Tempo di lettura: 6 minutiLa via italiana dell’open innovation
di Alberto Di Minin e Nicola Redi – estratto da Nòva – Il Sole 24 Ore 6 settembre 2015
Risorse umane, corporate venturing e centri di eccellenza: le strategie utili, secondo il rapporto Action Institute
Senza lasciarsi prendere dallo sconforto del confronto internazionale e senza farsi distrarre da proclami e lustrini, l’ecosistema innovazione italiano può essere motore di sviluppo economico. Ma perché ciò avvenga ci vogliono buona ricerca, approccio industriale alla finanza e coraggio imprenditoriale. Questo il messaggio del rapporto Action Institute, un “Action Tank” indipendente fondato nel 2012 che formula proposte pratiche e d’impatto per rilanciare la competitività del Paese. Il rapporto, pubblicato a luglio, avanza nove idee per fare guadagnare centralità al progresso scientifico e tecnologico come driver di competitività, attraverso una strategia di open innovation.
L’obiettivo ultimo di questa analisi è applicare all’Italia i concetti sviluppati dalle raccomandazioni dell’high level group for innovation policy management, presentate poco meno di un anno fa, nel corso della Presidenza di turno Ue dell’Italia. Nello stesso spirito, a giugno, il Commissario europeo per la Ricerca e l’Innovazione, Carlos Moedas, ha rilanciato affermando che: «Una strategia di open innovation necessita il coinvolgimento di ricercatori, imprenditori, utenti, settore pubblico e società civile. L’Europa deve puntare sull’open innovation per capitalizzare i grandi risultati ottenuti nel progresso scientifico e tecnologico. Ciò vuol dire creare i giusti ecosistemi dell’innovazione, aumentare gli investimenti, accompagnare sempre più imprese e regioni verso l’economia della conoscenza».
Ecco dunque le nove proposte di Action Institute su come investire 160 milioni di euro in Italia per ottenere un’efficacia significativa sull’ecosistema dell’innovazione.
Sviluppo e valorizzazione delle risorse umane. Fabbisogno di 37 milioni. Stando al Researchers Report 2013 della Commissione europea, l’industria italiana impiegava 1,53 ricercatori ogni mille addetti. Metà della media europea (2,98), e ben lontani dalle esperienze Usa(7,40) e Giappone (7,63). Inoltre in Italia, solo 6 ricercatori post-doc su 100 dichiaravano di aver lavorato più di tre mesi in un’azienda privata; la media europea, anche in questo caso era il doppio. Partendo da questi dati è fondamentale avvicinare le competenze di mondi che non si parlano ancora, arrivare a una professionalizzazione del ricercatore (dottorando o post-doc) e del manager della ricerca. Tre le misure proposte: defiscalizzare cento borse all’anno per la partecipazione di ricercatori a programmi di accelerazione imprenditoriali, offerte da imprese con più di 50 dipendenti che si impegnino anche ad affiancare i ricercatori con propri manager junior; supportare 2mila nuove assunzioni di ricercatori che dagli enti pubblici di ricerca (Epr) passino alla ricerca in imprese private; fondo nazionale per l’accelerazione imprenditoriale di circa 20 progetti di trasferimento tecnologico maturati nell’ambito di università ed Epr.
Corporate venturing. Fabbisogno: 37 milioni. Il corporate venturing è ormai la strategia di riferimento per i grandi gruppi industriali nel mondo e strumento fondamentale di open Innovation. Nell’ultimo trimestre 2014, un terzo degli investimenti in start-up americane è stato effettuato da fondi corporate. Tra il 2011 e il 2014 in Europa l’88% dei disinvestimenti dei fondi di Vc è avvenuto attraverso acquisizioni industriali. Particolare attenzione merita il settore del seed-capital dove negli Usa si stanno concentrando sempre più operazioni di corporate venture. In Italia, è cruciale sviluppare il legame tra imprese hi-tech e tessuto produttivo/industriale tradizionale. Tre le proposte: fondo a supporto di 25 progetti che entrano nelle graduatorie di programmi europei come Sme Innovation Instrument e Fast Track to Innovation, ma che per mancanza di risorse non vengono finanziati; fondo per raddoppiare su base nazionale il finanziamento Horizon 2020 ricevuto da cinque aziende italiane vincitrici di un Fase 2 dell’Sme Innovation Instrument; fondo nazionale seed che, sul modello israeliano, affianchi gli investimenti di grandi gruppi industriali e fondi di venture capital associati con incubatori o parchi scientifici (a regime 30 investimenti all’anno).
