Debito, la pagella tedesca che promuove l’Italia

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  • L’annuale classifica della fondazione StiftungMarktwirtschaft calcola debito esplicito e implicito (compreso il welfare)
  • Il nostro Paese più virtuoso con il 57% del Pil, Germania al 149, Francia al 291

Marco Fortis – Il Sole 24 Ore – 26 febbraio

Ranking europeoA tutto potrebbe essere accostata la Stiftung Marktwirtschaft (SM), letteralmente Fondazione per l’economia di mercato, tranne che alla difesa degli interessi italiani. Infatti, questa istituzione basata a Berlino è un think tank di ispirazione liberista, molto vicina agli ambienti industriali e finanziari tedeschi, che ha fatto della lotta al debito pubblico uno dei suoi cavalli di battaglia e che pertanto non vede certo di buon occhio né le politiche espansive né la flessibilità di bilancio. Proprio per queste ragioni l’ultimo ultimo Rapporto della SM sulla sostenibilità dei debiti pubblici dei Paesi Ue giunge ad una conclusione per certi aspetti clamorosa. Continua pagina 27

Continua da pagina 1 E cioè che, considerando sia il debito pubblico “esplicito” (quello noto, di cui normalmente si parla) sia quello “implicito” (dato dagli impegni pensionistici e dai costi futuri per la sanità e l’invecchiamento della popolazione), il debito pubblico totale italiano è l’unico nella Ue ad essere sotto il fatidico tetto del 60% del Pil, precisamente al 57%, mentre quello tedesco è addirittura quasi tre volte più elevato (dati 2014).

Paladini del rigore

Sulla versione inglese del sito internet della SM (http://www.stiftung-marktwirtschaft.com/inhalte/the-foundation/homepage.html) spicca, tra gli eventi di maggior prestigio della Fondazione tedesca, il premio che essa ha attribuito nel 2014 al presidente della Bundesbank Jens Weidmann. Il quale, il 28 marzo di due anni fa, in occasione della cerimonia della consegna di tale riconoscimento, ha tenuto presso la SM una Lectio magistralis dal titolo “I principi dell’economia di mercato nell’Unione monetaria”. Nel suo intervento Weidmann sottolineava, tra l’altro, che «i pacchetti di salvataggio e le misure dell’Eurosistema hanno indebolito in modo permanente il principio della responsabilità individuale». Tanto per rimarcare, anche in questa occasione, il suo totale dissenso verso le politiche di allentamento del rigore nei riguardi di Paesi considerati non responsabili come quelli del Sud Europa.

Le origini della SM risalgono a circa 35 anni fa quando un professore, Wolfram Engels, e un imprenditore, Ludwig Eckes, si diedero appuntamento a Kronberg, un piccolo comune dell’Assia, per discutere di sviluppo e ripresa in un periodo di crisi che vedeva moltiplicarsi di giorno in giorno i salvataggi statali di imprese. Essendo entrambi convinti che la presenza dello Stato in economia dovesse essere la meno invadente possibile, decisero di dar vita ad un circolo di personalità favorevoli al rilancio dei principi liberali, della concorrenza e dell’economia di mercato: il Kronberger Kreis. Nel 1982 nacque la Fondazione, inizialmente conosciuta come Frankfurt Institute e in seguito come Stiftung Marktwirtschaft, oggi basata a Berlino sotto la direzione dei professori Michael Eilfort e Bernd Raffelhüschen. Il Kronberger Kreis continua intanto a funzionare come Comitato scientifico della SM ed ha come suo coordinatore e portavoce Lars Feld, uno dei “saggi” di Angela Merkel e tra i tedeschi più critici sulle richieste di flessibilità dell’Italia.

Negli ultimi anni il principale filone di studio avviato dalla SM è quello degli Stati “onorabili”, che si è sostanzialmente prefisso di dimostrare che occorre ancor più senso di responsabilità e rigore nella gestione dei debiti pubblici di quanto normalmente si faccia, sia in Germania sia in Europa. Ciò perché non esiste soltanto il debito pubblico “esplicito”, cioè quello che i Paesi ereditano dal passato e dal loro bilancio statale corrente, ma anche quello “implicito”, derivante dalle obbligazioni future che i Governi dovranno onorare. Di quali obbligazioni si tratta? In principal modo dei pagamenti delle pensioni future ma anche dei costi futuri per la sanità e le spese sociali derivanti dall’invecchiamento della popolazione. I debiti pubblici, in sostanza, sono ben più grandi di quanto comunemente si creda e, secondo la SM, vanno quindi fatti maggiori sforzi sia in termini di avanzo statale primario sia di riforme pensionistiche e della spesa sanitaria per evitare che i debiti diventino insostenibili. In questa logica, la misurazione della sostenibilità di una nazione non può basarsi soltanto sul debito “esplicito”. Accontentarsi di questo sarebbe un comportamento da cicale. Per essere formiche, secondo la Fondazione tedesca, occorre considerare anche il pericolo, di cui non si ha sufficiente consapevolezza, del debito “implicito”.

Gli Stati “onorabili”

Per mantenere alto il suo allarme sui conti pubblici la SM pubblica da alcuni anni un Rapporto che stima il “debito totale” della Germania e dei Paesi Ue in percentuale del Pil. Sin dai primi calcoli della Fondazione tedesca emerse però una sorpresa. E cioè che l’Italia, che aveva avviato importanti riforme pensionistiche e aveva dimostrato di poter esprimere costantemente nel tempo avanzi statali primari positivi, figurava tra i Paesi più “virtuosi”. Ciò a dispetto della cattiva fama del nostro Paese come debitore e del fatto che, da anni il nostro debito pubblico “esplicito” è, rispetto al Pil, il secondo più alto della Ue dopo quello della Grecia.

Evidentemente, lo scopo principale delle ricerche della SM non era e non è nemmeno oggi quello di dimostrare – del tutto incidentalmente – le “virtù” italiche quanto soprattutto spingere la stessa Germania a fare di più per ridurre il proprio debito, nonché denunciare, più in generale, il rischio di una corsa dei debiti in tutta la Ue con possibili esiti catastrofici. Sicché, anche se i risultati sugli “Honorable States” hanno inaspettatamente messo in luce che il debito pubblico dell’Italia è tra i più sostenibili nel lungo termine, aspetto tutto sommato non secondario nella querelle europea, da Berlino non hanno mai ritenuto di dover spedire alcun telegramma di congratulazioni al Governo italiano.

La notizia del nostro basso “debito totale” avrebbe casomai dovuto interessare soprattutto noi italiani, anche come arma negoziale. Invece no, perché nel nostro Paese, come da copione, fanno sempre premio le novità cattive piuttosto che quelle buone, specie in campo economico. I risultati delle ricerche della SM hanno così avuto solo una modesta eco entro i nostri confini. Delle analisi della Fondazione tedesca ha parlato quasi esclusivamente “Il Sole 24 Ore” in alcuni articoli negli anni scorsi e i (pochi) dibattiti e commenti nostrani sono stati quasi più ispirati alla diffidenza se non addirittura ad affermazioni liquidatorie del tipo: “Ai mercati interessa il debito di oggi non quello futuro…”.

Italia unico Paese Ue con il debito pubblico totale sotto il 60% del Pil

Tuttavia, non è soltanto la SM che ha puntato l’attenzione sulla sostenibilità dei debiti pubblici nel lungo termine. Lo fa da alcuni anni anche la Commissione europea con il suo indice S2, che, analogamente a quello della SM, sia pure con modalità differenti, dimostra che il debito pubblico italiano è strutturalmente il meno pericoloso della UE nel lungo periodo (Commissione Europea, Fiscal Sustainability Report 2015, p. 82). Ovviamente, anche di questo indice in Italia si sa poco o nulla: la Commissione UE, infatti, fa decisamente più notizia quando ci “boccia” che quando ci “promuove”.

Ma la novità del Rapporto 2015 della SM, per ora disponibile soltanto nella versione in lingua tedesca sul sito della Fondazione berlinese, è che mai come questa volta il debito pubblico totale italiano, in base ai dati del 2014, appare il più virtuoso in assoluto (http://www.stiftung-marktwirtschaft.de/wirtschaft/themen/generationenbilanz.html). Infatti, l’Italia ha un risparmio “implicito” attualizzato molto elevato che riduce il debito “esplicito”, con la conseguenza che il “debito totale” del nostro Paese è addirittura l’unico della Ue sotto il 60% del Pil, mentre la Germania è al 149%, la media della Ue al 266%, la Francia al 291%, la Gran Bretagna al 498% e la Spagna al 592%!

Queste cifre dovrebbero far seriamente riflettere sulla irrazionalità del Fiscal Compact. Il quale obbliga i Paesi europei, in primis l’Italia, a ridurre a tappe forzate il loro debito pubblico “esplicito” verso l’obiettivo del 60% del Pil (che è l’ossessione fissa dei “falchi” tedeschi), senza tenere conto del fatto che, in assenza di radicali riforme, nel frattempo il debito “implicito” potrebbe progressivamente palesarsi in tutta la sua pericolosità e far saltare il banco dell’Europa attraverso una esplosione del “debito totale”. Con un’unica paradossale eccezione di non poco conto: proprio quella dell’Italia, che i rigoristi tedeschi della SM promuovono clamorosamente come la nazione più “onorabile” ma che tuttavia continua ad essere la nazione più “bacchettata” sia da Bruxelles e Berlino sia da molti editorialisti del nostro stesso Paese.

A Shared European Policy Strategy for Growth, Jobs, and Stability

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LA PROPOSTA DEL GOVERNO RENZI PER IL RILANCIO: CRESCITA, LAVORO E UN MINISTRO DELLE FINANZE UEue-europa-mappa-euro-banconote-corbis--258x258

February 2016

The European project is suffering an unparalleled crisis: the policy reaction to the economic recession and large unemployment is often perceived as insufficient by European citizens, which often struggle to perceive the value added of being part of the Union. National interests are prevailing over the common good. Growing signs of disaffection, fed by the exceptional duration and intensity of the crisis, are boosting consensus for populist proposals; Euroscepticism is on the rise in almost every Member State.

If Europe is to be part of the solution – and not of the problem – we must rebuild trust among our citizens and between member states, and develop an EU-wide strategy to restore sustained growth and boost jobs. We have gone a long way towards more integration, but now Europe is at a crossroads: if we were to keep muddling through an uncertain recovery, progress in growth and job creation would fail to emerge and the Euro area would remain exposed to shocks, undermining its sustainability.

Against this backdrop we believe that the EU is a big opportunity. We must seize it and deliver to our citizens the solutions they expect. The Italian Government presents a far-reaching policy agenda and concrete proposals in order to contribute to the debate on how such an opportunity can become a concrete project.

  1. A Fragile Recovery: Challenges and Opportunities

The recovery that has been developing over the past several quarters in Europe is still too modest and fragile. Weaker external demand and uncertainties in the global outlook point to increased downside risks. A protracted period of exceptionally low inflation coupled with sluggish growth is negatively affecting the growth potential and weakening expectations on future economic perspectives. Crucial indicators such as employment, industrial production and investment are still far below the pre-crisis levels in several Member states. Imbalances have further widened, with negative consequences on the overall sustainability and resilience of the euro area.

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Signs of disaffection in the EU project, boosting consensus for populist perspectives, are much more widespread than we could have expected even at the peak of the crisis. These have been fed by the exceptional duration of the crisis. They are also fueled by the difficulties in perceiving the added value of being part of the European Union. On the contrary, especially in some countries, the response to the crisis has been perceived as exacerbating divergences and segmentation between core and periphery, despite the policy effort put in place. Overall, the Eurozone policy mix to counter the crisis and support a sustained recovery has proved to be inadequate.

More convergence, acceleration of structural reforms and stronger domestic demand are necessary to avoid that significant and persistent losses of output permanently affect potential growth. Decisive coordinated policy action is needed beyond the current policy mix and the positive contribution by the ECB policy stance. The urgent challenges of restoring sustained growth and anchoring expectations must be addressed. If, instead, Europe were to keep muddling through a hesitant recovery, progress in growth and job creation would fail to materialize and the euro area would remain vulnerable to shocks.

