genere perfettamente rispettata, anche se i ministeri di maggior peso (Interno, Esteri, Giustizia, Economia), con l’unica eccezione della Difesa, sono in mano a degli uomini. Piuttosto anziani, peraltro, tra i 62 e i 69 anni. A dimostrazione del fatto che il rinnovamento non passa necessariamente dall’età, che la fedeltà va ricompensata e che almeno alcuni equilibri politici vanno comunque rispettati. Una decina di figure, di gran qualità, in arrivo dalla cosiddetta società civile. Alcuni socialisti, ovviamente. Tre o quattro centristi. Due esponenti di un certo rilievo provenienti dalla destra – che vanno ad aggiungersi al premier Edouard Philippe, tutti e tre espulsi dai Républicains – ai quali è stata affidata la cittadella di Bercy, il regno appunto dell’economia, dei conti pubblici, dell’industria. E l’ingresso della star dell’ambientalismo Nicolas Hulot, 62 anni, «l’ambasciatore della Cop 21», molto popolare in Francia, che fino a oggi aveva sempre rifiutato le proposte che gli erano state fatte via via da Chirac, Sarkozy, Hollande.
Sono questi, in sintesi, gli elementi caratterizzanti del primo Governo – dall’impronta fortemente europeista – dell’era Emmanuel Macron. Il primo Governo della ricomposizione politica che si sta realizzando in Francia in nome della trasversalità e del superamento delle barriere ideologiche. Un Governo, almeno sulla carta, di persone capaci e competenti. Una vera ventata di aria nuova. Come aveva promesso Macron.
L’economia è stata affidata all’enarca Bruno Le Maire, 48 anni, un liberal ambizioso e con l’aspetto del classico tecnocrate un po’ supponente alla francese, appassionato di Proust e di musica classica (ha anche scritto un romanzo intitolato “Musica assoluta”). Prima sottosegretario agli Affari europei e poi ministro dell’Agricoltura nel Governo di François Fillon, si è presentato alle primarie della destra con un programma moderato di forte rinnovamento rispetto alla linea tradizionale dei Républicains. Arrivato in quinta posizione, con appena il 2,4% dei voti, ha partecipato alla campagna di Fillon, abbandonandola quando quest’ultimo ha deciso di proseguire nonostante gli avvisi di garanzia per il Penelopegate. Fin dalla sera della vittoria di Macron si è dichiarato «pronto a lavorare per una maggioranza presidenziale».
Insieme a lui sbarca a Bercy – titolare del dicastero dell’Azione e dei conti pubblici – Gérald Darmanin, 34 anni, sindaco di Tourcoing e vicino all’ex presidente Sarkozy. Gollista “sociale”, è stato l’ideatore – due giorni fa, subito dopo la nomina di Philippe – della lettera aperta (firmata da 173 parlamentari ed eletti dei Républicains) in cui invita la destra a rispondere positivamente «alla mano tesa» di Macron.
Al ministero del Lavoro – che dovrà gestire il delicato dossier di una delle prime riforme del presidente, e una delle più delicate – è stata chiamata Muriel Pénicaud, 62 anni, attuale numero uno di Business France, l’agenzia pubblica incaricata dell’internazionalizzazione dell’economia francese. Nel cda di Sncf (le ferrovie) e di Adp (gli aeroporti parigini), è nota per essere stata a lungo la direttrice delle risorse umane di Danone.
I ministeri “di Stato” – quelli cioè più importanti, almeno dal punto di vista della gerarchia – sono stati affidati al sindaco socialista di Lione Gérard Collomb (69 anni, è stato uno dei primi sostenitori di Macron) che andrà all’Interno e al leader centrista François Bayrou (65 anni, l’unico con cui Macron ha firmato un accordo elettorale) che avrà la Giustizia. Il terzo è appunto quello della Transizione ecologica e dell’energia, affidato a Hulot. Con il quale la convivenza non sarà peraltro semplicissima, visto che milita da tempo per una riconversione energetica che prevede un’accelerazione dell’uscita dal nucleare (difeso invece dal presidente) ed è fermamente contrario alla costruzione del nuovo aeroporto delle Landes (che Macron prevede di realizzare).
Il ministro della Difesa uscente – il potente Jean-Yves Le Drian, 69 anni – sarà ministro dell’Europa e degli Esteri. Mentre all’eurodeputata centrista Sylvie Goulard – ex consigliera di Romano Prodi ai tempi in cui era presidente della Commissione – è stato affidato il ministero delle Forze armate (nuovo, e fortemente simbolico, nome della Difesa, che non era stato più utilizzato dal 1974). Degli Affari europei si occuperà il braccio destro di Bayrou, Marielle de Sarnez.
Nel Governo entrano anche il presidente dell’Essec (prestigiosa scuola di management) Jean-Michel Blanquer (all’Educazione); la presidente della Ratp (i trasporti pubblici parigini), Elisabeth Borne (ai Trasporti); e l’ex campionessa di scherma Laura Flessel (allo Sport).
Si tratterà ora di vedere se questa squadra dalla composizione inedita ed eterogenea riuscirà a funzionare. Facendo finalmente le riforme di cui il Paese ha urgente bisogno.

