MISSION 2014: CONTRIBUIRE ALL’ECOSISTEMA DELLA CONOSCENZA

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Assoretipmi

 

Viviamo un tempo in cui le parole hanno acquistato un appeal inedito, un “valore d’uso” che è diventato anche  un misuratore della serietà-credibilità di chi le profferisce.

Il loro significato è sempre più associato ai volti ed alle coerenze comportamentali; le personne sono sempre più identificate con il linguaggio che le  contraddistingue, tanto più  quando esso ha a che fare con l’esercizio di un’attività e/o di una professione che richiedono il possesso di competenze tecniche e scientifiche.

Nell’attuale temperie di crisi ed incertezza,  si è fatto più stringente l’esigenza che “le parole non siano staccate dalla pratica”, che insomma “le parole siano vissute” e  testimoniate.

Contestualmente siamo immersi in un mondo di relazioni frenetiche e di comunicazione  virale che  rendono le parole e le affermazioni più fragili: e quando escono dalle bocche ed entrano nel sistema dei media “frullatori”, colorite dalla   retorica,  accentuate dal marketing, caricate dal bisogno di autoaffermazione, l’effetto è duplice: o – come la maionese – impazziscono, o si svuotano della loro intrinseca verità, del messaggio originario di cui (erano) sono portatrici. E ciò crea la diffusione di incomprensioni, asimmetrie  dei codici espressivi, moltiplicazione delle interpretazioni su fatti e cose dapprima riconosciuti e valutati in modo  uniforme.

Non è quindi sorprendente che l’indicatore fiducia, nelle indagini demoscopiche che si susseguono incessantemente –  con riferimento a diverse questioni cruciali, dall’orientamento ai consumi al  rapporto con le istituzioni, dalla propensione agli investimenti alla crescita economica ed allo sviluppo occupazionale –  risulti  orientato al segno  negativo.

Una tale fenomenologia  è ormai  acclarata – perché abbondantemente analizzata e discussa – per quanto riguarda gli attori ed i protagonisti della  scena pubblica, siano essi parte dello screditato ceto politico o appartenenti alla inefficiente-costosa burocrazia amministrativa: in questo ambito lo scarto tra progetti-promesse-slogan e realizzazioni concrete ha letteralmente bruciato il significato e le attese che molte parole, “promettenti” e dense  di suggestione, avevano suscitato.

Meno chiari appaiono invece i rischi che stiamo correndo per l’abuso di parole nell’ambito della discussione e dell’attività divulgativa riguardanti i  temi ed i dilemmi  che la crisi  sociale, economica e finanziaria del “sistema Paese”  pone nell’agenda quotidiana dei media e della molteplicità dei soggetti (Imprese, Associazioni, Economisti e Ricercatori, Professionisti e Consulenti) impegnati a contrastarne gli effetti negativi ed a cercare credibili-praticabili  vie d’uscita.

Il  caso più eclatante e per molti versi rivelatore, su cui intendiamo soffermarci, è quello che si riferisce all’innovazione.

Senza dubbio essa  costituisce il mainstream di questa (lunga) stagione di recessione, una sorta di mantra invocato e dibattuto come scelta strategica, strumento e pratica decisivi per ridare fiato e slancio al sistema economico-produttivo del nostra Paese, visibilmente impreparato-affaticato nel reggere le sfide di una competizione globale che si gioca su fattori (finanziari, tecnologico-organizzativi, internazionalizzazione, efficienza amministrativo-istituzionale) visibilmente deficitari, con numeri e performance che non solo collocano l’Italia in degradanti posti in classifica, ma – purtroppo – ne prefigurano (in assenza di provvedimenti efficaci)  un declino inarrestabile, atteso che esso dura ormai da oltre un ventennio.

Esistono diagnosi abbastanza accurate sulle cause prossime di tale stato di crisi; numerose ricerche e convegni hanno focalizzato in modo inoppugnabile che il sistema produttivo italiano è caratterizzato da un deficit strutturale di efficienza e produttività, finora oscurato – per meglio dire mascherato – dalle straordinarie performance di un certo numero di Imprese e comparti del Made in Italy, in grado di raddrizzare, attraverso l’export, i conti della Bilancia commerciale, però insufficienti a ridare vento alle vele della crescita del PIL oltre la soglia di galleggiamento.

Da più parti (in primis Banca d’Italia) si indica quindi la necessità di superare tale gap puntando sui processi di innovazione che possono scaturire soprattutto dall’incremento delle relazioni collaborative  tra Ricerca ed Imprese.

E’ a questo punto però che l’auspicato e fondamentale circolo virtuoso non riesce a decollare, essendo ostacolato da  difficoltà ed incongruenze collegate sia con tradizionali resistenze e pigrizie di una parte del mondo accademico, sia con l’endemica incapacità delle PMI ad investire risorse significative su R & D; ma, a nostro avviso, ciò che rimane inesplorato e deve essere quindi svelato è l’imbroglio semantico che ruota attorno alla sfida – finora non affrontata nelle sue estreme conseguenze – dell’innovazione.

“Come si fa a favorire l’innovazione se il nostro linguaggio, e prima ancora il nostro pensiero, non sono innovativi”? Si condensa in questa affermazione di Enrico Letta,  qualche tempo fa (quando non era Presidente del Consiglio), il nodo  cruciale da risolvere.