Furthermore, Europe is facing new formidable systemic challenges represented by the influx of migrants and asylum seekers. These challenges call for a coordinated policy response to provide immediate relief and design common initiatives to facilitate integration. Any tightening of internal border controls would be detrimental to free movement of labour and goods with negative consequences of unpredictable impact.

Relevant policy decisions can be taken now, following an integrated approach where the implementation of short term initiatives is part of an ambitious longer term strategy.

  1. A Comprehensive Policy Mix

A comprehensive approach for a more sustainable and resilient Economic and Monetary Union should aim at boosting growth potential while enhancing the adjustment capacity and flexibility of markets in all Member states also through better risk sharing. This policy objective can be fully achieved with a mix of short and longer term policy measures. Action must be accelerated on several fronts: structural reforms, investment, employment, the banking sector and the internal market. Actions on the different fronts are complementary and mutually reinforcing.

2.1 Governance to Boost Growth Capacity

The governance framework must provide the right incentives to growth-friendly fiscal policy and to continuous reform effort. However, further steps are urgently needed vis-à-vis protracted historically low levels of investment and employment. The three main pillars outlined by the recent Annual Growth Surveys – re-launching investment, pursuing structural reforms and promoting fiscal responsibility – should be seen as mutually reinforcing.

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The Commission’s communication on flexibility in the Stability and Growth Pact marked a step forward in improving the policy mix. It creates the appropriate incentives for reforms and investment. It strengthens the coordination between structural and fiscal policies triggering a virtuous circle: structural action and investments boost medium-term growth thus supporting consolidation of public finance.

2.2 Fiscal Policy

In presence of protracted modest growth rate and exceptionally low inflation even the extraordinary measures put in place by the European Central Bank are proving insufficient. Fiscal space should be fully used to support growth. At the same time, restoring a sustainable pace of growth and job creation is also the most effective way to keep debt on a sustainable path.

More symmetry is needed in macroeconomic adjustment. Very large current account surpluses have a negative impact on the overall functioning of the Eurozone just as current account deficits. To the extent that they reflect excess savings surpluses should be addressed by policies spurring investment, both private and public. A more cooperative approach to support demand would lead to a win-win equilibrium complementing structural reforms. The macroeconomic imbalance procedure should be implemented more effectively to this end.

The new European Fiscal Board should take a pan-European view in its analyses and formulate fiscal policy recommendations for the euro area as a whole. This is key to develop an aggregate policy stance and an EU-wide growth strategy which goes beyond the mere sum of national performance.

Fiscal rules should prove their adequacy to cope with a challenging economic environment. A framework designed for normal conditions of growth and inflation has proved incapable to tackle effectively the impact of very low nominal growth on potential growth and on debt dynamics. These shortcomings have implications for the measurement of fiscal indicators on which policy recommendations are based and should be addressed. Price developments should be more effectively embedded in fiscal rules.

2.3 Keeping the Reform Momentum

More coordination and benchmarking will stimulate reforms in all countries, facilitate domestic political support to reforms and improve implementation. The accommodative monetary policy creates a window of opportunity to boost the reform effort and enhance potential growth. A more coordinated effort among countries and policy instruments generates positive spillovers that testify for the added value of being part of an economically integrated area. Moreover, convergence and coordinated structural adjustment would bring more symmetry in macroeconomic adjustment.

All countries need to boost the reform effort. Structural reforms would support rebalancing both in surplus and deficit countries as they open profit opportunities that stimulate investment. This would also facilitate the implementation of a more

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balanced fiscal stance for the Eurozone as a whole and reduce current overburdening of monetary policy.

Furthermore, a much closer link should be established between the analysis and policy recommendations at the aggregate level and their implications for individual countries, taking into account the spillover effects of national economic policies on other countries.

2.4 Boosting Investment

Investment supports demand in the short-term and strengthens supply and potential output in the medium-term. Against a backdrop of slow and fragile recovery, investment is the top priority to put the EU back on a path of sustainable growth. Over the recent past, the fall in investment in the European countries has been dramatic and widespread; its reversal is still very slow.

To help reverse this trend, the Commission has launched the Juncker Plan and created the European Fund for Strategic Investment (EFSI). The Plan is an important opportunity to boost private investment with public support. The Plan is expected to activate projects which would not otherwise materialize, due to excessive risk, market failures, or financial and budgetary constraints.

The potential catalyzing role of the Plan has to be exploited in full, in synergy with resources from the EU budget and from national resources including national promotional banks, for genuine European investment initiatives aimed at financing European common goods such as Trans-European networks or the Energy Union. Knowledge-intensive initiatives, focusing on human capital, research, innovation and high-level education are investments with the highest growth potential and should be adequately supported. A strong effort in structural reform would exploit boost profit and investment opportunities.

Countries should fully use their fiscal space where available, to expand investment. The governance framework should provide for further incentives for investments in European public goods also at national level. Further common European initiatives should be explored: projects to enhance EU growth potential could be financed by joint debt issuances.

Finally, we share the idea of a Financing and Investment Union, where the completion of the Banking Union, the Capital Market Union and the Juncker Investment Plan contribute to the more effective channeling of savings into investment.

2.5 Completing the Banking Union

A key priority is to complete the Banking Union and preserve the confidence in the banking sector. Increasing the resilience of our banking system while limiting the impact of banks failures have been at the top of the policy agenda and significant results have indeed been attained. A lot has been realized to reduce risks, notably by strengthening

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prudential safeguards of banks with increased capital and liquidity requirements; by reinforcing supervision through in-depth EU wide stress tests and by creating the Single Supervisory Mechanism. Moreover, by implementing domestic legislation following the Bank Recovery and Resolution Directive and with the establishment of the Single Resolution Mechanism, the risk for the involvement of the public sector has been significantly limited.

The innovations put in place by the implementation of the BRRD directive are substantial and the adjustment in expectations and behavior of stakeholders to incorporate the new framework will take time to be completed. The implementation needs to be properly managed to avoid financial instability including through better information, communication, transparency and risk assessment.

However, the Banking Union is still incomplete and needs to be endowed with effective tools to address systemic crises. A framework for risk sharing is necessary to move forward towards credible prospects of financial stability. A European Deposit Insurance Scheme (EDIS) would significantly improve the functioning of the Banking Union, ensure more efficiency and financial stability. Most importantly, it would boost confidence, which is the key ingredient for the success of banking systems and contribute, in turn, to reduce risks. Furthermore, an early establishment of an effective common backstop to the Single Resolution Fund (SRF) is necessary to enhance the financial capacity of SRF and the overall credibility of the Single Resolution Mechanism. Risk sharing is part and parcel of a Banking Union that is to succeed in limiting market fragmentation and creating a true level playing field for firms all across the EU.

In parallel, further measures are needed to reduce – over the appropriate time horizon – high levels of private debt, to tackle non-performing loans and to improve the overall effectiveness of the insolvency frameworks. Coupling risk sharing with further risk reduction would greatly improve financial stability, support the recovery of credit activity and boost growth perspectives.

A fully developed Capital Markets Union will further strengthen the system and would facilitate diversifying sources of financing, especially for SMEs, and deepening the Single market. Moreover, it will contribute to better adjustments to shocks across the euro area, making the Economic and Monetary Union more robust and resilient.

2.6 Deepening the Single Market

Further strengthening the internal market is an opportunity that needs to be fully exploited: there is ample scope for additional benefits, through deeper integration, and stronger competitiveness. The internal market is the great common achievement of the Europe at 28. The Single market has been at the heart of the European growth strategy for more than two decades. However, national interests, institutional barriers and bottlenecks, both at national and at EU level, have prevented to reap the full benefits in terms of competitiveness and growth.

The ongoing efforts to revitalize the Single market, targeted at removing obstacles to the single capital market and creating a Capital Markets Union, overcoming the segmentation

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of the energy market, and promoting the digital economy and innovation go in the right direction. With regard to energy, the integration of national markets would have a significant impact on the competitiveness of the European economy. Further steps at the national level would complement progress towards the single market by creating conditions to facilitate investment opportunities. Areas where reforms would deliver considerable benefits include public administration reform, including access to public procurement, and reform of civil justice. Finally, progress in addressing unfair tax competition and in achieving more transparency in the tax area can greatly benefit cross border business activity and improve consumers’ welfare.

Ultimately we must keep in mind that the most promising source of growth in an ageing economy such as the EU is innovation driven productivity. In this respect the goal of a shared growth strategy should be to move towards a fully-fledged Innovation Union, i.e. the EU should adopt an integrated set of initiatives, to stimulate knowledge creation through investment in education and research, which are the main drivers of innovation.

Cooperation between euro area and non-euro area countries will be key. Further integration in the EMU and further integration in the European Union are, and should be seen, as mutually supporting and beneficial. Convergence within the euro area should not come at the expense of divergence with non-euro Member states.

2.7 A Common Tool for Adjustments in the Labor Market

An innovative approach is needed to promote and facilitate adjustments in European labor markets. In the euro area in particular, given the absence of the exchange rate most of the effort of the adjustment is borne by employment.

A macroeconomic stabilization mechanism is needed as countries under tight fiscal constraints may not be able to smooth the cycle and to deal with increases in unemployment in case of asymmetric shocks. Moreover, monetary policy may prove insufficient if the shock is country-specific.

A common mechanism to mitigate cyclical unemployment and its consequences would represent a feasible opportunity for the Eurozone to make a step forward towards sustainability and to strengthen the social dimension. Moreover, long term benefits would ensue as high levels of unemployment for a prolonged period of time entail a deterioration of human capital, lower productivity and a negative impact on potential growth.

A Fund to stabilize the labor market would provide resources to countries experiencing large increases in cyclical unemployment. Once established, it would be triggered in an automatic way avoiding complex and lengthy decision making processes.

An unemployment insurance scheme could help consolidate medium-term growth by smoothing the adjustment needed in presence of adverse shocks and limiting negative impact on other countries. It would amplify impact effectiveness and positive spillovers of national reforms. Countries that are not direct beneficiaries will gain from a more stable and prosperous macroeconomic environment. It would be a further sign of the irreversibility of the Euro, with a positive impact on confidence.

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An appropriate incentive structure can be built to limit moral hazard and avoid permanent and unidirectional transfers from some countries to others while increasing risk sharing. For example, the mechanism could be triggered by a sufficiently large downward cyclical phase in a country leading to an increase in unemployment. The activation of the shared resources would be outside the control of national governments. As the mechanism would not deal with structural unemployment beneficiary countries still bear the responsibility of introducing structural reforms in the labor market . Far from being a shortcut for countries that are not accelerating reforms, the risk-sharing involved would be a driving force behind reforms and towards implementation of coherent measures across different Member states.

It could be financed either by earmarking part of the national resources allocated to unemployment benefits or with a fresh common fiscal capacity. Such an instrument could be established without Treaty changes, while building mutual trust and support for Treaty changes when needed.

2.8 Facing Pressure at European Borders

The European Union is facing an unprecedented challenge represented by the influx of migrants and asylum seekers. The refugee crisis is clearly a systemic issue, which puts Europe to the test. It is widely perceived by the public opinion as requiring a common European response. Also the subsidiarity principle points to the need of a European dimension to deal with the size and complexity of the issues at stake. A common and shared response is necessary. The Schengen agreement is one of the main achievements of European integration and must be preserved and strengthened.

A long term refugee policy is required as the phenomenon is expected to last. Sharing the responsibility for the management of external borders between the EU and the relevant Member states would represent a powerful response. Financial and human resources from the EU should complement national policies for rescue operations, administration of hotspots and first integration of refugees reaching the European frontier. These are European common goods that require EU level involvement. We need a win-win solution to balance the short term costs of funding the new policy with the long term benefits stemming from a more ordered process of transition and integration. The scope of the new policy of a shared management of the EU external frontiers requires different funding sources and would justify the recourse to a mutualized funding mechanism which could entail issuance of common bonds.