«Troppe resistenze alla concorrenza»

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Carmine Fotina – 17 Maggio 2017 – Il Sole 24 Ore
Pitruzzella: reazioni anti mercato su Ddl annuale, taxi, commercio, sharing economy


Le fatiche del primo disegno di legge annuale per la concorrenza diventano il simbolo di resistenze generali, in campi diversi, compresi quelli più innovativi dell’economia. Nella presentazione alla Camera della Relazione annuale, il presidente dell’Antitrust Giovanni Pitruzzella parla di «reazioni contro l’apertura dei mercati», precipitato in ambito domestico di un’insoddisfazione crescente nei confronti dei mercati globali e della concorrenza.
Il garante parte inevitabilmente dal Ddl passato con fiducia al Senato e ora al bivio della Camera: «Pare stia approdando per la prima volta alla sua approvazione, sebbene depotenziato rispetto ai suoi iniziali contenuti». Ma cita poi «le reazioni protezionistiche della categoria dei tassisti di fronte alla spinta competitiva proveniente da piattaforme come Uber», le critiche contro «la liberalizzazione del commercio e le iniziative legislative regionali dirette a contrastarla», l’opposizione «all’implementazione della direttiva Bolkestein sulla liberalizzazione dei servizi». E, quantomai attuali, «i tentativi di introdurre freni regolatori all’espansione della sharing economy», per la quale invece il garante pensa a un sistema di regole leggere, che dove non indispensabili possano anche essere sostituite da codici di autoregolamentazione delle imprese (si veda Il Sole 24 Ore di domenica scorsa).
Ci sono anche liberalizzazioni lasciate a metà, tra le quali Pitruzzella cita il controverso caso del mercato elettrico, dove la maggioranza delle famiglie (68%) è rimasto nel regime di maggior tutela a fronte di prezzi non sempre più convenienti nel mercato libero.
Se dal particolare si passa al generale, la sensazione poi è che l’Italia – come rileva l’Ocse – abbia fatto dei progressi ma non sufficienti come dimostra il 67esimo posto nel Goods market efficiency index stilato dal World economic forum.
Pitruzzella si sofferma sulla necessità di non porre freni alle innovazioni dell’economia digitale e su settori più tradizionali come i servizi pubblici locali. Ma non emergono dettagli sul dialogo già in corso con il governo in vista della prossima legge concorrenza, perché prima va chiuso il discorso su quella che è incredibilmente ancora aperta dopo oltre due anni. Nella presentazione c’è invece molto spazio per i rischi di un’economia a forte tasso di diseguaglianza, che nell’area Ocse secondo il coefficiente di Gini si misura nello 0,32 a fronte dello 0,29 della metà degli anni 80, con un incremento dei divari che ha riguardato almeno 16 Paesi Italia inclusa. È l’effetto della distorsione dei mercati dice l’Antitrust. Tra i possibili rimedi, il presidente cita anche il piano di difesa delle aziende strategiche al quale lavora il nostro ministro dello Sviluppo economico insieme a Germania e Francia. Pitruzzella difende la reciprocità nella tutela della concorrenza e appoggia in questa chiave una possibile riforma dell’istituto del «golden power» di fronte all’espansionismo di economie terze. È giusto, è la tesi, tutelare industrie strategiche ad alto contenuto tecnologico se sono oggetto di «strategie predatorie» condotte «da imprese che possono avvalersi di capitali pubblici» allo scopo di «sottrarre tecnologie e know how tecnologico, industriale e commerciale, o di delocalizzare l’attività produttiva».

Ferruccio De Bortoli: disinformato od in malafede?

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L’affaire Boschi-Unicredit è una unica grande “non-notizia”

di Carlo Torino*

il Foglio  17 maggio 2017

Lapolemica relativaall’affaire Boschi sta assumendo dei toni a dir poco surreali, e mette in luce una torbida volontà di strumentalizzazione da parte di talune forze di opposizione che vorrebbero tramutare illazioni prive di valore documentale – e come vedremo, prive di fondamento logico –in elementi di lotta politica. Ma vediamo dunque quali sono le ragioni che nei fatti destituiscono l’impianto accusatorio di qualsiasi presupposto logico. In primo luogo, con la risoluzione dei quattro istituti in crisi, nel novembre del 2015 – tra i quali Etruria – per opera della Banca d’Italia di concerto con il governo Renzi, si riconosceva a quelle banche un qualche valore “sistemico”, o comunque una forte importanza territoriale. In caso contrario –secondo il testo della normativa europea, Brrd –l’Autorità di supervisione bancaria avrebbe dovuto procedere con la liquidazione. Il processo di “risoluzione” prevede infatti una forma di continuità delle attività (come di fatto è avvenuto con la separazione tra le banche ponte e la bad bank) per le istituzioni in crisi, al fine di limitare l’impatto sociale sul territorio. Ciò detto, se i fatti inerenti alla ricostruzione di FdB risalgono al 2015, si può escludere che il sottosegretario Boschi avesse potuto esercitare una qualsivoglia forma di pressione su Ghizzoni. Era infatti troppo tardi. La Banca d’Italia aveva già posto in Amministrazione straordinaria la Banca Etruria, commissariandone i vertici nel 2014. Già dal 2012 inoltre veniva a protrarsi un ciclo ispettivo, che avendo rilevato gravi irregolarità nella contabilità delle partite deteriorate, evidenziava sostanziali carenze patrimoniali. Che cosa avrebbe potuto chiedere l’allora ministro al numero uno di Unicredit? Una banca in quelle condizioni di dissesto, e per di più di forte rilevanza territoriale, non avrebbe potuto essere venduta senza il previo parere delle autorità di vigilanza nazionale ed europea (il Meccanismo unico di vigilanza), ed eventualmente anche della Commissione. A quell’epoca, nel 2015, i giochi si erano conclusi, e rifiutando Etruria una proposta originaria
di aggregazione alla Popolare di Vicenza, aveva di fatto segnato il proprio destino. Non v’era nulla che il ministro potesse fare intercedendo presso Ghizzoni, a favore degli azionisti della banca; i quali, pur volendo presupporre un subitaneo impeto francescano di Unicredit, avrebbero comunque visto il valore del loro investimento completamente azzerato. E ciòè spiegato dal fattoche qualsiasi iniezionedi capitale, inquel particolare stadio del ciclo di vita della banca, avrebbe presupposto necessariamente una preventivasvalutazione deiprestitideteriorati. Torno dunque a domandare: che cosa avrebbe potuto chiedere Maria Elena Boschi a Federico Ghizzoni, nel 2015 con l’epilogo di questa scabrosa vicenda ormai già noto? O forse si vuole lasciare intendere che la sottosegretaria avesse ordito un piano che contemplasse un “sacrificio” di Unicredit, al quale Ghizzoni si sarebbepoi prestato, ripatrimonializzando Etruria senza svalutare i deteriorati; e salvando in tal modo il valore degli azionisti? Ipotesi originale, trama non priva difantasia, ma deltutto irragionevole.
L’operazione sarebbe stata senz’altro bloccata da Bankitalia, Bce o Commissione. A partire dal 2012 non vi era una sola banca d’affari che operasse ancora in derivati con Etruria. Dal 2013 in poi le relazioni erano state completamente chiuse per via dei rischi reputazionali connessi. Il mercato era ben cosciente dei problemi di Etruria, e il prezzo del titolo in Borsa (poi sospeso) rifletteva bene le condizioni di dissesto patrimoniale. La Banca d’Italia nel 2014 avrebbe posto l’istituto in amministrazione e aperto il sentiero verso la risoluzione, d’intesa con le autorità europee. Quale oscuro potere si vuole che il ministro potesse esercitare? Quale picaresca quanto illogica operazione sottobanco si vuole cheella potesse contemplare d’intesa con Unicredit? Lasciamo che queste sublimi sceneggiature trovino una loro naturalecollocazione neigeneriletterari ecinematografici di maggiore impatto emozionale; ma tramutarle in elementi di confronto politico è francamente di cattivissimo gusto.