Bisogna mettere in conto che il nostro è un Paese gravato da un pesante deficit di cultura scientifica , reso ancor più grave, nei suoi effetti sul sistema economico-produttivo, dal ritardo e dai limiti strutturali con cui l’Italia sta affrontando anche l’ultima innovazione dell’Information  and Communication Technology, quella che ha determinato  la rivoluzione digitale (vedi in proposito le vicissitudini dell’Agenda): tutto ciò rallenta i processi di trasferimento della conoscenza, accentuando il mismatching   tra mondo della  ricerca (non solo  università) e delle professioni  “high skilled”  ed imprese, facendo emergere in tutta la sua evidenza la questione che i sociologi hanno identificato come “prossimità cognitivo-sociale”.

Tale diagnosi è confermata dai  dati che fotografano un autentico  paradosso:

a)            mentre cala a livello mondiale la quota di mercato delle imprese esportatrici italiana, e cala la quota di brevetti delle imprese, al contrario aumenta la quota di pubblicazioni scientifiche rispetto sia al numero sia alle citazioni ricevute;

b)            i laureati italiani vincono molti ERC – European Research Council (http://erc.europa.eu/) ma non li spendono in Italia; né ci vengono i laureati dei Paesi più ricchi!

Si delinea un contesto operativo che impone prioritariamente di ridare un significato autentico all’innovazione, mettendo in campo progetti ed azioni nei quali la correlazione con  le parole adottate sia verificabile e valutabile immediatamente.

C’è bisogno di un “pensiero profondo ed umile” sorretto da una determinazione forte.

E’ l’ispirazione che deve caratterizzare la strategie e le iniziative di Open Innovation: affinchè la conoscenza e le competenze siano sostenute e promosse attraverso infrastrutture tecnologiche  e modelli organizzativi in grado di  accelerarne la circolazione:

–          superando le  barriere corporative,  le autoreferenzialità, le furbizie ed i tatticismi indotti dal pensiero pigro;

–          contaminando il tessuto delle PMI  in particolare laddove lo spirito imprenditoriale continua a dare segni di vitalità e creatività che necessitano di essere coniugate con l’intelligenza collaborativa;

–          adottando e praticando linguaggi e procedure che alimentino   la contiguità, l’empatia e la prossimità cognitivo-sociale che consentono di condividere le sfide.

ASSORETIPMI, dall’angolo di osservazione di neo-associato,  rappresentata una “piattaforma”  predisposta  a realizzare  ed implementare un tale processo virtuoso, luogo e strumento ideali per incoraggiare, arricchire e moltiplicare le buone pratiche.

L’ITALIA SOGNATA DAI VENETI

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Il 30 novembre del 1831 nasceva  Padova Ippolito Nievo, il patriota e l’autore di quello straordinario capolavoro “LE CONFESSIONI DI UN ITALIANO”, opera che più di ogni altra rappresenta il sogno e la prefigurazione di una nazione nella quale riversare le virtù dell’antica Repubblica veneziana.

Credo sia giusto rileggerla, senza timori di essere tacciati di passatismo, proprio in questi giorni in cui il Presidente della Giunta regionale del Veneto, Luca Zaia,  con la sua presenza alla manifestazione di Bassano, ha dato una dimostrazione clamorosa  e pubblica del probabile tormento e della  confusione  strategica che lo attanagliano, rispetto alla vicenda del  “Referendum  per l’Indipendenza veneta”.

Sta per arrivare l’onda di piena del discredito per lo scandalo della gestione dei finanziamenti pubblici alla Lega, oggetto dell’indagine della Procura di Milano arrivata a concludere che si è in presenza di una truffa da 40 milioni. E sarà  difficile e poco onesto riversarne colpe e responsabilità sulla “gestione lombarda” del partito e/o  sulla famiglia di Bossi. Così come risulterà inattendibile  rivendicare  un’estraneità ed una purezza da parte di   dirigenti e leader veneti che si sono dimostrati o ciechi o, in alcuni casi specifici co-responsabili. Posso quindi comprendere i dilemmi e gli autentici drammi di quella parte di popolo leghista che nel corso del ventennio trascorso, ha investito emozioni, passione, generosità e finanche un’ispirazione etica negli ideali del federalismo, inteso prioritariamente come buona amministrazione, lotta agli sprechi ed alla corruzione di uno Stato infiacchito ed  imputridito, giustizia distributiva nel governo delle risorse pubbliche.

Ma questo è il momento in cui, per chi esercita funzioni di  responsabilità –  in qualsiasi ambito ed a tuti i livelli –  si rende necessaria la  lucidità nel processo decisionale e capacità di distinguere tra riflessività autocritica e salto nel baratro.

I veneti hanno bisogno di messaggi politico-culturali  forti e chiari dai propri rappresentanti istituzionali; per i tatticismi elettorali,  per le  chimere e le suggestioni populiste ci basta ed avanza Grillo!

La leadership politico-culturale veneta, in questo frangente drammatico della storia italiana deve trovare risposte – possibilmente unitarie –   a questo interrogativo: come possiamo reimpostare, risanare e rilanciare il Paese riversandovi  il patrimonio di idee, imprenditorialità, competenza amministrativo-finanziaria e visione dello sviluppo (internazionalizzazione) di cui la nostra Regione è portatrice.