  1. From the Short-term to the Long-term View

To make the monetary union really irreversible we must manage our European common house by adopting a systemic, common vision.

A stronger monetary union needs strong common institutions. In addition to the Banking Union the following should be considered.

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The institution of the European Stability Mechanism (ESM) has been a major advance for the management of sovereign crises, through the use of pooled resources. We should focus on how to fully exploit the benefits of this pool of resources while preserving its ultimate firewall function. An ambitious goal would be transforming the ESM into a European Monetary Fund. In the shorter term, the ESM should become the backstop for the Single Resolution Fund to effectively safeguard financial stability in the Union.

The implementation of a common unemployment benefit would be a first step in developing a stabilization function to cope with asymmetric shocks and help in building the necessary trust for more ambitious initiatives in the future.

At the European Union level a financial initiative aimed to fund the common management of the external borders would also represent a relevant example of shared responsibility and provision of European public goods.

In the long term, the Monetary Union should be equipped with a fiscal capacity tailored to the tasks of promoting investments and smoothing the cycle. A strongly integrated area, such as the EMU, is characterized by public goods that can be better provided at a systemic level. This is the case of large-scale investments, stabilization function and financing of policies in Member states with positive spillovers.

These functions could be managed by a Eurozone Finance Minister. The value added of a Eurozone Minister would be to run a common fiscal policy and to ensure that a coherent and internally balanced fiscal stance is pursued at the aggregate level. To this end, a Eurozone budget would be needed, with adequate resources. Of course, such a Minister should be politically endowed to play this role. While this figure could be enshrined within the European Commission – along the lines of the High representative – it would be important to have a strong link with the European Parliament.

  1. Conclusions

One lesson arising from the crisis is that the stability and progress of economic and monetary union requires more mutual trust, between citizen and European institutions and among Member states and a more forceful systemic approach, which implies more attention to the positive externalities of the integration process. Mutual trust can be accumulated by showing peers that one country abides by the rules. Rules must be designed so as to reward compliance and discourage uncooperative behavior (i.e. prevent moral hazard). At the same time, rules must provide for risk sharing mechanisms which increase payoff for cooperative behavior. Risk sharing mechanisms are a key component of well-functioning monetary and economic unions. In other words rules must allow for mutualization. The two elements, risk mitigation and risk sharing are reciprocally reinforcing. Preventing moral hazard strengthens trust and supports mutualisation. Risk sharing and mutualisation offer a powerful incentive to abide by the rules and prevent opportunistic behaviour.

Rebuilding trust among Member states, and defusing national prejudices are the principles that should guide the actions of European governments. These efforts must include all 28 Member states. Many of the above steps, notably deepening the Single market, developing

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a well-functioning Capital Markets Union, the Investment Plan, as well as possible initiatives for dealing with the refugees crisis – are EU matters and will be discussed in 28 formation. The degree of cooperation between ins and outs on those topics will be key to make real advancements.

The debate on the future of the monetary union is a great opportunity to strengthen the resilience of the European economy and of the European project at large. How we move forward in this new challenge should be guided by a few key principles:

 The link between short term and long term issues should be strengthened and based on a common vision. There should be no excuse for concentrating only on the short term

 The distinction between measures that require Treaty changes and those that do not should not be an obstacle to ambitious policy goals. Much can be done with the current Treaty and thus build support for Treaty changes when needed

 Economic union is a multidimensional project. Strengthening monetary and financial integration should go hand in hand with measures to boost growth and jobs. This would show European citizens that Europe can be a part of the solution and not part of the problem

 Strengthening EMU should be an opportunity to strengthen the relationship between EMU and non EMU Member states with reciprocal benefits

L’intelligenza collettiva potenziata dalla rete digitale

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INTERFACCE, PIATTAFORME E SMART MOB: COSA CAMBIA PER LA NOSTRA VITA QUOTIDIANA

Guido Romeo – NOVA24 21 Febbraio 2016   Il Sole 24 Ore

Quando si tratta di intelligenza, il gruppo è molto più della somma delle parti. Il segreto è l’intelligenza collettiva, quel fenomeno naturale che permette alle api di organizzare i propri alveari in modo così efficiente da essere dei superorganismi, agli stormi di volare in formazioni serratissime senza mai scontrarsi e che, grazie alla rete digitale, sta rivoluzionando anche l’economia e la conoscenza. È per questo che, tra le «Lezioni di Futuro» non poteva mancare un approfondimento dedicato a questo nuovo campo dove le tecnologie del cloud e dell’intelligenza artificiale si stanno alleando con la ricerca comportamentale per disegnare organizzazioni in grado di compiere scelte migliori in tutti i campi, dagli investimenti, alla lotta al cambiamento climatico e perfino al dating. Per Pierre Levy, pioniere del settore e docente all’Università di Ottawa, l’intelligenza collettiva è, infatti, «una forma di intelligenza universalmente distribuita, costantemente aumentata, coordinata in tempo reale e in grado di indurre un’effettiva mobilitazione di competenze. Ma soprattutto, con una caratteristica indispensabile: la base e lo scopo dell’intelligenza collettiva è il mutuo riconoscimento e arricchimento cognitivo degli individui».

Il risultato di gruppi con un obiettivo e rete digitale sono le smart mob, le folle intelligenti descritte da Howard Rheingold. Un fenomeno in crescita e con un potenziale destinato a esplodere nei prossimi anni se si pensa che nel 2020 ci saranno 5,5 miliardi di persone, praticamente l’80% della popolazione terrestre, connesse attraverso gli smartphone. Ma come si trasforma l’intelligenza della folla in un valore per il proprio business? Gli esempi non mancano. Dalle piattaforme storiche come e-Bay e Amazon, dove il comportamento degli altri utenti ci aiuta a migliorare le nostre scelte anche se non li conosciamo direttamente attraverso consigli e reputazione, fino a quelle più recenti di crowdfunding come Kickstarter e IndieGoGo, più generaliste e quelle verticali su musica e arte come Tilt e ArtistShare. Non mancano nemmeno idee radicalmente nuove come gli esperimenti lanciati da Jelly, la piattaforma immaginata dal cofondatore di Twitter Biz Stone che vuole creare un motore di ricerca basato sull’intelligenza collettiva. Oppure Anonymous AI, dove l’intelligenza della folla si integra con quella artificiale per creare un sistema di mediazione delle decisioni che si sta rivelando molto più efficace dei sondaggi nel prevedere i risultati delle votazioni di larghi gruppi di persone.

Non mancano però le sfide da superare. Prima tra tutte, la comprensione di quali siano gli elementi fondamentali dell’intelligenza collettiva e come si può aumentarla, sia spingendo sulla tecnologia, che sul design delle interazioni. È per questo che «Lezioni di Futuro» ha incontrato Tom Malone, direttore del centro per l’intelligenza collettiva del Mit di Boston, che ha individuato i tre fattori alla base dell’intelligenza di un gruppo. Il primo è la percettività sociale dei suoi membri, ovvero, quanto sono bravi nel leggere le emozioni degli individui con i quali interagiscono. Un altro parametro altrettanto cruciale è quanto i membri del gruppo riescono a partecipare in egual misura nella conversazione. «I gruppi nei quali uno o due persone dominano la conversazione – spiega Malone – sono, in media, meno intelligenti di quelli dove invece la partecipazione è più equamente distribuita». Infine, c’è il fattore rosa perché i gruppi con più donne si dimostrano più intelligenti. Non abbiamo trascurato, infine, le frontiere di questo settore sempre più magmatico. Sul fronte delle tecnologie le prossime applicazioni della realtà virtuale avranno un impatto crescente, ma la vera sfida è su come organizzeremo queste risorse. Se l’intelligenza di un sistema dipende dalla contribuzione volontaria degli utenti, c’è bisogno di approfondire i fattori motivanti che spingono le persone a partecipare, disegnando incentivi per chi contribuisce e preservare l’intelligenza collettiva difendendo l’indipendenza dell’individuo.Intelligenza colletttiva

Se l’Europa delle regole dimentica la crescita

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di Alberto Quadrio Curzio – Il Sole 24 Ore 23 febbraio

 

Urgono interventi forti per rilanciare una crescita globale che rimane “elusiva”. Malgrado la qualificazione garbata, il messaggio è netto così come perentoria è la richiesta di intervento che presumiamo sia rivolta ai governi del G-7 e del G-20 e ai loro ministri delle Finanze che con i banchieri centrali si riuniranno tra pochi giorni a Shanghai. Queste sono le tonalità del recente rapporto dell’Ocse, un’istituzione molto qualificata che di norma usa un linguaggio più diplomatico. La rinuncia allo stesso indica la criticità attuale dell’economia mondiale sulla quale riflettiamo liberamente traendo spunti dal citato rapporto.

Il rallentamento mondiale. La preoccupazione viene sia da una crescita 2016 pari al 2015 ovvero la peggiore da 5 anni ma soprattutto dalla concomitanza di fattori negativi. Quelli di economia reale che indicano una pre-stagnazione con il forte rallentamento delle economie emergenti e la debole crescita di quelle avanzate, i prezzi delle materie prime in calo prolungato, il rallentamento degli investimenti e del commercio internazionale, la debole dinamica dei salari e dell’occupazione, una sostanziale staticità dei prezzi in vari Paesi sviluppati. Quelli di economia finanziaria che indicano turbolenze con forte caduta dei prezzi nei mercati azionari e alta volatilità che sconta già il rallentamento globale, il peggioramento delle posizione debitoria in valuta di Paesi emergenti, la precarietà di molti sistemi bancari, l’instabilità dei prezzi nei titoli di Stato.

Per contrastare questi squilibri strutturali l’Ocse chiede che si prenda atto come la politica monetaria ultra-espansiva non basta e che alla stessa va affiancata una politica fiscale, una spesa pubblica per investimenti e per infrastrutture, riforme strutturali nei singoli Paesi. Così noi interpretiamo la panoramica Ocse sul mondo che, come sappiamo, è privo di un “governo o di un coordinamento tra governi” salvo quello di fatto detenuto dai governatori delle banche centrali che non hanno titoli e poteri per essere onnipotenti.

CurzioLe critiche all’Europa. Quando si passa a valutazioni su singole aree economiche, colpisce la critica netta all’Europa. Ne siamo ad un tempo preoccupati, perché l’Ocse non è certo euroscettica, ma anche confortati perché si tratta di critiche costruttive come quelle (ci si scusi il parallelo) che noi spesso abbiamo fatto al “governo economico europeo”.

La critica all’Eurozona è forte in quanto si ritiene che la sua lenta ripresa sia un condizionamento rilevante alla ripresa globale. È una posizione opposta a quella di pochi giorni prima della Commissione europea per la quale la ripresa europea è messa a rischio da quella globale! Non siamo convinti di queste spiegazioni a scala internazionale e globale perché, malgrado la potenza dei modelli, gli errori sono frequenti.

Ci basta invece rilevare che il divario di quasi un punto percentuale nella crescita della Eurozona rispetto agli Usa nel 2015 (1,5% su 2,4%) è troppo e che l’avvicinamento nel 2016 risulta purtroppo al ribasso (1,4% Uem e 2% Usa). Un’Eurozona che cresce meno del 2% preoccupa persino più dei divari tra i tre grandi Paesi che si stanno tra l’altro avvicinando con una previsione sul 2016 di crescita per l’Italia all’1% a fronte della Uem all’1,4%, della Germania all’1,3%,della Francia all’1,2%.

Le previsioni sul 2017 danno un ulteriore avvicinamento dell’Italia (1,4%) a Francia (1,5%) e Germania (1,7%) in questa partita dei decimali che non ci conforta. Anche se l’Italia supererebbe la sua media annua di crescita dell’1% dal 2001-2006 (e ovviamente quella negativa dal 2007 al 2014) che furono anni molto più facili.