*consulente finanziario, ex Goldman Sachs securities

“Creo mondi virtuali come nei videogame ma per salvare le città”

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Intervista ad Herman Narula

GIULIANO ALUFFI – Repubblica – 15 maggio 17

ROMA. Lo sciopero dei mezzi pubblici e una manifestazione politica paralizzano il centro città, ma i diecimila automobilisti bloccati nel maxi-ingorgo non ricorrono a coloriti improperi. Perché sono esseri digitali: abitano un modello virtuale prezioso per elaborare scenari e aiutare sindaci, urbanisti e architetti a trasformare le città. I cittadini digitali elaborati dall’informatico Herman Narula non subiscono solo ingorghi, ma alluvioni, disastri, attacchi terroristici e tutto ciò che nella realtà è meglio evitare, prevenire o gestire in massima sicurezza. È costruendo questi modelli che, a soli 29 anni, Narula è lo startupper più finanziato d’Europa grazie ai 502 milioni di dollari ricevuti dal gruppo giapponese SoftBank. Oggi la sua Improbable Worlds (200 dipendenti) è valutata un miliardo di dollari. Evidentemente c’è chi crede davvero che le simulazioni di Narula possano risolvere problemi cruciali per le città del futuro.
Laureatosi in informatica a Cambridge, ha fondato Improbable insieme al compagno di studi Rob Whitehead nel 2012. Lo scopo iniziale era riprodurre ambienti virtuali più soddisfacenti di quelli di giochi come Second Life o Minecraft. E così è nata la piattaforma SpatialOS, specializzata nel calcolare in tempo reale milioni di interazioni tra personaggi, oggetti e ambienti con una potenza di elaborazione inedita, perché distribuita su migliaia di computer nel cloud.
Narula, come siete passati dai giochi alle città?
«Parlando con i nostri docenti a Cambridge abbiamo capito che si sentiva la mancanza di sistemi utili a simulare in modo attendibile realtà complesse. Un progetto su cui stiamo lavorando oggi è capire cosa succede in una città – a livello di servizi, spostamenti, benessere, produttività – se il welfare odierno viene sostituito da un reddito di cittadinanza. Poi siamo impegnati, tramite la nostra spin-off Immense Simulations, finanziata dal governo britannico, in un progetto che studia l’impatto delle auto
driverless sulle città: cosa succederà ai parcheggi? I cittadini si muoveranno più o meno di prima? Si potrà cambiare la capacità delle strade e il numero delle loro corsie?».
Cos’hanno in comune videogame e modelli urbani?
«Entrambi richiedono grandi sistemi distribuiti di computer che possono suddividersi il lavoro. Ma finora le soluzioni avevano grandi lacune. Pensiamo a Grand Theft Auto: il mondo di ogni giocatore si può trovare al massimo su un solo server. Questo obbliga il progettista a usare “trucchi” per nascondere i limiti della simulazione. Se giri l’angolo, tutto quello che c’era prima svanisce. Se fai un cambiamento nell’ambiente non è permanente. Noi invece usiamo migliaia di computer in rete per gestire un unico ambiente e calcolare tutte le complesse interazioni tra i personaggi: così che il battito d’ali di una farfalla in un luogo possa causare un uragano altrove. Ogni giocatore può compiere azioni con effetti permanenti. Il “mondo” in cui ti trovi è davvero plasmato dalle tue azioni e da quelle di tutti gli altri».
Anche voi siete partiti da un gioco.
«Sì, Worlds Adrift, che Bossa Studios ha realizzato usando la nostra tecnologia: un mondo di isole sospese, ognuna con una propria ecologia – ad esempio le specie animali possono estinguersi – dove migliaia di giocatori possono interagire viaggiando su navi volanti, con migliaia di creature e oggetti. Ognuno dei quali segue fedelmente le leggi della fisica: se lo si lascia cadere, rotola via. E gli altri personaggi lo possono trovare e usare, anche a distanza di mesi».
E come modellate le città?
«Abbiamo già ricostruito Cambridge: ognuno dei nostri 120.000 abitanti virtuali ha un telefono cellulare con la sua Sim card, e può interagire con gli altri e con l’infrastruttura urbana. Ogni cittadino può andare al lavoro, muoversi liberamente per la città, incappare in un ingorgo. Possiamo anche combinare il modello del traffico urbano con quello della telefonia mobile, per studiare soluzioni che impediscano un sovraccarico della rete quando gli utenti, bloccati nel traffico, usano tutti insieme il cellulare».