Insomma tutto il contrario dello “sbandi, non gioco più”: discutiamone, anche ferocemente,ma non facciamoci del male e non diamo alibi al mandarinato romano (che va preso a calci nel sedere),  ben lieto di ri-utilizzare a proprio vantaggio le minacce secessioniste.

…e riprendiamo a leggere il “nostro” Ippolito Nievo:

“La Repubblica Veneziana si preservò, è vero, con fortuna pari soltanto all’accorgimento, dalla confusione politica e sociale del resto d’Italaia e si astenne dal partecipare a’ suoi rivolgimenti ogni qualvolta dipendevano da altro che dal gran principio politico Italiano; ma le pochissime volte che un tal principio balenò confusamente alla mente della nazione e si fece strada a coordinare  gli avvenimenti, Venezia entrò a dominare naturalmente quella fase di vera storia Italiana colla preponderanza del suo senno, della sua antichità, della sua potenza” (Venezia e la libertà d’Italia, I, 88)

ATTENTI A QUEI DUE

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ATTENTI A QUEI DUE. Il populismo è una mala pianta  che  è coltivabile in modo più  produttivo (per raccogliere consenso)se si opera fuori dai vincoli delle responsabilità di governo. Ciò tanto più in un contesto sociale ed economico di cri…si e sofferenza, come quello italiano,  nel quale le scelte rigorose  (seppur eque) e responsabili  sono una strada obbligata,  non dall’Europa e/o dalla Merkel, come si vuol far credere, bensì  dall’esigenza improcrastinabile di risanamento finanziario e di incremento della produttività di sistema, con particolare riferimento ai settori sociali (spesa pubblica  clientelar-elettorale) e territoriale (gap di infrastrutture e di capitale sociale). La decadenza di Berlusconi, sancita oggi dal Senato, crea le condizioni per la “tempesta perfetta”, ovvero per il crearsi  di una situazione  in cui i tre maggiori leader politici possono lucrare sul vantaggio di un “approccio extraparlamentare”  nella polemica politica: accentuando le minacce apocalittiche (Grillo),  con il “fuoco-pressing  amico” (Renzi), con la riacquistata libertà propagandistica  (il Berlusconi). Al  più giovane dei tre – in quanto candidato alla segreteria PD – possiamo riconoscere  l’uso temporaneo  di un atteggiamento aggressivo,  nei confronti della timidezza dell’azione di governo,  che sicuramente non rafforza la necessaria stabilità. Ma, mentre dal sindaco di Firenze è legittimo attendersi  un sussulto di consapevolezza,  ci dobbiamo  aspettare, ora,  una stagione in cui i due “grandi comunicatori” (l’uno focalizzato nell’uso del mezzo televisivo e del casting per la selezione di una nuova leva  di  militanti, l’altro impegnato  nel rilancio del vaffa-day  e nella diffusione dell’anoressia cognitiva –  provocata dalla disinformazione digitale -) cercheranno di destabilizzare il quadro politico e lucrare sulla rendita da opposizione sociale. Per comprenderne la carica devastante e di spiazzamento  del Paese nel contesto europeo, basta confrontare tale atteggiamento con quanto sta succedendo in Germania… Come ho già sottolineato questo è tempo di reagire alla demagogia populista  con il linguaggio, la determinazione riformista e la coerenza programmatica  che possono essere espressi  promuovendo   un autentico  e diffuso protagonismo popolare in grado di  imporre un’accelerazione al processo decisionale (sulle scelte riguardanti risanamento & sviluppo, federalismo, legge elettorale,   giustizia) e sfidare – in Parlamento – le forze che preferiscono cullarsi nella prefigurazione di un Paese che esiste solo nella loro visionarietà irresponsabile.Visualizza altro

POPOLARI CHI? (2)

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L’argomento è di quelli seri e quindi lo introduco   partendo con un’annotazione di carattere leggero: qualche giornale ieri dava una  notizia, collocata in una improbabile  cronaca politica: “giovani UDC emiliani chiedono a Casini di fare un passo indietro”; si raggruppano nella correntina di  “Alternativa popolare”, ma credo non abbiano compreso che l’UDC è un piccolo “club personale” come quello  – molto più grande – di Forza Italia. Cionondimeno  il fatto si aggiunge a molti altri – anche più importanti, come l’Assemblea odierna promossa  dal Gruppo staccatosi da Scelta Civica –  che si segnalano come una significativa domanda di rigenerazione politica nel solco dell’esperienza storica del popolarismo.

La rinascita di uno schieramento ampio e coeso orientato dai valori etico-culturali popolari,  sgravato dal pesante fardello delle esperienze politiche che ne sono state ispirate, ma hanno esaurito (per ragioni non  ancora documentate ed analizzate in modo convincente) la loro funzione storica, e che sia in grado di coniugare il personalismo cristiano, un’aggiornata concezione liberaldemocratica e la strategia per  uno sviluppo secondo le linee dell’economia sociale di mercato, rappresenta una esigenza fondamentale della democrazia italiana.