Le proposte all’Europa. Il giudizio dell’Ocse sull’Eurozona è chiaro: la politica monetaria ultraespansiva, i tassi di interesse ai minimi storici (e, aggiungiamo, l’esperimento acrobatico dei tassi negativi), i prezzi del petrolio crollati, il cambio favorevole dell’euro non hanno innescato un crescita degli investimenti e dell’occupazione adeguate. Perciò la Uem continua ad essere a rischio.

L’elenco Ocse delle cause di questa situazione e delle proposte per superarla è dettagliato ma noi lo compattiamo in due.

La prima è che politica economica europea si è troppo basata sull’austerità mentre la spesa pubblica andava e va riallocata verso gli investimenti soprattutto con iniziative comunitarie. Vanno aumentati gli investimenti pubblici “collettivamente” così da spingere la crescita sistemica in un contesto di sostenibilità fiscale. Gli investimenti hanno forti effetti moltiplicativi e quelli infrastrutturali favoriscono l’efficienza sistemica e spingono l’attività d’impresa. Il piano Juncker non sta producendo gli effetti preannunciati e la stessa Bei deve finanziare progetti più rischiosi.

La seconda è che le riforme strutturali nei singoli stati non sono avanzate in modo uniforme e ciò ha frenato l’aumento di produttività e competitività che, aggiungiamo noi, in un contesto di semi-stagnazione interna e internazionale per carenza di domanda avrebbe determinato effetti importanti solo se affiancato alle misure sugli investimenti.

Reagire rilanciando. Investimenti sistemici e riforme strutturali rimangono gli interventi cruciali per crescere e per riaggiustare la composizione e i livelli delle finanze pubbliche.

Per farlo bisogna prima riconoscere che il governo europeo in economia si è spostato troppo sulle regole dando la netta impressione di non essere in grado di contrastare con misure comunitarie forti la stagnazione incombente. Da troppe regole nascono sia le micro-deroghe richieste, spesso a ragione, da singoli Paesi sia l’euroscetticismo. Entrambi andrebbero contrastati dalle Istituzioni europee e dai Governi dei singoli Stati ispirandosi alla dichiarazione Schuman del 1950 e cioè promuovendo “realizzazioni concrete che creino anzitutto una solidarietà di fatto”.

I tre grandi Paesi della Uem (Francia, Germania e Italia) dovrebbero farlo anche con iniziative nuove come l’unificazione delle forze armate (vista con favore da vari membri del Governo tedesco) che libererebbe fino a 120 miliardi annui e che troverebbe un consenso ampio tra i popoli europei.

Senior’s Talent: una nuova cittadinanza digitale

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Senior talent unoCon Senior’s Talent propongo la condivisione delle esperienze e delle attività di Ricerca e Formazione sulla questione dell’invecchiamento, attraverso un lavoro di networking proposto a quel vasto movimento di Associazioni, Agenzie culturali, Gruppi presenti nel Web (Blog, Portali di informazione e di servizi), Fondazioni ed Imprese, Enti pubblici, che hanno adottato e praticano concretamente l’uso delle ICTs, de i social network e dei social media per il coinvolgimento della popolazione anziana nei processi di cittadinanza attiva.

E’ ormai acclarato che la rivoluzione digitale ha avuto e può ulteriormente determinare un impatto positivo nelle strategie  per affrontare la rivoluzione socio demografica in corso in Europa che, con il progressivo allungamento della vita ed il correlato innalzamento dell’età media, comporta la necessità improcrastinabile di promuovere programmi efficaci di protagonismo sociale ed empowerment della popolazione anziana.

Le tecnologie di rete possono costituire una risorsa fondamentale per orientare e supportare una longevità dinamica sia per quanto attiene l’adozione di stili di vita, sia nella individuazione delle soluzioni operative per :

  1. l’aggregazione comunitaria ed il poter contare sulla costruzione reti (corte e lunghe) di socializzazione, decisive per contrastare i processi di marginalizzazione e conseguente incremento del carico socio-assistenziale e sanitario sulla spesa pubblica;
  2. l’accesso all’informazione, alla conoscenza ed ai servizi: da quelli amministrativi a quelli assistenziali e medico- sanitari.

L’approccio culturale-organizzativo di Senior’s Talent costituisce una prima sintesi di elaborazioni e progettualità realizzate in Veneto, da soggetti espressione del Volontariato e del Terzo Settore, da Enti Locali e Strutture del Sistema scolastico, da Agenzie culturali e Fondazioni che si sono attivati autonomamente e/o che hanno partecipato ad iniziative promosse e finanziate dall’Unione Europea, attraverso il FSE ed altri strumenti, in particolare quelli finalizzati a sostenere programmi di Lifelong Learning, intesi come una prospettiva di permanente “apprendistato all’apprendere” (Quaglino, 2001) in tutte le età della vita, ed a far crescere l’importanza per le persone “che la consapevolezza di sé e del proprio valore va coltivata in ogni momeno dell’esistenza” ((Angori, 2012).

L’iniziativa mira ad approdare “Hub dell’innovazione sociale” attraverso il quale avviare partnership ed attività condivise per raggiungere contestualmente diversi obiettivi:

  1. innanzitutto l’ottimizzazazione delle risorse e delle competenze necessarie nella gestione del matching nell’attuazione dei programmi formativi finalizzati prioritariamente all’alfabetizzazione informatica ed alla “familiarizzazione” degli anziani alla variegata moltitudine di nuove tecnologie
  2. determinare, attraverso la creazione di format specifici, un dialogo ed un confronto intergenerazionale
  3. costituire un Polo di Studio e Ricerca in grado di interfacciarsi con i Centri, le Fondazioni ed i Dipartimenti universitari che sono impegnati sui temi e le questioni cruciali della Ageing population, in particolare per quanto attiene empowerment sociale e salute biopsichica
  4. acquisire e strutturare operativamente competenze, strumenti e proposte per orientare e supportare il mondo delle Residenze Sanitarie Assistenziali ed i Centri Diurni che ospitano gli anziani, ad avviare processi formativo-addestrativi ed organizzativi per farli familiarizzare con i social network ed i social media intesi come opportunità per alimentare la propensione alla socializzazione ed alla relazione
  5. avviare e consolidare canali di comunicazione e collaborazione sistematici tra le diverse realtà associative degli Anziani, dl Volontariato e del Terzo Settore, al fine di tematizzare e divulgare la questione della cittadinanza digitale
  6. focalizzazione dei vincoli e delle opportunità derivanti dall’Agenda digitale: la popolazione anziana rappresenta l’anello debole per ogni strategia di sviluppo sociale ed urbano incardinata sul processo di partecipazione dei cittadini e sulla crescente digitalizzazione dei servizi; il digital divide colpisce sia per quanto riguarda l’uso e la condivisione dei canali di comunicazione social che per l’accesso ai documenti ed ai servizi della Pubblica Amministrazione.

Su questi temi ed obiettivi, attraverso il Network di Senior’s Talent, saranno attivati rapporti e confronti con tutti gli Enti che a vario titolo dovranno e potranno contribuire a inserirli nei programmi esecutivi dell’Agenda digitale.

 

 

Sinistrati alla ricerca dell’isola che non c’è

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Mi sarebbe troppo facile l’ironia e finanche il rischio di una caduta di stile nel commentare l’ennesima dis-avventura politica di una vasta compagnia di giro di “sinistrati”, eternamente sognanti ed impegnati (si fa per dire) ad immaginare “l’isola che non c’è”, ma ben ancorati nei porticcioli e salottini al riparo dalle responsabilità che richiedono di misurarsi con la dura realtà dei numeri e dei conti, di fare scelte che selezionano gli obiettivi e combattono i privilegi corporativi (tutti), di contribuire con umiltà alla coerenza (valori) ed efficacia programmatica (concretezza) di una politica riformista unitaria. Per fortuna il simpatico Rondolino, con il suo quadretto familiare, mi ha risparmiato la fatica di arrovellarmi ed angustiarmi nell’incredulità di fronte al ripetersi di gargarismi ideologici, solipsimi, vaniloquenza ed inconcludenza che i vari Fassina, Cofferati, Vendola, Civati & C. si accingono a somministrarci con il lifting della “sinistra-più-a-sinistra-della-sinistra”.

A CHE ORA INIZIA LA RIVOLUZIONE?

di Fabrizio Rondolino – L’Unità 21 febbraio

RondolinoChissà a chi è venuto in mente di chiamarla “Cosmopolitica”, e perché. Cosmonauti erano gli astronauti sovietici, che partivano dal cosmodromo di Bajkonur cercando invano di arrivare sulla Luna prima degli americani. Oggi la Luna è più vicina, il desiderio più prossimo: rifare per l’ennesima volta la sinistra-più-a-sinistradella- sinistra (un’operazione cosmetica, dacché il ceto politico è sempre lo stesso), sconfiggere

il Pd, disarcionare Renzi. Poi si vedrà: forse edificare finalmente il socialismo in un paese solo, forse ritornare in Parlamento nonostante il fascistissimo Italicum (è sufficiente il 3%). Fatto sta che “Cosmopolitica” è il titolo del convegno che si concluderà oggi con l’intento di avviare la “fase costituente” del nuovo partito – provvisoriamente intitolato “Sinistra italiana” – che, a dicembre, dovrà raggruppare la maggioranza di Sel oggi controllata da Nicola Fratoianni (la minoranza è nel Pd da tempo) e una parte della minoranza del Pd, quella che fa capo a Stefano Fassina e Alfredo D’Attorre, con la benedizione (e la malcelata aspirazione alla leadership) di Sergio Cofferati e in attesa che i Bersani e i D’Alema si decidano a compiere il grande passo. Mancano però all’appello il partito di Pippo Civati, “Possibile”, e Rifondazione comunista, di cui peraltro Sel è stata una costola. Di un’altra costola di Rifondazione, il Partito dei comunisti italiani, sembrano essersi perse le tracce. In compenso il Partito comunista di Marco Rizzo corre da solo per il Campidoglio. Il campo dei rivoluzionari è dunque assai affollato, e assai più diviso che in passato: un motivo in più per “aprire un processo costituente – spiega Fratoianni – con l’obiettivo, entro l’anno, di arrivare al congresso fondativo di un’unica forza politica”. La “Leopolda con l’eskimo”, secondo la felice definizione dell’Huffington Post, era iniziata con una giornata di riflessione nel corso della quale professori, giornalisti e sindacalisti si sono avvicendati a spiegare quanto il mondo sia orribile e destinato a peggiorare ancora, secondo il modello retorico del marxismo scolastico, che invocava ad ogni sospiro il crollo inevitabile del capitalismo. Il catastrofismo è parte essenziale della subcultura che ha attraversato la sinistra dal ’68 in poi (e che il Pci ha sempre strenuamente combattuto in nome di Marx e soprattutto di Gramsci); ne consegue che i problemi non possono e non debbono essere risolti, perché il bene è nemico del meglio e la concretezza è nemica dell’utopia. L’esito, inevitabile, è il romanticismo rivoluzionario: “La sinistra vince sulla tecnica e sul marketing – si legge nel documento preparatorio di “Cosmopolitica” – se si trasforma in connessione sentimentale, in racconto performante capace di incidere sui bisogni, capace di mettersi in ascolto del desiderio”. Ieri l’assemblea si è divisa in 24 gruppi tematici, e oggi tornerà in seduta plenaria per la discussione politica: “Si parte, per cambiare l’Italia”. Per cominciare, però bisogna cambiare il Pd: anzi, abbatterlo. Tutte le battaglie dei prossimi mesi hanno infatti come unico obiettivo il partito di maggioranza: referendum anti-trivelle, candidati alternativi al Pd in tutte le maggiori città (anche a Milano, se prevarrà la linea di Fratoianni e Cofferati), promozione di due referendum abrogativi del Jobs act e della Buona scuola, “no” al referendum sulle riforme costituzionali. Resta da capire chi farà il leader, cioè come si comporrà l’equilibrio non facile fra quel che resta di Sel e la pattuglia di ex-Pd, e se la spunterà Fratoianni o Fassina. Ma è in piena attività anche Cofferati, forte di una carta esclusiva: l’età. Già, perché i nuovi miti della nuova sinistra sono due vecchietti, Corbyn e Sanders, e così l’ex leader della Cgil può sorridere soddisfatto: “Nulla va mai escluso”. “A che ora è la rivoluzione, signora? – chiedeva Vittorio Gassman a Stefania Sandrelli in una strepitosa scena della Terrazza – Come si deve venire? Già mangiati?”