Weber: “Investimenti e riforme le chiavi per rafforzare l’Europa”

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Parla il capogruppo del Ppe all’Europarlamento “Bisogna abolire l’unanimità nelle decisioni di politica estera”


ALBERTO D’ARGENIO – Repubblica 14 maggio 17
BRUXELLES.
Una gestione politica dell’eurozona, stop al diritto di veto in politica estera e difesa comune che parta da cybersicurezza e droni. Questa è l’Europa del futuro immaginata da Manfred Weber, politico della Csu, alleato bavarese della Cdu di Angela Merkel, e capogruppo all’Europarlamento del Partito popolare europeo. Weber smentisce la fama di falco dicendosi non d’accordo con Wolfgang Schäuble che vorrebbe esautorare Bruxelles per affidare il controllo dei bilanci nazionali a un organo tecnico. «Nel 2016 – afferma Weber – l’Europa è cresciuta più degli Usa, è il momento di parlare del futuro della zona euro. Ma dobbiamo mettere fine ai litigi che dividono partiti e governi. L’Unione ha futuro solo aumentando gli investimenti, ma anche le riforme sono indispensabili. Serve un mix tra queste esigenze».
Non sembra facile visti gli scontri tra capitali.
«Sono grato a Schäuble per avere detto che il surplus commerciale tedesco nel lungo periodo non fa bene all’Europa. Anche Berlino deve riformare l’economia, fare più investimenti, permettere ai tedeschi di spendere di più aiutando gli altri a crescere. Allo stesso tempo il compito di Gentiloni, Renzi e Berlusconi, o di Macron in Francia, sono le riforme. Se entrambi i fronti fanno i compiti, possiamo finalmente guardare al futuro e combattere i populisti ».
A fine mese la Commissione pubblicherà la sua proposta di riforma della zona euro: come dovrebbe procedere?
«Per il Ppe è importante che il Fondo salva-stati (Esm) per i futuri salvataggi pubblici agisca senza il Fmi. Inoltre sappiamo che i programmi di salvataggio dovranno essere gestiti con un dibattito politico neutralizzando la burocratizzazione di interventi che poi incidono sulle persone».
Schäuble vuole sottrarre alla Commissione il controllo dei bilanci nazionali per darlo proprio ai tecnici dell’Esm: concorda?
«Schäuble ha ragione a dire che le regole vanno applicate, ma al contempo vanno gestite con visione politica. Sostengo al 100% il ruolo della Commissione come guardiano dei Trattati ».
Sostiene l’idea di un bilancio dell’eurozona?
«Il problema è che i paesi crescono a ritmi differenti e per questo serve un bilancio della zona euro che aiuti, anche finanziariamente, i partner che fanno le riforme utili a rilanciare la crescita. Vogliamo un’Europa che sappia aiutare, non che si limiti a punire».
Servono riforme anche su politica estera e difesa?
«Se vogliamo che il 2018 sia l’anno del rilancio prima delle europee del 2019 dobbiamo abolire l’unanimità in politica estera in modo che nessun governo possa più bloccare le decisioni. Nella difesa auspico politiche comuni su cybersicurezza e droni. Servono programmi industriali e strutture condivise come un comando unico e battaglioni europei».
Guarda all’Europa del futuro, ma il populismo non è ancora sconfitto. Non teme il voto italiano?
«Chi è contro la Ue, come Lega e 5 Stelle, si limita a cavalcare le paure con slogan populisti. Ma la Francia ci dice che le persone appoggiano chi lotta per un’Europa migliore».
In Italia anche i leader dei partiti tradizionali picchiano su Bruxelles.
«Sono contento che Berlusconi abbia detto che Forza Italia farà una campagna in favore dell’Europa e spero che lo faccia anche Renzi: i cittadini sanno che Trump, Putin o Erdogan ci vogliono indebolire e per questo sono pronte a scommettere su un’Europa che si rinforza. Anche in Italia, come in Francia, gli elettori sceglieranno l’Unione».

“La mia vita nei boschi per spiare i segreti degli orsi in amore”

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Alberto Stoffella, forestale, segue da quasi trent’anni i plantigradi che ripopolano le Dolomiti del Brenta