In un altro frangente drammatico della vita del Paese tali valori sono stati un argine decisivo per sconfiggere  una visione ed una prospettiva totalitaria; oggi essi  rappresentano la risorsa a cui attingere per fronteggiare un rischio più subdolo e meno esplicito di come si presentava un Partito organicamente braccio operativo di una potenza straniera ostile. L’avversario si presenta  nelle variegate versioni del populismo (made in Italy):  rozzo e sovversivo nell’interpretazione che ne da l’ex  comico genovese,  velleitario e seduttivo  nella vulgata berlusconiana,  più sfumata ed ambigua in  altri aspiranti che si stanno allenando….

Ma  i nuovi protagonisti  del popolarismo, per essere convincenti e vincenti  dovranno darsi una disciplina ed un progetto  che li renda riconoscibili  nel linguaggio e nel comportamento;  ne i indico  sommariamente alcuni caratteri distintivi, valori  ed opzioni programmatiche, rinviando  ad lasciando apert chiedendo a tutti di aggiungervi giudizi ed integrazioni.

  1. Personalismo  non significa  leaderismo: la piena espressione della soggettività è sempre contemperata dalla sobrietà,   e dal sentirsi pari e parte in   una comunità
  2. Separazione netta tra la funzione di regolazione da quella di gestione:  abbiamo bisogno di vigore politico per rappresentare gli interessi  generali e salvaguardare le istituzioni dai condizionamenti lobbistici. Diffidate e, per quanto potete, denunciate amm.ri e politici che hanno esercitato e/o ricevuto  incarichi in  ruoli gestionali.
  3. Corollario: l’abnegazione e lo spirito di servizio sono tanto più praticabili se limitati con il vincolo temporale  dei mandati
  4. Il popolare non mira alla popolarità, ma ad essere riconosciuto (e gratificato) per le opere concrete realizzate
  5. Il popolare lo distingui nei talk show perché tenta di sottrarsi ai battibecchi ed alle polemiche e focalizzare il confronto su temi concreti evitando la retorica
  6. Il popolare non è riconoscibile perché  “cattolico-democratico”; tale  connotazione è di tipo sociologico o, peggio, giornalistico, e ha a che fare con un approccio laicista o fazioso  alla composita realtà del mondo cattolico
  7. Il  popolare  vive con passione le propria appartenenza alla comunità locale, ama il tricolore e sogna un’Europa più coesa e solidale
  8. Il popolare crede fortemente nei propri valori e li testimonia  a viso aperto, ma quelli che lo guidano nella società civile e nel  confronto politico sono la laicità, la tolleranza ed il rispetto del pluralismo
  9. Il popolare è convinto che l’impegno politico è una forma di espressione della generosità  che va comunque esercitata senza fanatismi, fissazioni ideologiche e acrimonia nei confronti dei competitor e degli avversari
  10. Il popolare è convinto che il sistema  politico democratico,  per evolversi e produrre risultati,  deve essere  un campo nel quale si confrontano due schieramenti alternativi, che prevalgono  con il consenso elettorale  e sono in grado di dialogare tra di loro perche consapevoli che entrambi  hanno una funzione limitata e comunque orientata al bene comune e non alla sopraffazione reciproca
  11. Il popolare, anche quando non l’ha letta, interpreta correttamente la lezione di N. Bobbio sulla democrazia
  12. Il popolare ha ben presente la dignità e la responsabilità  della Politica e per questa ragione ha l’orgoglio e la determinazione di tutelarne la funzione nei confronti degli altri poteri, contrastandoli quando questi (si tratti della Magistratura, Apparati dello Stato, lobbies economiche e finanziarie) manifestino la volontà di curvare le istituzioni ad interessi o visioni di parte
  13. Il popolare crede che la partecipazione ed il coinvolgimento dei cittadini costituiscono un metodo ed un parametro basici per la formulazione dei programmi e la valutazione delle policies ed a tal fine si debbono configurare le strutture dei Partiti con regole interne che ne garantiscono la trasparenza, l’accessibilità  più ampia e la contendibilità, ma soprattutto la capacità di dialogare ed interagire con le espressioni sociali e culturali più vivaci (think tank)
  14. Il popolare è consapevole che la rivoluzione digitale ha ampliato ed arricchito gli strumenti e le modalità di partecipazione consentendo di rendere normale la  loro adozione per migliorare i processi di governance e rendere più efficiente la  gestione  amministrativa dei servizi
  15. Il popolare ritiene quindi che tale innovazione debba essere adeguatamente interpretata ed assunta nell’ambito di un Agenda digitale per il rinnovamento della democrazia i cui contenuti e traduzioni  operative possono consentire di contrastare i disvalori, la faziosità e l’opera di falsificazione divulgati attraverso il web
  16. La cittadinanza digitale quindi deve costituire la continuazione ed il potenziamento della partecipazione  politica offline  nello spazio vitale delle comunità ed articolazioni amministrativo-istituzionali  nelle quali si sviluppa il confronto democratico

 

 

 

POPULISTI E POPOLARI (1)

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L’Europa si è sudamericanizzata”. “E’ diventata terra di populismi e irresponsabilità”. “La cultura si è fatta spettacolo, si è banalizzata, ha perso la capacità di risvegliare lo spirito critico essenziale in democrazia”. “L’Italia  è  tra i malati più gravi. Da voi la crisi non è solo economica, è anche morale, di Stato”….

Chi si esprime in questo modo così severo è Mario  Vargas Llosa – Premio Nobel per la Letteratura 2010 – in un’intervista al Corriere della Sera di mercoledì 20 novembre: ed è davvero difficile dargli torto.