Una democrazia fragile da curare e difendere (1)

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IL Paese sta vivendo un’intensa e travagliata stagione di passaggio politico-istituzionale in cui il mutamento della rappresentanza e della stessa forma-partito si accompagna e si intreccia con il processo riformatore ccon cui si mira ad incidere sia sullo strumento elettorale che sulla struttura istituzionale. Si tratta quindi di un tempo in cui il confronto, la riflessione culturale e la ricerca storica trovano un terrreno fertile per approfondimenti e focalizzazione di temi e questioni cruciali che hanno connotato la “qualità della nostra democrazia” e della sua possibile evoluzione. Ci proponiamo quindi di passare in rassegna e mettere in evidenza testi e pubblicazioni che affrontano la vicenda storica italiana recente e che aiutano a contestualizzare e comprendere meglio lo svolgimento, gli interrogativi ed i dilemmi della cronaca politica.

Il primo volume preso in esame è “Difendere la democrazia” di Alessandro Naccarato – Carocci Editore -, in cui il Deputato padovano del PD si propone di recuperare la memoria ed il significato dell’impegno del “PCI contro la lotta armata”: un contributo prezioso per una molteplicità di ragioni, ma in particolare perché l’analisi storica si snoda con un’esplorazione documentale inedita e l’osservazione – di un periodo intriso di sangue, asprezze ideologiche e tensioni – è “embedded”: l’autore cioè indaga e conosce bene quella Padova che ha costituito l’epicentro per la predicazione di “maestri” davvero malvagi e l’azione di gruppi sociali antagonisti e bande armate protagonisti di violenze inaudite, la cui memoria è fondamentale per saper riconoscere i fattori di vunerabilità della giovane democrazia italiana.

PRESENTAZIONE

Difendere la democrazia. Il Pci contro la lotta armata.

copertinaFino ad oggi la ricerca storica sull’eversione rossa si è concentrata soprattutto sui terroristi dimenticando le vittime e l’attività delle istituzioni, delle forze politiche e dei sindacati. Fino alla strage di via Fani, i ritardi e l’incapacità di comprendere la pericolosità delle teorie e delle pratiche eversive consentirono alle formazioni armate di agire nella sostanziale impunità e di svilupparsi sul piano logistico e militare.

Il Pci quando comprese i pericoli del terrorismo rosso? Come reagì? Questi sono gli interrogativi alla base del presente studio. Il volume, attraverso l’analisi dei documenti dell’epoca, ricostruisce l’azione decisiva svolta dal Pci nella sconfitta del terrorismo. Lo scenario nazionale viene affiancato dall’approfondimento della situazione di Padova, una delle città più colpite dalla violenza. Nel libro si incontrano alcuni protagonisti del gruppo dirigente comunista nazionale: Berlinguer, Pecchioli, Amendola, Napolitano, Chiaromonte, Lama, Bufalini, Violante, D’Alema; e padovano: Busetto, Papalia, Longo, Zanonato.

 

Sottovalutazioni e primi allarmi

Alla fine degli anni Sessanta il Pci fu sorpreso dalle posizioni rivoluzionarie dei movimenti studenteschi e si confrontò con i gruppi senza affrontare le profonde differenze ideologiche esistenti. L’organizzazione giovanile del partito comunista, la Fgci, fu travolta dall’irruzione delle nuove istanze ed entrò in crisi.

Nel 1972 la morte di Giangiacomo Feltrinelli e l’assassinio del commissario Luigi Calabresi determinarono una cambiamento di linea. Il gruppo dirigente comunista intuì l’esistenza di formazioni armate di sinistra con finalità eversive e decise di rompere il rapporto con l’estremismo anteponendo alla potenziale espansione del proprio consenso la difesa della democrazia e della Costituzione. Enrico Berlinguer, diventato segretario nazionale del Pci a marzo del 1972, nel Comitato centrale del febbraio 1973 spiegò che non era più sufficiente la polemica ideologica contro la diffusione della violenza, e promosse una mobilitazione per isolare gli estremisti. Il Pci riaffermò la propria strategia: dalla svolta di Salerno aveva scelto la strada della democrazia parlamentare ed era diventato un partito di massa che si batteva per realizzare la Costituzione e introdurre elementi di socialismo attraverso le riforme.

Nello stesso periodo il Pci si convinse di avere sottovalutato e alimentato per ragioni elettorali i contenuti negativi introdotti dal Sessantotto. Infatti l’estensione dei diritti individuali non era stata accompagnata da un corrispondente aumento dei doveri verso la sfera pubblica e si era diffusa una generalizzata richiesta di tutele particolari senza alcuna valutazione degli effetti devastanti sui futuri bilanci dello Stato. Si diffusero semplicistiche teorie sulla continuità tra fascismo e democrazia repubblicana, che descrivevano come simili i regimi autoritari e i paesi democratici a economia capitalista; si creò così uno spazio di consenso e di agibilità per la spinta eversiva per abbattere lo Stato democratico, per colpirne e ucciderne i rappresentanti a tutti i livelli: magistrati, politici, poliziotti, indistintamente accomunati nella categoria di “servi dello Stato”.

I successi nelle elezioni amministrative del 1975 e in quelle politiche del 1976 aprirono ai comunisti la prospettiva del governo con la strategia del compromesso storico, elaborata da Berlinguer nell’autunno del 1973 dopo il colpo di stato in Cile. I rapporti con la Dc si intensificarono e maturò un accordo per sostenere un governo composto solo da ministri democristiani. Dopo le elezioni del 1976, a fine luglio, Giulio Andreotti diventò presidente del consiglio di un monocolore Dc con l’astensione decisiva del Pci.

 

Il Pci tra fermezza e garantismo

Dal 1976 il Pci intraprese una lotta decisa contro il terrorismo rosso. Il Comitato centrale del 18 ottobre costituì una struttura specifica della Direzione, la sezione problemi dello Stato, che venne affidata a Ugo Pecchioli, un dirigente autorevole: ex comandante partigiano e poi membro della Segreteria e responsabile dell’organizzazione del partito. La scelta segnò un punto di svolta perché promosse e organizzò un’attività intensa contro il terrorismo a livello centrale e nelle principali federazioni provinciali.

Nel febbraio 1977, dopo l’aggressione degli autonomi al comizio del segretario generale della Cgil, Luciano Lama, all’università di Roma, il Pci per primo colse i rapporti tra Autonomia operaia, Brigate rosse e Prima linea e individuò nelle loro relazioni dialettiche il partito della lotta armata. In pochi mesi il Pci diventò la forza più attiva contro il terrorismo impegnando tutta la propria organizzazione. Vennero promossi convegni di studio e iniziative pubbliche, diffusi volantini e opuscoli per orientare gli iscritti e la popolazione. Inoltre il partito si attivò per rompere il muro di omertà che aveva protetto i terroristi e per superare alcuni luoghi comuni che descrivevano la polizia e i giudici come strumenti per la repressione antipopolare.

Nel 1978, dopo la strage di via Fani, il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro, ci fu una reazione anche degli apparati di sicurezza. Nei mesi successivi iniziò a dare i primi risultati la collaborazione promossa dal Pci tra cittadini, forze dell’ordine e magistratura: ci furono importanti arresti di terroristi e numerosi covi vennero individuati. La vicenda Moro cambiò il quadro politico e senza il leader democristiano i rapporti tra Dc e Pci si logorarono segnando la fine dei governi di solidarietà nazionale e della strategia del compromesso storico.

Dopo l’avvio a Padova e nelle principali città italiane delle indagini su Autonomia e sul partito armato, a sinistra si pose la questione del garantismo. I giudici furono accusati di avere costruito una montatura per perseguire reati d’opinione: la tesi venne esposta in un documento sottoscritto da 55 intellettuali, tra cui alcuni dirigenti e militanti del Pci, che venne pubblicato nel settembre 1979 da “Paese sera” e “la Repubblica”. I firmatari sostenevano che le imputazioni verso i capi di Autonomia non fossero suffragate da prove. I comunisti accusarono il documento di essere ambiguo perché si poneva l’obiettivo di salvare i livelli di libertà dagli arbitri del potere piuttosto che quello di salvare la democrazia dalla violenza eversiva.

Nel 1983, dopo che il terrorismo aveva subito colpi durissimi ed era entrato in una crisi irreversibile, nel Pci si riaprì il dibattito sull’eversione. In occasione della richiesta di procedere in giudizio e di arrestare Antonio Negri, scarcerato perché eletto deputato del Partito radicale, il Pci sostenne l’autorizzazione al processo ma propose di sospendere la decisione sull’arresto, provocando una profonda divisione interna.

A fine luglio nella Direzione si confrontarono due punti di vista opposti e il gruppo dirigente si spaccò a metà: 11 favorevoli all’arresto e 11 contrari. Berlinguer, prendendo atto della divisione, rimise la decisione ai deputati del Pci. Il gruppo parlamentare dopo lunghe riunioni propose di sospendere il voto sulla cattura fino alla sentenza di primo grado. La federazione di Padova, in aperta polemica con questa proposta, si schierò per l’arresto, sostenuta da numerosi docenti universitari che manifestarono amarezza e delusione per il cambiamento della linea comunista.

Perché una parte della sinistra e anche del Pci si schierò contro le indagini sull’eversione? I documenti della sezione problemi dello Stato offrono una risposta evidenziando due aspetti: la consapevolezza della presenza di simpatie verso i terroristi; la preoccupazione che alcune parole d’ordine eversive potessero trovare consensi nella propria base.

Per molti militanti della sinistra i terroristi non furono percepiti come avversari, furono a lungo considerati “compagni” che sbagliavano. Solo in Italia la violenza eversiva rossa fu accompagnata da una vasta area di complicità, indulgenza, e tolleranza e ci fu un forte rapporto tra gruppi eversivi, come Autonomia, e alcuni ambienti intellettuali e universitari. La suggestione rivoluzionaria e insurrezionalista era ancora presente in persone che avevano militato nei gruppi estremisti fino ai primi anni Settanta e poi si erano allontanate ed erano approdate ad altre organizzazioni della sinistra storica, come il Pci, il Psi e i sindacati. A sinistra nel tempo si era sedimentato, attorno alle teorie e alla propaganda di diverse formazioni estremiste contro le istituzioni, un terreno ideologico ostile alla magistratura e alle forze dell’ordine. Queste idee si sommavano a un antistatalismo diffuso in ampi settori della popolazione per diverse ragioni storiche e sociali: il rancore di parte del mondo cattolico contro uno Stato che si stava laicizzando, il ribellismo endemico, soprattutto nel Sud, dei soggetti emarginati come i disoccupati, l’evasione fiscale di numerosi imprenditori e liberi professionisti che usavano i servizi dello Stato senza pagarli, le suggestioni rivoluzionarie e anarcoidi dei reduci dei movimenti della fine degli anni Sessanta, le pulsioni massimaliste ed estremiste presenti in alcuni settori dei sindacati.

 

Padova

Padova costituisce un caso di particolare interesse per la presenza di numerosi dirigenti e militanti di Autonomia operaia organizzata e delle collegate bande armate: i Collettivi politici veneti e il Fronte comunista combattente. La città fu un laboratorio delle strategie e delle pratiche eversive, come ad esempio le notti dei fuochi e l’illegalità di massa: nel territorio padovano si concentrò un elevato numero di attentati e violenze che causò per lungo tempo un clima di terrore e di intimidazione.