GIAMPAOLO VISETTI – Repubblica – 14 maggio 17

MALGA CEDA (GRUPPO DI BRENTA).
Anche sotto cima Sparaveri quest’anno la natura è partita troppo presto. Prima dell’ultima neve ha fatto un caldo mai sentito. Gli orsi hanno anticipato l’uscita dalle tane. I maschi sono già a caccia di femmine in estro. Nascosto sopra uno sbalzo di roccia, sopra la malga Ceda di Villa Banale, Alberto Stoffella guarda tre bestie che possono raccontare qualcosa d’importante sulla vita nelle Alpi. Un adulto ha appena ucciso tre cuccioli, nati durante il letargo invernale. «I maschi — dice — sentono la concorrenza e hanno bisogno che le femmine tornino subito in calore, senza dedicare una stagione ai piccoli. Questi sacrifici sono l’assicurazione biologica per la sopravvivenza della specie».
Alberto Stoffella fa la guardia forestale, e da quasi trent’anni vive con gli orsi che ripopolano il Gruppo di Brenta. Sotto la pioggia è salito in montagna alle 3 di notte. Vuole capire perché un maschio giri ora attorno a due femmine, di chi fossero i cuccioli sbranati. Il loro comportamento può aggiungere una tessera cruciale al misterioso mosaico della natura che cerca di adattarsi a condizioni ostili. «L’orso — dice — sa che resistere qui è un evento prodigioso. Era geneticamente estinto, grazie all’uomo è ritornato. Siamo i soli organismi onnivori che hanno superato l’evoluzione sull’arco alpino: il nostro destino resta intrecciato».
Il ritorno dell’orso in Trentino è un fatto senza precedenti, un successo scientifico mondiale. Nel 1993 restavano tre esemplari vecchi. Oggi vivono qui da 49 a 66 animali: i cuccioli nati da qualche settimana sono tra 11 e 18. Erano tre secoli che le Alpi non potevano contare su una quantità tanto rassicurante del predatore più decisivo, capace di non soccombere allo sterminio e al saccheggio delle foreste. Con lui, tra l’Alto Garda e la Svizzera, sono tornati anche i lupi e un maschio di lince.
L’uomo che vive con gli orsi del Brenta non è solo. Anche oggi con lui c’è il cane Ceck, un Laika russo capace di fiutare a chilometri un pelo di plantigrado. «Analizzare reperti organici — dice Stoffella — permette di seguire via satellite ogni animale. Qui, prima di noi, c’erano loro. Fatichiamo ad accettare l’incertezza della natura, vorremmo ridurre ogni ambiente al protetto giardino sotto casa. La sfida dell’orso è la nostra: superare i limiti di un mondo prevedibile chiuso in un computer, dove emozionano solo i soldi».
La strage degli orsi neonati in Trentino, per la prima volta in Europa, è stata vista e filmata. È un documento eccezionale, custodito dai naturalisti in attesa di fare il giro del mondo. L’attacco è avvenuto su una parete a strapiombo sopra la val Ceda, che dal lago di Molveno entra nel cuore del Brenta. Poco dopo le 10 del mattino un grosso maschio ha aggredito la femmina, appena uscita dalla tana invernale con i tre cuccioli. «Due li ha sbranati subito su una lingua di neve — dice il forestale Renato Rizzoli — il terzo si è arrampicato su un larice ed è stato fatto cadere dopo una ventina di minuti. La madre ha lottato invano per salvare i figli, poi li ha cercati per ore tra i mughi, rugliando come impazzita».
Dopo giorni la femmina ancora li aspetta davanti alla tana, prossima ai tre nidi di una coppia di aquile, impegnate a nutrire il loro pulcino di cinque giorni. Gli scienziati sperano di scoprire quando l’orso che ha divorato i piccoli tornerà a fecondare l’orsa cui ha voluto accelerare il calore per trasmetterle i propri geni. «È l’attuazione straordinaria del ciclo della vita — dice l’ornitologo Paolo Pedrini — che sotto i nostri occhi torna a compiersi dopo secoli anche sulle Alpi».
Vivere con gli orsi impone di muoversi di notte. Di giorno si sta fermi, come loro. «Si sono adattati a noi — dice Claudio Groff — cedendoci la luce per occupare l’oscurità e gli strapiombi. Un tempo erano diurni, poi hanno capito che non potevano agire simultaneamente all’uomo ». Groff è il responsabile della sezione grandi carnivori dell’ufficio foreste del Trentino. Laurea in giurisprudenza, vent’anni fa ha chiesto di essere «dequalificato » da funzionario a guardaparco. Per tre anni ha seguito nei boschi i primi esemplari del progetto Life Ursus, prelevati in Slovenia. Ogni volta che può torna in quota per stare tra gli orsi e ammirare la forza completa e perfetta della vita. «Tutto avviene — dice Groff — con l’obbiettivo di conservare la specie, garantendo tutte le altre. Per questo traguardo l’orso ha scelto la solitudine, capace di conferirgli un carattere individuale. Conosce i luoghi e le stagioni, si sposta per seguire il cibo che gli serve, al 70% vegetale. Nel tempo è geneticamente cambiato: ora tocca a noi correggere la nostra prepotenza, se non vogliamo condannare lui e quindi noi stessi».
Lo spettacolo del rifugio segreto degli orsi in amore, dietro la val d’Ambiez e oltre i pascoli del Valandro, è assoluto. A un paio d’ore dalle industrie e dal traffico padano, sopravvivono i boschi di faggio e di conifere, le rocce calcaree che tornano a far incontrare gli orsi con i lupi, la lince con il gipeto, le volpi con i galli forcelli, i camosci con le marmotte. In queste ore i cuccioli di orso, nati di 300 grammi, crescono per raggiungere i 30 chili prima del letargo. Chi non supera la concorrenza e gli agguati muore per non indebolire la fibra del gruppo. «Penso al loro istinto per la generosità — dice Stoffella — e all’egoismo umano. Il 48% dei decessi di orsi è dovuto a cause riconducibili a noi, a partire dagli avvelenamenti».
Per accoglierli, l’opportunismo politico li pretende anonimi e invisibili. I nomi sono stati sostituiti da sigle, è impossibile affezionarsi. «Ma contro ogni previsione — dice Groff — in un’area di 20mila ettari si ricompone la millenaria catena della vita selvatica, che collega il Mediterraneo con le pianure che raggiungono la Scandinavia e i ghiacci polari. È un’oasi biologica decisiva: solo l’ignoranza degli uomini può distruggerla, stavolta per sempre». Nelle Dolomiti la primavera ha riportato l’amore e la morte che lo rende possibile. La vita, con una determinazione che commuove, ce la fa. La nebbia sfiora i tronchi artigliati dai giovani orsi che definiscono il pascolo estivo. I peli grigi coprono la corteccia. Stoffella li annusa e li accarezza, si ferma e ascolta le orse soffiare lontane nella pioggia.