Quasi come reazione consapevole al degrado denunciato dallo scrittore peruviano, nel mondo politico italiano si nota un fervore “popolare” ,  inteso come tentativo di ridare un fondamento etico-valoriale alla rappresentanza politica. E’ una buona cosa, ma credo che sia necessario essere avvertiti del rischio di “green washing”, ovvero che sia in atto un tentativo di numeroso gruppi  politici o brand partitici, ridimensionati nel consenso elettorale e verosimilmente scaduti come capacità di elaborazione di una proposta culturale e programmatica convincente, di darsi una ri-verniciatura per recuperare l’appeal perduto.

Siamo tutti reduci da un ventennio nel quale il linguaggio populista trasversale ha mascherato l’incapacità dei Partiti entrati in scena dopo il collasso della Prima repubblica, di innovare i contenuti  progettuali e le proprie strutture organizzative, per essere in grado, da un lato di inverare una partecipazione democratica più matura e consapevole delle regole di un bipolarismo europeo e dall’altro (contestualmente) dimostrare la capacità di aggredire con radicalità i virus che avevano infettato il sistema economico e l’apparato amministrativo-istituzionale di un Paese ammalato.

Sono un ottimista pervicace e quindi costantemente focalizzato sul mezzo bicchiere pieno delle realizzazioni  e dei processi di cambiamento intervenuti (e ne andrebbe fatto l’inventario da cui ripartire per incoraggiare la necessaria nuova stagione di riforme).

Ciò che ritengo fondamentale però in questa fase, a proposito di rilancio del popolarismo che con il socialismo costituisce il patrimonio costituente della cultura politica europea, è il riuscire a declinarne i valori distintivi affinchè ci orientino nella valutazione obiettiva   della nuova offerta in campo ed anche a concorrervi . E ciò sia per quanto riguarda il profilo personale dei protagonisti  dei tentativi di rinnovamento del quadro politico, sia – soprattutto – per quanto attiene i contenuti  delle proposte strategiche con cui si intendono affrontare la crisi economica e ancor di più la “catastrofe etica” che ne costituisce la causa più profonda e sottaciuta  da gran parte della leadership partitica.

La democrazia italiana ha sicuramente bisogno  del popolarismo, leva potente per ridare fiducia e motivazioni forti alla partecipazione dei cittadini, promuovere la competenza e la sobrietà, riscoprire la moralità nella vita pubblica, praticare la severità e la comprensione nel confronto,  fare della  coerenza  e del rigore dei comportamenti  un parametro di valutazione dell’esercizio della rappresentanza, alimentare lo spirito di servizio nei confronti delle istituzioni a tutti i livelli ed articolazioni istituzionali.

Ma ciò implica una rivisitazione critica delle espressioni storiche del popolarismo, così si sono  manifestate in Italia ed in Europa, una sua riproposizione  aggiornata e contestualmente l’affermazione di una nuova  leadership (classe dirigente)  che si candidi a farsi interprete di una stagione di cambiamento.

Si tratta quindi di definire scelte strategiche e regole d’ingaggio (continua).

 

IL FASCINO DISCRETO DELLE TRE VENEZIE

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Premessa n. 1: ho partecipato, da spettatore interessato, alla lunga gestazione del progetto per VENEZIA CAPITALE EUROPEA DELLA CULTURA , incuriosito ed ammirato del lavoro di tessitura del  Coordinamento inter-istituzionale (da Trieste a Bolzano) e di elaborazione del Piano strategico.

Premessa n. 2: nel corso degli anni e delle diverse tappe di avvicinamento alla presentazione della candidatura, ho annotato sia le molte suggestioni e ricadute che tale iniziativa suscitava, che alcuni limiti e contraddizioni che, sottovalutati e talvolta sottaciuti,  – di fronte alla avvenuta bocciatura – sono regolarmente emersi con puntualizzazioni e polemiche, dei diversi protagonisti,  che avrebbero dovuto essere espresse ed affrontate durante il percorso e non ex-post.

Una prima considerazione è relativa al controverso criterio del rapporto  Città-Territorio: si tratta di un argomento sul quale si è innescata una discussione di tipo burocratico-amministrativo curiosa e divertente (se non ci fossero di mezzo cospicue risorse pubbliche investite senza una preliminare chiarezza sulla procedura per partecipare al Bando).

Ma su questo aspetto, i rilievi più importanti emersi sono due:

a)      Il primo è quello formulato da Massimo Cacciari che, a commento del mancato accoglimento , se ne è uscito sghignazzando: “Ma Venezia è già Capitale della Cultura, riconosciuta, ed è stato insensato candidarla” (Corriere del Veneto, domenica 17 novembre)

b)      Il secondo ha a che fare con l’altalenante evocazione del Nordest, territorio=metafora  che proprio recentemente è stata “cancellata” (o  – se si preferisce – “ripudiata” dallo stesso famoso sociologo a cui se ne attribuisce la paternità) in quanto ritenuta ormai inadatta ad interpretare correttamente l’evoluzione della nuova geografia economico-territoriale europea. Ragion per cui ritengo che sia stato davvero difficile per gli estensori  del dossier presentare una documentazione convincente…

Una seconda considerazione si riferisce alla necessità di tener distinti, anche se tra di essi le  correlazioni sono fondamentali, il piano dell’iniziativa culturale da quello del marketing territoriale: sul secondo si è sviluppato un lavoro importante e prezioso – le cui ragioni ed i cui effetti sono stati ben evidenziati a più riprese dal Presidente Innocenzo Cipolletta – che non solo resta, ma credo costituisca una base utilissima per le Amministrazioni, le Istituzioni, gli Enti di Ricerca e le Agenzie di comunicazione che in futuro si occuperanno di Promozione & Sviluppo, dovendo scegliere di dedicarsi all’attività di coordinamento ed integrazione territoriale delle politiche di offerta dei servizi, a cominciare naturalmente quelli culturali.