A Padova si manifestò con straordinaria forza anche la reazione contro l’eversione da parte di alcuni partiti e del Pci in particolare. Il partito aveva affrontato nel 1962 uno scontro interno durissimo con il gruppo “Viva il leninismo”, che aveva contestato la via italiana al socialismo con posizioni estremiste. I dissidenti furono espulsi tra il 1962 e il 1965. I vertici della federazione furono stravolti dalla vicenda e si aprì una fase di profondo rinnovamento. Si affermò un gruppo dirigente con un orientamento politico in linea con la strategia nazionale che, isolando e contrastando ogni forma di estremismo, formò una generazione di giovani quadri capaci e preparati, tra cui Franco Longo, che diresse la federazione durante il periodo più violento dell’offensiva eversiva dal 1975 al 1983. L’attività del Pci di Padova contro l’eversione venne indicata come esempio da seguire durante il XV congresso nazionale del partito e dal segretario Berlinguer. I comunisti diventarono il punto di riferimento per molti docenti e cittadini che volevano contrastare la violenza e il terrorismo, conquistando credibilità e autorevolezza tra magistrati, forze dell’ordine, sindacati e associazioni democratiche.

La lotta al terrorismo trovò un notevole impulso dall’azione investigativa avviata a Padova dal sostituto procuratore Pietro Calogero, che individuò per la prima volta la struttura del partito armato e i rapporti tra Br, Prima linea, Autonomia e le formazioni minori. Dalle prove e dagli elementi raccolti in quell’indagine si svilupparono analoghe azioni giudiziarie nelle principali città italiane che determinarono lo smantellamento della rete eversiva di Autonomia e delle formazioni terroriste. Nei mesi successivi agli arresti, prima dell’inizio dei processi, si affermò un dato empirico a sostegno dell’intuizione e del metodo investigativi avviati dalla procura di Padova: il numero delle violenze diminuì drasticamente. Gli attentati commessi dalle organizzazioni armate di sinistra in provincia di Padova furono 1.036 nel 1977, raggiunsero il tetto massimo di 1.647 nel 1978, iniziarono a diminuire nel 1979 diventando 1.234, per poi scendere a 350 nel 1980, a 185 nel 1981 e a 102 nel 1982. I successivi processi confermarono il lavoro di Calogero: accertarono che Potere operaio e Autonomia si erano strutturate con un “doppio livello”, uno legale e palese per garantire l’impunità agli associati, e uno illegale e occulto per realizzare la lotta armata; dimostrarono l’esistenza di un’alleanza tra le diverse formazioni armate, costituita da rapporti politici, logistici e operativi, per raggiungere il progetto comune dell’insurrezione armata contro lo Stato.

 

Le imprese scommettono sulla ricerca interna

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Innovazione. Secondo i dati Airi la tendenza ha riguardato soprattutto le apparecchiature meccaniche, le auto e l’elettronica

Per reagire alla crisi gli investimenti «intra-muros» sono aumentati del 23% dal 2007 a oggi

Chiara Bussi – Il Sole 24 Ore 8 febbraio

Investimenti interniSempre più «dentro le mura», con addetti e attrezzature dedicate. Per sopravvivere alla crisi e cercare la svolta le imprese hanno aumentato la spesa in Ricerca e Sviluppo al loro interno, «intra-muros», appunto, come viene definita utilizzando il latino. Lo rivela la fotografia scattata dall’Airi, l’Associazione italiana per la ricerca industriale sulla base dei dati Istat: nel 2015 gli investimenti in innovazione sono cresciuti dell’1% rispetto al 2014, ma il balzo è stato del 23% dal 2007 ad oggi, passando da 9,4 a 11,7 miliardi, un livello mai raggiunto finora che rappresenta il 58% del totale della spesa in R&S (pubblica e privata) in Italia. «La crisi – sottolinea il presidente dell’Airi Renato Ugo – è stata pesante e ha eroso il 20% della struttura industriale. Chi è riuscito a sopravvivere ha giocato in casa e ha puntato sulle tecnologie più avanzate per restare a galla e svoltare, proprio mentre la spesa pubblica ha iniziato a diminuire». Quest’ultima ha infatti registrato un tonfo di circa il 18% dall’inizio della crisi ad oggi, mentre la spesa extra-muros, cioè quella affidata ad altre aziende, enti di ricerca pubblici o privati o Università è diminuita di circa il 6 per cento.

A trainare gli investimenti all’interno delle aziende è stato il settore manifatturiero che da solo rappresenta il 70% circa della spesa in R&S considerata. La tendenza, secondo le stime elaborate sulla base delle previsioni fornite dalle imprese, ha riguardato soprattutto i settori della fabbricazione di autoveicoli (che ha raggiunto una spesa in innovazione a quota 1,6 miliardi), di pc, prodotti di elettronica e ottica (1,3 miliardi circa) e di macchinari e attrezzature meccaniche (1,4 miliardi). Ma anche il farmaceutico e i servizi di informazione e comunicazione. Lo sprint della ricerca industriale resta però circoscritto in alcune regioni: i due terzi degli investimenti vengono realizzati al Nord, con la Lombardia in testa (27% del totale), seguita da Piemonte (17%) ed Emilia-Romagna (14 per cento). Al Centro la spesa si ferma invece al 16%, mentre è al 9% nel Mezzogiorno.

Non sorprende inoltre che le più propense ad aumentare la spesa in R&S siano state finora le imprese più grandi: il 62% degli investimenti sono stati infatti realizzati da aziende con oltre 500 dipendenti. Il fenomeno, tuttavia, sta iniziando a prendere piede anche tra le aziende più piccole, se si pensa che il 10% della spesa è stata realizzata da imprese con meno di 50 dipendenti.

Un’ulteriore accelerazione potrebbe arrivare anche in futuro con il patent box, l’agevolazione fiscale che prevede uno sconto d’imposta di una quota di reddito derivante dall’utilizzo di opere di ingegno, brevetti industriali, marchi di impresa, disegni e modelli, che è diventata pienamente operativa da alcune settimane. Secondo Ugo questo strumento potrebbe essere «il volàno ideale, a patto che la misura non venga imbrigliata dall’eccessiva burocrazia».

La distanza con gli altri big europei resta però ampia. Basti pensare che in Italia la spesa in R&S vale l’1,29% del Pil contro il 2,84% della Germania e il 2,35 circa della Francia. Lo dimostra anche l’ultima classifica elaborata dalla Commissione Ue: tra le 2.500 imprese a livello mondiale che si distinguono per l’attenzione alla Ricerca e Sviluppo solo 32 sono italiane. Per la Germania ne vengono invece citate 136, mentre 135 sono britanniche e 86 francesi.

Il problema non è solo di quantità, ma anche di qualità, con l’esigenza di promuovere un’innovazione responsabile. Il dibattito, che fino a quel momento riguardava le grandi aziende di alcuni settori specifici, è emerso durante il semestre della Presidenza di turno italiana nella Ue nel novembre 2014. Nel febbraio 2015 l’Airi e il Cnr (Consiglio nazionale delle ricerche) hanno siglato un Accordo quadro per razionalizzare le diverse esperienze per un utilizzo più efficace delle risorse dedicato allo sviluppo dei processi di R&D, anche nell’ambito della programmazione europea Horizon 2020, il programma europeo che finanzia l’innovazione. Per raggiungere questi obiettivi è stato creato un tavolo tecnico composto da rappresentanti del sistema pubblico e privato che ha individuato una serie di aree di intervento, come la necessità di incentivi per le imprese responsabili o interventi sulla formazione dei ricercatori.

Il sentiment democratico dei veneti

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Il sentiment democratico dei veneti sospeso tra le suggestioni Amish del Leghismo ed il monadismo della (attuale) dirigenza PD

 

All’insicurezza dovremo abituarci. Fa parte integrante della civiltà. E’ la sfida per il fututo che potremo accogliere se, piuttosto che pretendere di immunizzarci dai pericoli che vengono dall’esterno, sapremo procedere insieme, non come rigide monosfere, ma come parti di schiume che sanno coesistere”

Peter Sloterdijk – La società schiumosa, LA LETTURA 6 dicembre 2015

Formare comunità di destino in gruppi identitariamente deboli è un compito difficile, dal momento che sono necessarie grandi narrazioni capaci di interagire con l’uomo contempraneo in modo coinvolgente, senza risultare elitarie o lontane

Stefano Gnasso – Existential MARKETING

“C’è un’altra questionne fondamentale: dobbiamo attivare un grande circuito di democrazia dal basso. Il cittadino non può partecipare solo dicendo su Twitter che tutto fa schifo; dev’essere chiamato in prima persona a decidere il destino del suo quartiere, della scuola di suo figlio. Deve diventare parte di una gigantesca rete di partecipazioe democratica”

Walter Veltroni, Democrazia in pericolo. E Renzi deve avere cura della storia della sinistra – Il Corriere della sera, 27 gennaio 2016

 

Un Congresso imbarazzante

 

Lo slittamento del processo di rinnovamento-riorganizzazione del Partito Democratico veneto (perchè non di semplice Congresso si tratta) è sicuramente da collegare al diffuso imbarazzo determinato dall’esigenza di metabolizzare le recenti sconfitte elettorali (locali) ed interpretarne con lucidità le cause; a rendere ancor più problematica la “procedura” contribuiscono anche il clima politico-culturale e l’incertezza econnomico-finanziaria che condizionano l’attività politico-amministrativa regionale (Comuni e Regione) chiamata a fare i conti con tre vettori portatori di disorientamento e sottrazione di consenso:

  1. a) l’inaridirsi del rapporto fiduciario con una cittadinanza che, se si escludono i “flash mob” organizzati da comitati di varia natura antagonista e protestataria, è diventata progressivamente assente dall’arena pubblica;
  2. b) il costante ridimensionamento delle risorse finanziarie disponibili per un policy making che si proponga ed implichi una progettualità di vasto respiro e coinvolgimento dei cittadini: lo stesso comparto sanitario, che assorbe gran parte del budget regionale, è sostanzialmente “governato” da una tecnostruttura interna che può contare su una consolidata tradizione di buona gestione ed eccellenti professionalità tecniche socio-sanitarie;
  3. c) l’aumento della complessità sociale, economica ed istituzionale da affrontare che ha eroso e depotenziato le risorse ideologico-culturali dell’attività politico-partitica: la stessa Lega veneta ha – di fatto – delegato la sua “manutenzione ideologica” ad uno scalmanato leader esterno (milanese) che si è assunto il compito il compito di ravvivare la passione e la testimonianza con le sceneggiate su zingari, no europa, profughi, sicurezza e dintorni con incursioni demagogiche sui fatti di sangue nei quali la questione drammatica del diritto all’autodifesa da parte dei cittadini richiederebbero ben altro atteggiamento di serietà e rigore e non “sparate solidali”.

 

La Politica bussa alle porte

 

Eppure la necessità e le condizioni per riannodare i fili della rappresentanza e della funzione della Politica emergono prepotentemente alla porta dell’intera classe dirigente veneta.

Mi è capitato di ascoltare, in contesti nei quali si discuteva dell’esigenza e dei possibili percorsi per “Rigenerare il PD”, l’auspicio e la consapevolezza di sintonizzarsi con il “sentiment democratico” dei veneti, di comprendere insomma le ragioni profonde di un dietrofront tanto clamoroso degli elettori, passati nel giro di poco tempo dal successo alle Europee alla debacle delle elezioni regionali e locali.

Il tono delle battute e la sobrietà con cui venivano espresse le valutazioni mi sono apparsi non solo mossi da una giusta preoccupazione, ma anche una corretta indicazione metodologica, essenziale per recuperare un rapporto fiduciario virtuoso con i cittadini: una questione che non riguarda solo un partito malconcio come il PD, ma che interroga l’intero ceto politico amministrativo regionale che – è bene ricordarlo – è risultato eletto con il 57 % dei voti, ovvero in un contesto nel quale il Partito più rappresentativo è quello degli astensionisti consapevoli!

Se si è prestata la giusta attenzione nel leggere la stizzita reazione del Presidente Zaia nei confronti degli Industriali trevigiani, colpevoli a suo dire di essere dei voltagabbana per aver manifestato, nella loro recente Assemblea provinciale, un alto gradimento per i contenuti del messagglo rivolto loro dal palco, dal Presidente del Consiglio Renzi, si può meglio comprendere la fluidità che caratterizza le scelte elettorali e la difficoltà degli aspiranti leader ad accettarla.