Centri di eccellenza congiunti pubblico/privato. Fabbisogno: 86 milioni. Queste realtà possono rappresentare delle vere e proprie fucine di open innovation. Solitamente il punto di partenza è un partenariato locale, finanziato da progetti svolti conto terzi. Stando a dati Anvur, alle università italiane arrivavano nel 2010 circa 515 milioni di euro tramite questi canali: risorse per metà concentrate nelle prime 10 università italiane. Quando queste collaborazioni si sviluppano possono esse stesse diventare calamite per attrarre ulteriori investimenti. Tre le proposte: defiscalizzare i contratti di ricerca su commessa che le imprese italiane sigleranno con Epr italiani, per un totale di 50 milioni di euro ogni anno; contribuire alle spese per l’istituzione di sei nuove partnership tra acceleratori imprenditoriali italiani e grandi acceleratori internazionali legati al mondo della ricerca; creare pacchetti di incentivi per attrarre in Italia nuovi investimenti in ricerca da parte di gruppi industriali internazionali, favorendo in particolare progetti finalizzati all’istituzione di centri di eccellenza congiunti con Epr italiani.
In Italia la sfida dell’open innovation si vince se le imprese (dalle startup alle grandi multinazionali) collaborano di più con la ricerca pubblica. Serve un ecosistema più maturo, incentivi diretti, investimenti mirati e competenze adeguate a questo nuovo scenario.
Alberto Di Minin e Nicola Redi
sono autori del Rapporto Action Institute
La via italiana dell’open innovation
PROGRESSO TECNOLOGIA SCIENZA
Risorse umane, corporate venturing e centri di eccellenza: le strategie utili, secondo il rapporto Action Institute
Senza lasciarsi prendere dallo sconforto del confronto internazionale e senza farsi distrarre da proclami e lustrini, l’ecosistema innovazione italiano può essere motore di sviluppo economico. Ma perché ciò avvenga ci vogliono buona ricerca, approccio industriale alla finanza e coraggio imprenditoriale. Questo il messaggio del rapporto Action Institute, un “Action Tank” indipendente fondato nel 2012 che formula proposte pratiche e d’impatto per rilanciare la competitività del Paese. Il rapporto, pubblicato a luglio, avanza nove idee per fare guadagnare centralità al progresso scientifico e tecnologico come driver di competitività, attraverso una strategia di open innovation.
L’obiettivo ultimo di questa analisi è applicare all’Italia i concetti sviluppati dalle raccomandazioni dell’high level group for innovation policy management, presentate poco meno di un anno fa, nel corso della Presidenza di turno Ue dell’Italia. Nello stesso spirito, a giugno, il Commissario europeo per la Ricerca e l’Innovazione, Carlos Moedas, ha rilanciato affermando che: «Una strategia di open innovation necessita il coinvolgimento di ricercatori, imprenditori, utenti, settore pubblico e società civile. L’Europa deve puntare sull’open innovation per capitalizzare i grandi risultati ottenuti nel progresso scientifico e tecnologico. Ciò vuol dire creare i giusti ecosistemi dell’innovazione, aumentare gli investimenti, accompagnare sempre più imprese e regioni verso l’economia della conoscenza».
Ecco dunque le nove proposte di Action Institute su come investire 160 milioni di euro in Italia per ottenere un’efficacia significativa sull’ecosistema dell’innovazione.