Una terza considerazione la dedico infine a sottolineare che la soprarichiamata distinzione non è finalizzata ad evitare “contaminazioni”, bensì ad un maggiore investimento (non necessariamente finanziario) sul lavoro di ricerca, riflessività e confronto per focalizzare e valorizzare le  profonde connessioni storico-culturali che attribuiscono al territorio Tre Venezie sia il fascino discreto di una civiltà irripetibile che la vitalità di una macroregione intrinsecamente europea proiettata

Anche in questo caso, però, bisogna procedere con un approccio realistico, poco incline alla retorica e concentrato sulla densità e sulle  contraddizioni di una terra e di una storia da re-interpretare con passione e rigore  piuttosto che declamare con gli occhi rivolti al passato.

Alcune avvertenze:

–          Si eviti accuratamente l’abuso del concetto di capitale tanto più  con riferimento a Venezia, una “palude politico-amministrativa” degna di miglior causa e città che esercita tale ruolo solo  sul piano culturale, in virtù della presenza di Enti ed Agenzie che operano con un certo grado di autonomia (Biennale, Aeroporto, Porto…) e non certo per l’esistenza di una classe dirigente sulla quale l’analisi ed il giudizio di Cesare De Michelis non lasciano nessun margine di dubbio

 

–          Si tenga presente che il Sud Tirolo (Bolzano) costituisce  una splendida provincia, ma nelle sue  valli germoglia ancora pericolosamente l’irredentismo e riprendono a circolare fantasmi dei Freihetlichen

 

–          Inoltre non si dimentichi neanche un giorno che tra le  tre (non è un gioco di parole!) Venezie persistono asimmetrie inaccettabili sul piano dell’attribuzione di risorse finanziarie e di competenze istituzionali – da parte dello Stato centrale –   all’origine della fenomenologia del “revanscismo” in Veneto, causa di sperequazioni sia nella distribuzione del reddito che delle opportunità di politiche di sviluppo

 

–          In particolare tale ultimo “gap “ di effettiva coesione, deve rappresentare uno stimolo in più per un gioco di squadra interregionale che consenta di mettere a sistema i diversi “asset” di cui sono dotate Veneto, Friuli V. G. e Trentino A. A.: le elaborazioni e le ipotesi di coordinamento ed integrazione delle politiche culturali realizzate per il Progetto di “Capitale europea”, sono la prefigurazione di quanto è utile fare per infrastrutture, centri di ricerca, innovazione amministrativo-istituzionale, politiche del welfare, scelte strategiche per la Green economy, ecc.

Tutto ciò premesso, la bocciatura della “Capitale” non deve significare l’archiviazione di una visione che si è dimostrata generosa ed illuminata, bensì l’occasione per  un suo aggiornamento; bisogna adottare strumenti di partecipazione e comunicazione più efficaci che la rendano un progetto popolare e consentano di alimentare e sostenere un lavoro di rete, on line e offline, in grado di ri-connettere soggetti sociali, l’associazionismo culturale, le istituzioni e le  agenzie che sono  portatori di una consapevolezza più robusta della necessità di cambiamento e della capacità di praticarlo.

Soprattutto in un frangente storico come l’attuale i valori della multi-appartenenza (A. Langer), e dell’accoglienza,  l’esperienza di crocevia territoriale occidente/oriente e nord/sud, il costituire un presidio manifatturiero competitivo, il possedere una notevole dotazione di università e di centri di ricerca multidisciplinare, la vocazione a percorrere le vie dello sviluppo sostenibile (in particolare il Trentino A. A.), il poter contare sul brand unico di Venezia e sulle Dolomiti Patrimonio dell’Unesco, l’essere un luogo di eccezionale attrazione turistica, persino ingombrante, con una caleidoscopica presenza di beni ambientali, artistici e monumentali, ci impongono una ri-scrittura della sceneggiatura e del copione che aiutino una nuova classe dirigente ad avere uno sguardo lungo, amore e passione per una terra-laboratorio di innovazione e coesione sociale, di benessere diffuso: un esempio insomma di come il Paese Italia dovrebbe affrontare la crisi e l’Europa  rilanciare il disegno dell’integrazione.Tre venezie

PADOVA CITTA’ ASSEDIATA

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Quella dei beni comuni è una questione entrata prepotentemente nell’agenda dei dibattito politico-elettorale in particolare laddove, soprattutto a livello territoriale, è in gioco la gestione di servizi ritenuti essenziali per la qualità della vita dei cittadini e pertanto di piena competenza degli Enti pubblici.