Chi controlla il web

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Il grande potere delle cinque sorelle
Luca De Biase – Il Sole 24 Ore – 12 Maggio 2017
La trasformazione dell’economia alimentata da internet è sotto gli occhi di tutti. Il vortice innovativo della rete ha coinvolto interi mercati, dalla musica ai giornali, dai viaggi alle banche, dalla ristorazione all’ospitalità. Al centro del sistema si sono formate cinque gigantesche aziende come Apple, Alphabet-Google, Amazon, Microsoft e Facebook: hanno scalato le classifiche delle aziende più capitalizzate, hanno liquidità sterminate, continuano a crescere e ad accumulare denaro: solo nell’ultimo trimestre hanno registrato insieme 25 miliardi di dollari di profitti. Ebbene ci si domanda se il loro potere non sia diventato troppo grande per l’equilibrio economico generale, se quelle «cinque sorelle» continuino ad alimentare l’innovazione o se tendano a controllare troppo lo sviluppo del settore, se ci siano ancora potenziali competitori in grado di impensierire il loro primato. Il crollo di Snap in Borsa, ieri, aumenta la preoccupazione: Snap offre gratuitamente online Snapchat – la popolare applicazione che serve, tra l’altro, per scambiarsi foto che spariscono quando tutti i destinatari le hanno viste – e spera in qualche anno di raggiungere una quota di affezionati e impegnati sottoscrittori tale da garantire buoni margini con la pubblicità. Ma la crescita degli utenti ha rallentato da quando il concorrente Instagram, di proprietà di Facebook, ha introdotto funzionalità simili a quelle di Snapchat e, potendo partire da una base di utilizzatori più grande, è andata più avanti della piccola concorrente anche sul terreno dell’utilizzo effimero delle foto sul cellulare. Il gigante sembra in grado di assorbire la concorrenza della piccola Snapchat. È la fine della concorrenza per la rete? L’Economist, in un recente servizio di copertina, ha proposto di riconsiderare le normative antitrust per aggiornarle di fronte alla nuova condizione competitiva specifica dell’epoca della rete e dell’economia dei dati: in un contesto nel quale tecnicamente prevale l’effetto-rete, la tecnologia più usata ha un valore immensamente maggiore di quello delle alternative. Ma chi pensa che l’innovazione in rete sia per questo finita sbaglia di grosso.
A Venice, Los Angeles, nella sede di Snap, pare che non siano molto preoccupati del tonfo in Borsa. Del resto, quello che doveva fare, la quotazione di Snap lo ha fatto: ha reso ricchi i suoi fondatori e ha ingrassato le banche e le agenzie delle tasse. In effetti, la notizia più sorprendente è che le perdite accumulate da Snap nei primi tre mesi dopo la quotazione sono dovute per la maggior parte a due miliardi di «spese legate alla quotazione», cioè bonus e tributi vari. Intanto, il business sembra piuttosto lontano dalla quadratura dei conti anche a causa di Facebook. Ma da Snap ricordano che tutti erano stati avvertiti: nel prospetto informativo pubblicato all’atto della quotazione, Snap aveva spiegato che un rischio era proprio la concorrenza del gruppo di Facebook e la possibilità che il grande social network copiasse le idee di Snapchat rallentandone la crescita.
In questo genere di vicende ci sono delle regolarità. È già successo che il mercato finanziario non ascolti le parole di saggezza degli imprenditori. Jeff Bezos, in piena bolla dot-com, aveva avvertito gli investitori che la sua Amazon aveva un valore inflazionato dicendo a un certo punto che non avrebbe investito i risparmi di una famiglia nelle sue azioni. Il crollo in Borsa di Amazon avvenuto con l’insieme del mercato alla fine della bolla delle dot-com non ha impedito a quell’azienda di continuare a crescere per diventare il gigante attuale. D’altra parte, è giusto ricordare che pure Facebook ha fatto una strepitosa quotazione in Borsa e ha perso molto valore nei mesi successivi, ma alla fine si è ripresa. Potrebbe avvenire anche a Snap e agli altri competitori dei giganti?
La risposta alla fine è chiara. Il più grande conquista quasi tutto un mercato nel quale prevale l’effetto-rete: se ciò che definisce un mercato è l’elaborazione, la memorizzazione e la comunicazione di informazioni, la tecnologia più usata ha un valore in sé superiore alle alternative e quel valore cresce con il numero di nodi, come osserva la cosiddetta “legge di Metcalfe”. È molto raro in queste condizioni che un piccolo concorrente sia in grado di scalzare la leadership del più grande. Ma può succedere qualcosa di inatteso: che un’azienda inventi una nuova funzione e dunque crei un nuovo mercato del quale conquista la leadership. È il caso di Facebook che non è stata battuta dalla preesistente Google nel suo terreno dei social network; è il caso di AirBnb che non è stata battuta dalla preesistente Facebook nelle prenotazioni di stanze nelle case private e così via. Insomma, la competizione in rete non è tanto sulle quote di mercato, quanto sull’invenzione di nuovi mercati. Ebbene: o Snap inventa davvero una sua categoria di prodotto che crea un nuovo mercato nel quale è leader, oppure faticherà a competere contro Facebook.

Perché l’Italia cresce meno degli altri? Il vero problema è il debito

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di Marco Fortis  – il Foglio, 12 maggio 2006