Sviluppo e valorizzazione delle risorse umane. Fabbisogno di 37 milioni. Stando al Researchers Report 2013 della Commissione europea, l’industria italiana impiegava 1,53 ricercatori ogni mille addetti. Metà della media europea (2,98), e ben lontani dalle esperienze Usa(7,40) e Giappone (7,63). Inoltre in Italia, solo 6 ricercatori post-doc su 100 dichiaravano di aver lavorato più di tre mesi in un’azienda privata; la media europea, anche in questo caso era il doppio. Partendo da questi dati è fondamentale avvicinare le competenze di mondi che non si parlano ancora, arrivare a una professionalizzazione del ricercatore (dottorando o post-doc) e del manager della ricerca. Tre le misure proposte: defiscalizzare cento borse all’anno per la partecipazione di ricercatori a programmi di accelerazione imprenditoriali, offerte da imprese con più di 50 dipendenti che si impegnino anche ad affiancare i ricercatori con propri manager junior; supportare 2mila nuove assunzioni di ricercatori che dagli enti pubblici di ricerca (Epr) passino alla ricerca in imprese private; fondo nazionale per l’accelerazione imprenditoriale di circa 20 progetti di trasferimento tecnologico maturati nell’ambito di università ed Epr.
Corporate venturing. Fabbisogno: 37 milioni. Il corporate venturing è ormai la strategia di riferimento per i grandi gruppi industriali nel mondo e strumento fondamentale di open Innovation. Nell’ultimo trimestre 2014, un terzo degli investimenti in start-up americane è stato effettuato da fondi corporate. Tra il 2011 e il 2014 in Europa l’88% dei disinvestimenti dei fondi di Vc è avvenuto attraverso acquisizioni industriali. Particolare attenzione merita il settore del seed-capital dove negli Usa si stanno concentrando sempre più operazioni di corporate venture. In Italia, è cruciale sviluppare il legame tra imprese hi-tech e tessuto produttivo/industriale tradizionale. Tre le proposte: fondo a supporto di 25 progetti che entrano nelle graduatorie di programmi europei come Sme Innovation Instrument e Fast Track to Innovation, ma che per mancanza di risorse non vengono finanziati; fondo per raddoppiare su base nazionale il finanziamento Horizon 2020 ricevuto da cinque aziende italiane vincitrici di un Fase 2 dell’Sme Innovation Instrument; fondo nazionale seed che, sul modello israeliano, affianchi gli investimenti di grandi gruppi industriali e fondi di venture capital associati con incubatori o parchi scientifici (a regime 30 investimenti all’anno).
Centri di eccellenza congiunti pubblico/privato. Fabbisogno: 86 milioni. Queste realtà possono rappresentare delle vere e proprie fucine di open innovation. Solitamente il punto di partenza è un partenariato locale, finanziato da progetti svolti conto terzi. Stando a dati Anvur, alle università italiane arrivavano nel 2010 circa 515 milioni di euro tramite questi canali: risorse per metà concentrate nelle prime 10 università italiane. Quando queste collaborazioni si sviluppano possono esse stesse diventare calamite per attrarre ulteriori investimenti. Tre le proposte: defiscalizzare i contratti di ricerca su commessa che le imprese italiane sigleranno con Epr italiani, per un totale di 50 milioni di euro ogni anno; contribuire alle spese per l’istituzione di sei nuove partnership tra acceleratori imprenditoriali italiani e grandi acceleratori internazionali legati al mondo della ricerca; creare pacchetti di incentivi per attrarre in Italia nuovi investimenti in ricerca da parte di gruppi industriali internazionali, favorendo in particolare progetti finalizzati all’istituzione di centri di eccellenza congiunti con Epr italiani.
In Italia la sfida dell’open innovation si vince se le imprese (dalle startup alle grandi multinazionali) collaborano di più con la ricerca pubblica. Serve un ecosistema più maturo, incentivi diretti, investimenti mirati e competenze adeguate a questo nuovo scenario.
Alberto Di Minin e Nicola Redi
sono autori del Rapporto Action Institute
Alberto Di Minin e Nicola Redi