Le attese deluse dei perdenti, ma anche la frustrazione del vincente, infatti, sono manifestazioni che tradiscono entrambe una “lontananza emotiva” dal comportamento politico dei veneti, tuttora giudicato con canoni interpretativi inadeguati, mutuati da quella pseudo disciplina delle previsioni e dei flussi elettorali che nelle pagine dei giornali è oramai assimilabile allo spazio ed all’interesse dei lettori che vengono dedicati all’astrologia: segni zodiacali e partiti accomunati da simili criteri probabilistici di valutazione (cosicchè un po’ di chance di successo non si nega a nessuno…).

Qui ci proponiamo di correlare un episodio significativo ed emblematico, riguardante un pezzo rappresentativo dell’opinione pubblica veneta particolarmente interessata e coinvolta nel “gioco del potere e della rappresentanza” ad una considerazione di carattere più generale sul cambiamento intervenuto – da parecchio tempo – nell’atteggiamento dei cittadini-elettori veneti nei confronti del “mercato politico” e nella valutazione dell’offferta proposta loro dalla variegata e frammentata platea partitica.

Riteniamo cioè che si sia oramai sedimentato un approccio disincantato che si esprime attraverso un nuovo “sentiment democratico” che li porta (in assenza di un’offerta stimolante, interessante) da un lato ad aderire al nuovo e maggioritario partito dell’astensione e dall’altro a cercare di ottimizzare il trade-off elettorale, ovvero identificare le formazioni che nel contesto politico-temporale contingente, presentano almeno un surrogato di novità e freschezza (è accaduto con la Lega, si è ripetuto con il M5S e con la “novità” (a sinistra) renziana.

 

 

L’endorsement imprenditoriale per Renzi.

 

Nell’apprezzamento per il Presidente del Consiglio, gli imprenditori hanno espresso non solo il gradimento per alcuni dei provvedimenti finora realizzati (Jobs act ii primis) ed annunciati (poi confermati nel testo finale) per la Leggedi Stabilità 2016, ma anche per i contenuti della metacomunicazione, ovvero l’annunciata (e condivisa) strategia di ampliamento dei confini e delle opportunità per la libera e responsabile iniziativa imprenditoriale, per il riconoscimento e la premiazione dell’impegno e dei meriti individuali, per il programma di efficientamento del mercato del lavoro, dell’attività politico-amministrativa e di “rendimento” delle istituzioni.

Gli imprenditori hanno cioè avvertito (ed immediatamente aperto le vele a) quel refolo di spinta liberaldemocratica che considerano – giustamente e legittimamente – incoraggiante per il rafforzamento di un quadro di scelte di politica economica e di riorganizzazione dello Stato che mettano al centro la competitività del Sistema Paese e delle Imprese, precondizione decisiva per affrontare le sfide dlla globalizzazione.

Di fronte a tale manifestazione di autonomia ed approccio laico, il rampollo della vecchia scuola dorotea, Zaia, cresciuto a pane ideologico e scambio di favori, si è mostrato sorpreso e stizzito.

 

Il bluff referendario di Zaia

 

Ma per lui, che in ogni caso può contare su una buona maggioranza consiliare, il problema fiducia desta poca preoccupazione tanto che si appresta a gestirlo rilanciando la “retorica della Repubblica Amish”, ovvero riproponendo ai veneti il patto neo-identitario basato sull’autonomia: una sorta di bluff o giochino di prestigio con cui mascherare i numerosi fallimenti etico-politici ed istituzionali che si sono manifestati nell’esercizio ultradecennale della leadership forza-leghista (ora lega-forzista), resi evidenti in particolare:

  • dal malsano rapporto con gli affari: leggi Mose e dintorni
  • dall’ostinata visione localista del sistema bancario, con-causa della mala-gestione e del tracollo delle Popolari di Vicenza e Treviso
  • dal mancato intervento sull’arretratezza del sistema amministrativo ancora fermo ai 580 Comuni impotenti ed incapaci ad affrontare l’innovazione organizzativa dei servizi
  • dalla marginale attenzione dedicata all’attuazione dell’Agenda digitale per l’infrastrutturazione e promozione della connettività, nell’ambito della governance
  • dall’inaffidabilità ed dal disimpegno nel gestire, con rigore, efficienza e solidarietà, l’emergenza dei flussi immigratori

il ricorso alla suggestione referendaria in una materia (il riordino istituzionale) che esige uno sforzo eccezionale di elaborazione e coordinamento, è un altro sotterfugio da politicante che serve a mascherare il vuoto strategico delle astrusità salviniane dietro cui la dirigenza leghista veneta si è nascosta negli ultimi due anni: leggi la campagna NO EURO, le frottole sulla FLAT TAX e – elemento paradossale e traumatico – l’abbandono del Federalismo per realizzare l’alleanza incestuosa con la nazionalista Le Pen.

Ebbene, a fronte di una palese necessità di ripensare criticamente sia la miope impostazione venetista che la prospettiva destrorsa di Salvini, Zaia propone l’operazione di puntare sulla formula strapaesana di un’autonomia senza progetto, facendo di conto di coagulare il sentimento regressivo del “noaltri contro tutti”, proprio nel momento in cui il testo della Riforma Costituzionale approvata dal Parlamento apre delle inedite opportunità di riorganizzazione e bilanciamento dei Poteri all’interno di uno Stato chiamato a rinnovarsi e tutelare gli interessi nazionali nel contesto europeo e della globalizzazione.

 

Esiste un’alternativa

 

La domanda cruciale che ci si deve porre a questo punto è: alla furbizia ed allo stratagemma procedurale di Zaia può essere contrapposta una strategia politico-culturale alternativa che intercetti e dia visibilità alla vasta maggioranza di cittadini veneti non creduloni, non coinvolti e – attualmente – non partecipi nell’agone politico-partitico, seppur desiderosi di veder avviato nella loro Regione e nel loro Paese (intese come entità connesse e cooperanti) il processo di modernizzazione e ri-socializzazione?

Bisogna partire dalla consapevolezza che il sentiment democratico dei veneti costituisce una risorsa immensa che ha costituito la leva decisiva per sostenere ed accompagnare i passaggi fondamentali della storia repubblicana: sia nella fase della ricostruzione che nei tornanti in cui si sono manifestate (contradditoriamente) espressioni e domande di rinnovamento del sistema politico-istituzionale e di superamento dei limiti e delle fratture sociali dello sviluppo.

E’ ad esso infatti che hanno attinto i molti coltivatori del sogno federalista, gli ispiratori e sperimentatori della sussidiarietà; è da esso che ha tratto linfa vitale lo spirito imprenditivo di massa per potersi misurare con le regole della competizione ed alimentare una cultura aperta al mercato ed alle prospettive dell’integrazione economica europea ed internazionale.

Ed ancora è il contesto peculiare delle relazioni sociali esistente nel Veneto che ha consentito di attutire i risentimenti e l’antagonismo classista nell’ambito del conflitto industriale, facendovi emergere le buone pratiche della partecipazione associativa-sindacale e della bilateralità orientata all’innovazione degli strumenti contrattuali e della tutela; così come è in esso che sono cresciute le performance del sistema socio-sanitario – annoverato come uno tra i modelli migliori a livello europeo – potendo contare su una estesa rete di welfare comunitario.

Certo, si tratta di un capitale sociale che va innanzitutto ri-conosciuto, compreso e valutato come dato antropologico-culturale con cui un Partito deve fare i conti e da cui partire per formulare una proposta programmatica convincente; evitando di utilizzare le letture fuorvianti di una pubblicistica superficiale e di una sociologia priva di competenze storiche e scientifiche per indagini approfondite, in grado cioè di produrre buona conoscenza ed orientare le scelte valoriali distintive che debbbono – sempre – caratterizzare una Forza politica che si candidi a rappresentare un’intera comunità regionale.

 

Il compito del PD

 

E’ in particolare al Partito Democratico che compete – per una molteplicità di ragioni – tale sfida; innanzitutto per prospettare ai veneti la praticabilità di un’alternativa che rappresenti una discontinuità di Governo di cui il Sistema regionale ha strutturalmente bisogno per uscire da un ventennio in cui il centrodestra si è dedicato, attraverso il combinato disposto di un’imbarazzante ed accertata contiguità con il malaffare e l’adozione di un linguaggio reazionario, al logoramento morale e civile del tessuto sociale ed istituzionale.

Il primo ostacolo che il PD veneto deve affrontare è dentro di sé ed è rappresentato dalla confusione identitaria che ne inficia la capacità di presa sulla società locale: il gomitolo della propria soggettività politica oltre che sfilacciato, è composto da subculture che in molti casi costituiscono un partchwork di copertine di Linus utili solo alla conservazione di posizioni personali e/o di piccoli gruppi di potere locale, oramai spiazzati non solo dal nuovo corso renziano impresso al Partito, ma – e questo è il vero nodo cruciale – dall’orientamento e dalle attese dell’elettorato post-ideologico.

Di conseguenza la scadenza congressuale annunciata, prima che una resa dei conti interna (che sarebbe ancor più paradossale se l’auspicato rinnovamento diventasse l’occasione per verificare chi ha fatto il “tagliando alla Leopolda” e chi no, a prescindere dal confronto sui contenuti progettuali e sul modello di organizzazione) deve costituire l’occasione per progettare una struttura di Partito in grado garantire l’ascolto ed organizzare la riflessività per una società veneta che chiede di essere coadiuvata ad affrontare le sfide dell’innovazione sociale, economica, amministrativa ed istituzionale.

Si tratta di un’opportunità per superare stantii formalismi burocratico-organizzativi – che ancora lo caratterizzano – e dare vita ad network agile (ottimizzando le enormi potenzialità operative consentite dalle tecnologie di rete) in cui le responsabilità siano fondamentalmete funzionali e di servizio, ovvero finalizzate a garantire:

  1. la permeabilità associativo-partecipativa interna ed esterna
  2. l’interfacciamento con le agenzie presenti nel territorio che producono conoscenza e ricerca su tutti i temi dell’agenda politica regionale
  3. capacità di orientamento ed anticipazione sui processi di sviluppo in corso, sia per contrastare la perversa retorica piagnona leghista-localista che – soprattutto – per alimentare e promuovere sul terreno politico-amministrativo ed economico-associativo la capacità reattiva delle imprese venete rispetto ai fenomeni della globalizzazione e della competizione
  4. l’attività di “filtraggio culturale” ed approfondimento sulle questioni che mettono in tensione le comunità locali: sicurezza (intesa in senso olistico), fenomenologia della nuova immigrazione, integrazione e conflitti culturali….
  5. I luoghi ed i momenti della riflessività per la declinazione dei valori e dei programmi del nuovo riformismo, ovvero facilitare la discussione ed il confronto (anche intergenerazionale), passaggio indispensabile per procedere all’aggiornamento culturale e – perché no – ideale di un Partito nel quale le icone del passato debbono cedere il passo ai valori, ai testimoni ed al protagonismo di un presente vissuto come tempo sfidante di sperimentazione e rilegittimazione del Progetto democratico
  6. La costruzione di nuovi linguaggi, strumenti e stili di comunicazione in grado di dialogare con il mondo giovanile e contrastare il “rumore” assordante del populismo, in parte determinato dall’assenza di “grandi orecchie” (copyright Morlino)

 

Rigenerazione della leadership

 

Insomma il nuovo PD deve diventare il laboratorio nel quale si forma e si ri-genera una leadership che si candida a diventare la classe dirigente che il Veneto aspetta (e si merita!), non certo una struttura che ripropone i cascami culturali ed il menù politico del ventennio passato, ovvero i “racconti” che hanno accompagnato un percorso nobile, ma che hanno irimediabilmente perso la loro attualità culturale e la forza di collante sociale in una stagione che richiede valori ed obiettivi significativi per la contemporaneità.