Leggere i commenti sul perché l’Italia, secondo le previsioni economiche primaverili della Commissione europea, nel 2017 sarà ancora ultima per il pil scoraggia profondamente. Più che per la bassa crescita attesa (e per il consueto masochistico autocompiacimento nel definirci “fanalino”), scoraggia soprattutto per la superficialità delle analisi. E’vero. Nel 2017 nessuna economia dell’Unione europea avrà un aumento del prodotto più basso di noi. Ma perché? Se per semplicità e omogeneità di confronto ci concentriamo sui tre paesi più grandi dell’Eurozona, osserviamo che nel 2017 il pil della Germania dovrebbe crescere dell’1,6 per cento, quello della Francia dell’1,4 per cento e quello dell’Italia dello 0,9 per cento. Sgombriamo però subito il campo dall’idea che il divario di crescita tra noi e gli altri possa dipendere da una loro superiorità nel commercio internazionale. Infatti, come già avvenuto nel 2016, anche nel 2017 la domanda estera netta ha dato e continuerà a dare un contributo negativo a tutti i tre principali paesi dell’Unione economica e monetaria (meno 0,3 punti percentuali cumulati nel biennio per Germania e Italia e addirittura meno 0,9 punti per la Francia). Il nostro gap del 2017 dipenderà unicamente dalla domanda interna netta. Infatti essa darà un contributo dell’1,7 per cento al pil tedesco, dell’1,5 per cento al pil francese e solo dell’1,1 per cento al pil italiano. E qui sta il punto. Occorre disaggregare i dati. Infatti, se fosse vero che siamo poco competitivi, che le imprese non investono, che i cittadini non hanno ripreso a consumare o che il governo Renzi ha distribuito solo “mance”senza sostenere la crescita, come sostengono alcuni, la domanda interna privata italiana, al netto degli investimenti in costruzioni, dovrebbe essere caratterizzata da un profilo molto debole rispetto alle domande tedesca e francese. Invece nel 2017 l’insieme dei consumi delle famiglie e degli investimenti in macchinari e mezzi di trasporto delle imprese aumenterà in Italia dell’1,3 per cento in termini reali, esattamente come in Germania e Francia. Quindi non è certo perché gli 80 euro o gli incentivi dati alle imprese per assumere e investire sarebbero stati un flop che il nostro pil oggi è poco dinamico. Ancor più significativo è constatare che nell’intero 2015-2017 la domanda privata italiana al netto delle costruzioni è cresciuta cumulativamente del 5,1 per cento, cioè appena un decimale in meno che in Francia (più 5,2 per cento) e quattro in meno rispetto alla potente Germania (più 5,5 per cento): praticamente un divario impercettibile se spalmato su tre anni. Inoltre, nel 2017, grazie al piano Industria 4.0, l’Italia sarà il sesto paese Ue per crescita degli investimenti tecnici (più 6,4 per cento), ben davanti a tedeschi (più 1,4 per cento) e francesi (più 3,4 per cento): altro che “fanalino”! Le cause della nostra debole domanda interna non sono dunque da ricercare né nel settore privato né nella presunta inefficacia delle politiche economiche. La spiegazione è più banale di quanto si possa immaginare. Domanda domestica e pil crescono poco in Italia perché siamo super-indebitati e non abbiamo margini per aumentare la spesa pubblica. In Germania i consumi finali delle Pa sono cresciuti nel quadriennio 2014-2017 di ben 59 miliardi di euro a prezzi 2010, in Francia di 27 miliardi, mentre in Italia sono diminuiti di 2 miliardi. L’“operazione verità” di cui ha bisogno il nostro paese contro i luoghi comuni e il populismo è dunque sul debito, sul come ridurlo dopo averlo stabilizzato, sul come liberare risorse con le riforme e rendere lo stato più efficiente (soprattutto al sud). E non sul come affondare definitivamente i conti pubblici, magari con progetti tipo il reddito di cittadinanza.

Perché è urgente la Federazione degli Stati Uniti d’Europa

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Gli Stati Uniti d’Europa sono solo utopia? No, sono una estrema urgenza. E almeno per due ragioni: una istituzionale e una geopolitica e geoeconomica.


Mario Baldassarri – 4 Maggio 2017 Il Sole 24 Ore

Ogni giorno tocchiamo con mano la totale “assenza” o “irrilevanza” dell’Europa su tutti i fronti scottanti del mondo globale. Ebbene, questa Europa-che-non-c’è deriva dall’impotenza genetica di un progetto fondato sull’Europa Intergovernativa che richiede quasi sempre l’unanimità di tutti i 28 Stati membri (27 quando uscirà il Regno Unito). Ottenere decisioni unanimi con 27 governi in campo è “statisticamente” impossibile senza neanche ricorrere al teorema di Arrow che, peraltro, dimostra come siano impossibili decisioni democratiche prese a maggioranza, figuriamoci all’unanimità. È come se avessimo fatto dell’Italia una Confederazione nella quale il governo Centrale ed il Parlamento Nazionale non possono assumere alcuna decisione senza l’approvazione unanime dei venti governi regionali.
Per “decidere” occorre una Federazione, come negli Usa, in Canada, in Germania. Poi si può discutere delle funzioni da attribuire al governo federale e ai singoli governi nazionali.
Ci sono almeno cinque temi sui quali da oltre 20 anni gli Stati europei hanno già perso sovranità nazionale, cioè ogni capacità di decidere come singoli Stati. Anche questi sono sotto gli occhi di tutti ogni giorno. Difesa-Sicurezza-Immigrazione, Politica estera, Grandi reti di infrastrutture con in testa energia (elettricità, gas, petrolio), Alta ricerca ed innovazione tecnologica ivi compresa alta formazione di capitale umano. Si deve poi aggiungere il tema del controllo della concorrenza nei mercati dei beni e servizi e quello specifico della vigilanza sui mercati finanziari e bancari. Sul primo aspetto occorre una antitrust europea che non sia la sommatoria-ragnatela di 27 antitrust nazionali. Sul secondo aspetto occorre arrivare subito alla vigilanza bancaria europea guidata dalla Bce alla quale è già affidata la politica monetaria e la moneta unica.
Almeno su questi cinque temi il “recupero” di sovranità a livello di singoli Stati nazionali è impossibile. Chi lo propone o è inconsapevole oppure, se consapevole, fa semplicemente una bugiarda operazione di demagogia per raccogliere consenso a breve termine e ottenere, per sé stessi e per i propri cittadini, un risultato di totale irrilevanza a medio-lungo termine.
Basti pensare che viviamo tutti in Europa con 28 eserciti, 28 aereonautiche, 28 marine, oltre 50 servizi segreti (ogni stato ne ha più d’uno). Non controlliamo i confini “esterni” dell’Unione e qualcuno propone di ripristinare i confini “interni” che in chilometri sono almeno 7 volte più lunghi. Gas-petrolio-elettricità sono mercati concorrenziali fuori dall’Europa, ma quando si entra in Europa diventano cartelli oligopolistici concentrati all’interno di ogni stato nazionale con cittadini europei (vedi Italia) che pagano bollette del 30% in più rispetto ad altri cittadini europei (vedi Francia) sulle quali poi si aggiungono carichi fiscali che vanno dal 60% al 180% decisi da ogni singolo Stato nazionale. Noi in Italia abbiamo 354 sedi universitarie, fatichiamo ad avere quattro o cinque università riconosciute a livello internazionale e i nostri giovani se ne vanno all’estero per fare dottorati qualificati e per avere poi prospettive di ricerca e di qualificazione all’altezza dei loro saperi e delle loro potenzialità. E si potrebbe continuare…
A oggi il bilancio dell’Unione Europea è pari all’1,5% del Pil, il bilancio federale degli Stati Uniti è pari al 25% del Pil. Tra l’1,5% ed il 25% ci sarà pure una via intermedia. E questa non può che essere, per ragioni geopolitiche ma anche per ragioni geoeconomiche, una federazione degli Stati Uniti d’Europa “leggera” basata su quei cinque temi, con un governo federale fatto da un Presidente e cinque ministri, votati dai cittadini e “fiduciati” dal Parlamento europeo.
Senza parlare e straparlare di nuove tasse europee aggiuntive, se i soldi che già oggi ogni stato spende per quei cinque temi/funzioni vengono sommati insieme e vengono attribuiti al bilancio federale europeo, si ottiene qualcosa che è pari a circa il 10/12% del Pil, cioè a metà strada tra la situazione attuale europea e quella americana.
Tutto il resto… resta nella mani e nelle competenze dei singoli stati nazionali.
Due domande.
Perché non si fa?
Il vero perché non è soltanto “miopia” o “insipienza” politica, ma è prevalentemente dovuto al fatto che chi “controlla” quelle risorse a livello nazionale non intende facilmente “mollare l’osso”.
Chi ci sta?
Il perimetro ideale sarebbe quello dei 19 Paesi dell’euro, visto che hanno già una moneta comune. La necessità e l’urgenza indicano però che la vera risposta coraggiosa è: «Chi ci sta, ci sta». Basti pensare che se su questo si ricreasse un asse forte e lungimirante tra Germania e Francia, al quale associare con ruolo determinante Italia, Belgio, Olanda e Spagna avremmo circa il 70% del Pil e dei cittadini europei.
Chi ci sta, recupera sovranità e si salva.
Certo, l’elezione di Macron potrebbe essere il prodromo di questo percorso. Attenti però ai facili sondaggi ex-ante. Mai dire quattro se non l’hai nel sacco!
Chi non ci sta, può aderire dopo oppure dissolversi sul piano politico, e forse economico e sociale, in questo mondo globale del XXI secolo.

Mario Baldassarri è presidente
del Centro Studi Economia Reale

Le PMI accendono i motori

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Studio Confindustria-Cerved: il Centro-Nord vede l’uscita dalla crisi

Matteo Meneghello – 4 Maggio 2017 Il Sole 24 Ore
Un motore che sta riprendendo a girare, anche se ancora lontanto dalle prestazioni degli anni precedenti alle crisi. Le pmi del centro-nord si confermano il cuore produttivo del paese, con una forte propensione all’innovazione e una ritrovata redditività. Ora che la crisi è alle spalle, però, la spinta va rafforzata con una politica coesa di sostegno allo sviluppo e con la capacità di connettere le diverse componenti delle filiere tra di loro e con il mondo della ricerca. È questo il quadro emerso durante la presentazione, ieri a Milano nella sede di Assolombarda, del secondo rapporto Pmi centro-nord, promosso da Confindustria e da Cerved.
Un’indagine (condotta su un campione di 11mila imprese, circa 3 milioni di addetti e un fatturato pari a 727,5 miliardi) che ha analizzato, attraverso i bilanci delle imprese, le performance, le dinamiche demografiche e il merito di credito di una parte rilevante del sistema imprenditoriale italiano. Il quadro come detto è positivo: si arresta l’emorragia di chiusure e fallimenti e prosegue l’incremento della natalità (dal 2007 al 2014 il numero delle pmi italiane era calato di quasi il 9%). L’analisi delle principali voci del conto economico di queste pmi evidenzia inoltre una crescita del fatturato con tassi intorno al 3%, insieme alla progressione del valore aggiunto, che torna ai valori pre-crisi. Si comprimono però, nello stesso tempo, i margini lordi, come conseguenza dell’aumento del costo del lavoro e dell’erosione del fatturato e del valore aggiunto nel lungo periodo.
«Il rapporto – ha detto Stefan Pan, vicepresidente di Confindustria per le politiche regionali – fotografa un tessuto produttivo di pmi che riparte grazie alla robustezza di un cuore industriale che mostra risultati migliori che altrove. Dobbiamo spingere sull’innovazione per contaminare tutto il paese, agire sui fattori di contesto, intervenendo su alcune leve che restano critiche: ampliare i canali di finanziamento delle imprese è decisivo per accompagnare il rilancio degli investimenti privati»
Per Alberto Ribolla, presidente di Confindustria Lombardia, «è venuto il momento di iniziare a correre: fondamentale è la crescita dimensionale, o l’aggregrazione in cluster, concentrandosi sul know how e sulla formazione di un capitale umano in grado di soddisfare le esigenze del mercato del lavoro al passo con le tecnologie». Importante è anche «sburocratizzare il paese – ha ricordato Filippo Tortoriello, presidente di Unindustria -: la mole di normative, spesso farraginose nell’applicazione, come nel caso del Codice degli appalti, genera sofferenza soprattuto tra le Pmi, che rappresentano la parte più fragile del sistema». Roberto Zoppas, presidente di Confindustria Veneto, ha ricordato a sua volta che «credito, fisco e burocrazia sono spettri che si aggirano ancora nel nostro orizzonte: non possiamo perdere le nuove occasioni come i finanziamenti per l’innovazione, per Industria 4.0 o i fondi strutturali europei».
Lo sforzo deve coinvolgere tutti gli attori, perchè «nonostante i miglioramenti, le Pmi sono ancora distanti dai livelli pre-crisi – ha ammonito Valerio Momoni, direttore business development di Cerved – soprattutto per quanto riguarda la marginalità che presenta gap sul 2007 compresi tra il -21% del Nord Est e il meno -40% del Centro. Con meno credito bancario – ha aggiunto – le Pmi sopravvissute alla crisi hanno però aumentato la patrimonializzazione, pagano più puntualmente i fornitori: trend che ci aspettiamo possa continuare anche nei prossimi anni».