I bisogni e le domande sociali che oggi debbono essere intercettati e rappresentati, sono espressione di una accentuata frammentazione ed individualizzazione che rendono particolarmente difficile convincere a condividere un investimento sul futuro, ad aderire ad una progettualità per la quale è prevista una qualche rinuncia personale nell’immediato.

Nasce da questa situazione “vischiosa” l’esigenza di ricorrere, anche nell’ambito del proselitismo politico, all’empatia ed alla promozione di leadership carismatica che – nel caso di un partito democratico – vanno considerate risorse emotive ed organizzative da donare e condividere per il successo della mission, vissute nel rispetto di regole necessarie per l’instaurarsi di tornaconti e/o rendite di posizione personali, valorizzate e verficate nel rapporto fiduciario con gli elettori.

Solo in questo modo si può aggredire, con l’azione politica, il problema della crescente mancanza di orientamento ed offrire uno scenario ed una prospettiva significanti, ancoraggio per quanti sono alle prese con problematiche di disagio e smarrimento sociale.

E così il Partito ri-diventa un grande marketplace in cui molte storie individuali vengono condivise, i singoli entrano in relazione con la comunità, si fanno compagni di viaggio.

Insomma, in una situazione – quella presente – caratterizzata da una forte inerzialità, nel rapporto cittadini/politica, c’è bisogno di protagonisti – testimoni – racconti che mostrino alla comunità itinerari di crescita da percorrere, non narrazioni fini a se stesse.

 

Sentiment uno

Prodi: «Berlino ha sbagliato e ha aggravato la situazione»

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ProdiGiovanni Minoli – COMMENTI E INCHIESTE – 14 Gennaio 2016 – Il Sole 24 Ore

 

PRESIDENTE PRODI, DA MESI RENZI DICE NO IN EUROPA CON IL CAPPELLO IN MANO. HA RAGIONE?

Mi sembra ovvio, ma il cappello in mano ormai ce l’hanno tutti.

NEGLI ULTIMI ANNI È STATA UN’EUROPA DELL’AUSTERITY A GUIDA TEDESCA. È QUESTA LA POLITICA CHE HA FALLITO?

È qualcosa di più. La guida tedesca ha sbagliato l’economia e quindi ha reso molto più grave la situazione. L’Europa è in una deriva di sfrangiamento, di dissoluzione. Se continua così è perché ogni paese fa la sua politica, col cappello in mano o senza.

MA LA MERKEL HA FATTO SOLO GLI INTERESSI TEDESCHI?

La Merkel ha fatto prevalentemente gli interessi tedeschi perché è ritornato il principio di nazione.

ADESSO, DOPO I FATTI DI COLONIA, LA STESSA MERKEL CHIEDE AIUTO. NON È UN PO’ TARDI?

No, non chiede aiuto a tutti: fa un appello alla solidarietà che è quasi etica, morale, di comprensione.

SONO PAROLE DICE, PAROLE INUTILI. MA SCHENGEN SEMBRA NON REGGERE PIÙ, QUASI NON CI CREDE PIÙ NESSUNO, PROPRIO A PARTIRE DAI PAESI DEL NORD. È DA LÌ CHE COMINCIA IL CROLLO DELL’EUROPA?

Sì, ma non è che cominci da questo. Già con i lunghi anni della commissione Barroso il potere si è spostato dagli organi comunitari ai paesi. Applicando questa dura posizione su Schengen hanno cominciato a dare dei colpi molto gravi all’Europa perché Schengen, con la libertà di circolazione, è il simbolo dell’Europa.

MA C’È ANCHE UN FATTO CULTURALE DIETRO QUESTO FALLIMENTO?

Beh, c’è una scelta politica di ri-nazionalizzare tutte le decisioni.

È D’ACCORDO CON NAPOLITANO: SE SALTA SCHENGEN SALTA TUTTO, IL SENSO DELL’EUROPA NON C’È PIÙ?

Beh, a tutto si può sempre rimediare…

SENZA ESERCITO, SENZA POLITICA ESTERA E SOLO CON L’EURO: MA CHE COSA RESTA DELL’EUROPA DEI POPOLI PENSATA DAI PADRI FONDATORI?

Resta poco. Però tutti sapevano che esercito e politica estera sarebbero arrivati dopo, perché sono veramente l’ultima parte del concetto di stato. E poi la moneta non è solo una roba economica.

KISSINGER DICE: «L’EUROPA È UN GIGANTE ECONOMICO, UN NANO POLITICO E UN VERME MILITARE». SI LEGA UN PO’ A QUELLO CHE STIAMO DICENDO?

Beh, verme militare… Si è mantenuta la Nato come era prima, quando c’era il problema dell’Unione Sovietica. La Nato offre un ombrello totale all’Europa e gli europei dicono: perché dobbiamo spendere per l’esercito, quando ci sono gli americani che hanno basi dappertutto.

L’AUTONOMIA È SEMPRE PIÙ LONTANA…

Ma certo, però questo non è solo un problema europeo, ma di rapporto tra Europa e Stati Uniti.

MA PERCHÉ È COSÌ DIFFICILE OGGI SENTIRSI EUROPEI?

Dipende, non è che il sentimento europeo sia crollato del tutto.

PERÒ I POPOLI SEMBRANO PIÙ CONSAPEVOLI DEI GOVERNANTI CHE COSÌ NON SI VA DA NESSUNA PARTE. MANCANO I LEADER?

Oggi l’Europa non è più come la chiamavo io dieci anni fa una “unione di minoranze” in cui nessuno prevaricava, oggi c’è la Germania che nei Consigli europei detta la regola. Ma questa non è leadership, perché leadership vuol dire rendersi conto dei problemi di tutti. Gli americani finita la guerra hanno fatto il piano Marshall non perché facevano la carità cristiana ma perché intelligentemente capivano che dovevano comandare un gruppo forte, essere leader di un gruppo forte, la Germania non si rende conto di questo.

MA LEI NE VEDE DI LEADER ALL’ORIZZONTE IN EUROPA?

No, non ne vedo.

PERÒ, LA GERMANIA ALIMENTA LA ROTTURA PERCHÉ PREDICA L’UNIONE MA POI FA ACCORDI BILATERALI SUL GAS CON LA RUSSIA. E ALLORA?

Questo è un fatto gravissimo che io solo ho denunciato già sei mesi fa. C’è una tensione forte sull’Ucraina fra Ue e Russia. La Germania non ne vuol sapere di attenuare le tensioni e fa con la Russia il più grande accordo economico sul gas.

IL MASSIMO DELLA CONTRADDIZIONE POLITICA, GLI INTERESSI NAZIONALI E BASTA!

Non solo, ma che cambia il futuro dell’energia europea perché tutta l’energia arriverà dalla Russia attraverso la Germania.

E QUINDI LÌ C’È IL RUBINETTO!

Non solo, perché di gasdotti ne abbiamo già anche troppi. Il gasdotto del nord, quello che verrebbe raddoppiato, oggi lavora al 30% della capacità. Ma allora si vuole tagliar fuori e chiudere i gasdotti che passano attraverso l’Ucraina. Ma siamo matti! L’ho proposto mille volte e insisto: bisogna fare una società comune Europa-Russia-Ucraina, per regolare i gasdotti che passano attraverso l’Ucraina.

E QUINDI BISOGNA INTANTO TOGLIERE LE SANZIONI ALLA RUSSIA?

Quelle non bisognava neanche metterle!

A PROPOSITO DI QUESTE ROTTURE LA FRANCIA HA PRESO UN’INIZIATIVA MILITARE IN SIRIA, MA L’EUROPA NON L’HA SEGUITA. UN ALTRO SEGNO CHE OGNUNO SI FA GLI AFFARI SUOI?

Qui mi permetta di essere paradossale, ma cosa succede in questa Europa in cui le Nazioni ritornano a dominare? La Germania si è assunta il ruolo di presidente del Consiglio e Ministro dell’Economia; la Francia, che è in una debolezza estrema, fa il Ministro della Difesa, però lo fa senza accordi. Dopodiché chiede solidarietà, che in alcuni casi si può anche dare proprio perché c’è tutta questa storia comune, ma la solidarietà va contrattata!

SEMBRA CHE L’EUROPA POSSA REGGERE SOLO QUANDO C’È LO SVILUPPO, MA NON HA STRUMENTI E VALORI PER AFFRONTARE LE CRISI POLITICHE ED ECONOMICHE. È COSÌ?

La crisi è una spinta che tira, ma non è che la crisi non faccia pensare, la crisi può essere una molla. Sull’Europa di lungo periodo sono ottimista, nel senso che se siamo divisi, siamo finiti. Agli studenti faccio sempre questo paragone: nel Rinascimento gli Stati italiani erano i più bravi di tutti in qualsiasi campo, banca guerra, tutto; poi è venuta la prima globalizzazione, cioè la scoperta dell’America, e non si sono uniti. Il risultato è stato che sono scomparsi dalla carta geografica per tre secoli e mezzo perché nessuno Stato era grande abbastanza per fare le caravelle, costruire le nuove navi. Ora è la stessa cosa: le nuove caravelle sono le grandi reti che girano attorno al mondo e lo circondano, sono Google, sono Apple, Alibaba, e sono tutte americane e cinesi. Se andiamo avanti così noi scompariamo e quindi io sono ottimista perché a un certo momento ci sarà una reazione.

DE GAULLE DICEVA CHE L’EUROPA O VA DALL’ATLANTICO AGLI URALI OPPURE NON VA, QUINDI DEV’ESSERE UN EUROPA CON LA RUSSIA?

Dev’essere un’Europa in accordo con la Russia, un’unità con la Russia. La Russia membro dell’Unione è impensabile, perché dopo vi sarebbero due capitali, perché la Russia guarda anche all’Asia, perché la Russia ha una dimensione enorme. Quindi il nostro destino dev’essere un accordo con la Russia, ma non certo un’unione con la Russia.

MA GLI STATI UNITI SEMBRANO SEMPRE PIÙ LONTANI DALL’EUROPA, BASTA PENSARE ALL’ULTIMO DISCORSO DI OBAMA. INSOMMA IN PROSPETTIVA PUTIN È UN PUNTO DI STABILITÀ ANCHE PER L’EUROPA O NO?

Guardi, gli Stati Uniti sono in una stranissima situazione psicologica con l’Europa. Nelle università americane si studia sempre meno l’Europa, si chiudono i centri di studi europei. C’è questa strana situazione un po’ perché tutto si sposta verso la Cina, un po’ perché è ritornata fuori la Russia, l’attenzione per l’Europa viene meno anche perché la pensano scontata.

LEI PRESIDENTE È STATO IL LEADER EUROPEO COMUNQUE CHE PIÙ DI OGNI ALTRO HA VOLUTO L’EUROPA A 28, CIOÈ UN’EUROPA UNITA E SENZA GUERRE? HA SOGNATO UNA COSA IMPOSSIBILE? HA FATTO UN ERRORE FORSE DI VELOCITÀ?

Ma no, forse avrei dovuto essere un po’ più veloce (ride, ndr).

PIÙ VELOCE?

Lei pensi se la Polonia o l’Ungheria fossero come l’Ucraina. Se lasciavamo questi Paesi in balìa di nessuno… sarebbe (stato un disastro).

MI SEMBRA, PER PARLACI CHIARO E CHIUDERE, CHE LEI COMINCIA AD AVERE GRANDISSIMI DUBBI SULL’EUROPA COME È DIVENTATA.

Certo, la stupidità umana più far finire tutti i più grandi progetti. In questo momento c’è uno scatenamento di stupidità, come se i piccoli Paesi, o anche i grandi, possano fare da soli nel mondo. Neanche la grande Germania lo può fare.

E QUINDI QUESTA EUROPA CHE C’È OGGI È DESTINATA A MORIRE COSÌ?

Se sta così è in mezzo al guado. Il problema è che dobbiamo andare sull’altra sponda; dobbiamo far più Europa, se no, come ho detto prima, scompariamo dalla faccia della terra.