Su alcuni  di essi la retorica ha prevalso sulla razionalità e su un serio calcolo di convenienza, mentre si è continuato a sorvolare su quello che sta diventando prioritario nella lista delle domande sociali, ovvero la sicurezza urbana.

I sociologi che se ne occupano così come gli Amministratori chiamati in causa dribblano il problema rifugiandosi sulle statistiche e disquisendo sul  grado di “percezione del rischio”.

Ritengo che per Padova, l’intensità e la penetrazione dell’aggressione malavitosa abbiano raggiunto livelli di gravità e pericolosità impressionanti: la tipologia degli eventi che ha finora riguardato persone inermi e cose, il degrado di spazi urbani che ne costituisce la precondizione, l’essere epicentro  veneto del traffico e distribuzione  della droga, la decennale sottovalutazione dell’immigrazione irregolare, le contiguità esistenti tra pratica dell’accattonaggio organizzato e  “geolocalizzato” e pianificazione dei furti negli appartamenti, la serialità e la metodica professionale con cui vengono identificate e colpite le vittime…

Tutto ciò costituisce una fenomenologia troppo seria per essere delegata, come si è fatto per molto tempo, alle forze dell’ordine (di cui è fondamentale orientare il coordinamento operativo), bensì materia calda che deve scalare la graduatoria delle preoccupazioni e delle scelte strategiche in capo a  Sindaco, Giunta e Consiglio comunale.

Il rischio supplementare per la città è che il tema sicurezza diventi, in prossimità delle elezioni amministrative,  la palestra per l’esercizio del dibattito muscolare e della polemica di schieramento piuttosto che occasione  per fissare i contenuti basici di un “Patto per la sicurezza” sul quale si realizzi una convergenza, decisiva sia per il messaggio  pubblico che ne deve scaturire che per l’univocità delle azioni che debbono essere intraprese.

Insomma Tolleranza zero non deve diventare un’opzione ideologica bensì programmatica, a cui tutto l’associazionismo e tutte le forze politiche debono contribuire con proposte ed impegno co-responsabile a partire dalla mappatura dei fattori di rischio e dalla focalizzazione delle con-cause più prossime che hanno creato una palpabile insicurezza, soprattutto tra i soggetti sociali più deboli e gli operatori economici più esposti.

SUPERAMENTO DELLA MONARCHIA

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La storia del nostro Paese non “facit saltus” e la persistenza del “regno” berlusconiano ne è una conferma; già il passaggio dalla Monarchia alla Repubblica incontrò una resistenza cospicua e dimostrò che una parte rilevantissima del popolo italiano confidava nella permanenza dell’assetto monarchico ed accettò con sofferenza lo strappo istituzionale. Quell’elettorato ha rappresentato poi l’ampia base moderata  su cui hanno potuto contare i Governi centristi imperniati sulla DC.  Su di esso ha anche  fatto presa  ed ha costituito la leva del progetto berlusconiano, “imprigionandone” la spinta liberale che costituiva una scelta strategica giusta e tempestiva, ma che  – ad un sommario bilancio ventennale –  si è dimostrata velleitaria in quanto  non supportata e sostenuta da un adeguato impianto valoriale-culturale realmente condiviso da una nuova classe dirigente  motivata e preparata ad  incidere in profondità sulla struttura amministrativo-istituzionale ed economico-finanziaria arcaica del Paese.

Non è ingeneroso constatare – proprio oggi in cui l’anziano e provato “monarca” ripropone la sfida del ’94 – che le  vischiosità e le arretratezze del  Paese sono stati affrontate dalla leadership berlusconiana con un linguaggio populista ed approcci  programmatici  improvvisati che non hanno consentito di praticare e realizzare  il cambiamento annunciato con la rivoluzione liberale.

Una rivoluzione, beninteso, che è doveroso riproporre nell’agenda politica italiana (partendo dall’economia fino alla giustizia, transitando per la riforma istituzionale ed elettorale: ma è curioso e perfino paradossale   verificare che – per quanto riguarda la neonata Forza Italia – per dare credibilità ed efficacia al proprio programma, dovrebbe sottrarsi alla gestione autocratico-personalistica ed evitare di darsi una struttura organizzativa (“Esercito di Silvio”, i “Club di Forza Silvio”) che potrà magari confortare i fedeli ed il proprio capo,  ma non contribuire a quel rinnovamento della vita politica di il Paese manifesta una domanda del tutto insoddisfatta.

FERRARA E IL PRINCIPE

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FerraraFERRARA ED IL PRINCIPE.

Sono molte le ragioni della  gratitudine che nutro nei confronti del Direttore del Foglio:

  • la prima è legata alla “nidiata” di giovani collaboratrici & collaboratori di cui ha saputo circondarsi e che rappresentano, a mio modesto parere, un esempio raro di scrittura giornalistica fresca,sapida ed irriverente che – pur non appiattendosi pigramente sui fatti – è in grado di evitare faziosità, esprimendo  sempre opinioni argomentate ed argute, punti di vista che non si celano dietro la presunta obiettività di molte firme dei quotidiani maggiori (confesso che sono un simpatizzante della Oriana Fallaci che sosteneva: “Se io sono un pittore e faccio il tuo ritratto, ho o no il diritto di dipingerti come voglio?”)
  • la seconda è data dalla scelta editoriale di un giornale “smilzo”, quasi una manifestazione di autoironia  per il pingue Giuliano, ma con un tasso di  densità ed espressività intellettuale che valgono il costo maggiorato di € 1.50 ed un rapporto tempo impiegato nella lettura / qualità dell’informazione decisamente vantaggioso
  • un’ulteriore motivo di riconoscenza è per il lavoro redazionale che si esprime nel monitoraggio e nella rappresentazione – pur nei limiti di un’impaginazione vincolata –  dei temi, dilemmi e querelle di natura valoriale, ideologica, storica e politico-culturale  che offrono al lettore l‘opportunità di uno sguardo profondo e di una riflessività aperta, liberata dai vincoli degli schieramenti pregiudiziali che caratterizzano gran parte della stampa italiana,  finanziata da gruppi immersi nel gioco a specchi dell’indipendenza paraculistica e/o del lobbismo parapartitico (pienamente legittimo e talvolta efficace in certe “campagne” focalizzate questioni cruciali, ma ripetitivo e “targato” in modo stucchevole e degno di miglior causa
  • e poi ci sono tante altre ragioni più specifiche come le invasive  e spassose incursioni di Vincino, gli impagabili corsivi di Andrea Marcenaro, l’utilissima versione online…..

Per  tutte queste caratteristiche, meritorie, sono un lettore che coltiva delle attese sul modello di informazione giornalistica e che quindi,  in un frangente come l’attuale, nel quale il  condensarsi di una serie di limiti  politico-culturali ed istituzionali del bipolarismo muscolare (a cui la leadership carismatico-autocratica  berlusconiana ha dato un contributo determinante) da un giornale vocato al  “combattimento delle idee”  si aspetta che si concentri nello svisceramento  coraggioso delle  luci ed ombre di un ventennio, ma soprattutto colga  i  caratteri di quella che un Paese ancora pieno di acciacchi – ma meno disorientato rispetto al ’94 –  invoca come una necessaria discontinuità ideologico-programmatica (anche sotto il profilo  anagrafico) nella formazione e gestione degli schieramenti partitici.

Il piatto  della discussione nell’arena pubblica – che si è dilatata grazie ai socialmedia – è ricchissimo e, detto tra parentesi, costituisce anche un’occasione ghiotta  per una carta stampata che non  affidi le proprie fortune solo al trito gioco delle firme e delle inchieste “anticasta”,  diventate oramai  strumenti di pressione e ricatti lobbistici in mano ai gruppi bancari e finanziari che detengono la proprietà delle maggiori  testate.

Dal nuovo ulteriore mutamento in corso della  forma partito ai contenuti concreti e praticabili di quella rivoluzione liberale ripetutamente annunciata ed in larga misura affogata nella palude romana; da una riforma elettorale incardinata su un nuovo protagonismo responsabile dei cittadini e dei alla rigenerazione di una cultura politica sintonizzata sulle sfide europee e della competitività globale che il Paese deve affrontare; dalla focalizzazione  dei perduranti limiti del policy making alla emersione dell’Italia che ce la fa, dall’identificazione dei luoghi e dei gruppi sociali alla deriva all’individuazione dei programmi e delle esperienze che dimostrano la non ineluttabilità di un futuro di miseria;  meno annunci di sfacelo e maggiore capacità indagatrice delle realtà sociali, economiche ed amministrative che combattono senza timori il declinismo; ed ancora: denuncia sistematica delle aberrazioni del sistema giudiziario, fiscale, penitenziario, accompagnata dalla documentazione altrettanto rigorosa delle riforme non applicate e dei vincoli sociali ed istituzionali – da tener ben presenti –  sempre sottaciuti (in base ad una consuetudine della superficialità populista condivisa tra aspiranti leader politici e  giornalisti aspiranti ad uno strapuntino nei talk show….).

Insomma, senza rubare il mestiere a nessuno, credo che ci siano tante pagine e post da scrivere, tanti dibattiti e polemiche da sostenere pubblicamente e che in questa battaglia civile Il Foglio abbia il diritto ed il dovere  di occupare  un posto in prima fila.

Certo si tratta di un lavoro duro, meno intrigante ed affascinante (anche se deprimente – secondo le malelingue degli osservatori più smaliziati) della partecipazione in diretta ai mirabolanti esercizi di sopravvivenza e/o affermazione politica di  leader a cui si continua ad attribuire un potere ed un ruolo salvifico che è un misto di ingenuità e di idolatria.

La faccio breve perché sul tema della classe dirigente necessaria alla rigenerazione del Paese ritornerò (rinvio comunque alle prime note scritte su MERKEL E NOI); mi limito a citare un’affermazione contenuta nel testo dell’esortazione che il Direttore  Ferrara ha rivolto, in forma di lettera aperta,  a Matteo Renzi: “Eppure non hai alternativa, e secondo me devi vincere su questa piattaforma di ribaltone, devi dire: bè sentite, è chiaro che se il popolo di sinistra mi dà un mandato, questo mandato è di cercare di vincere e riprendere in mano il governo per sperimentare una nuova leadership mai vista prima d’ora (sic!), con persone mai viste, con idee mai viste, non il solito film con i suoi temporeggiamenti, il suo montaggio lento…….   Su Matteo, non fare il  furbo. Sei lì per un’altra cosa, dillo e combatti” (Il Foglio, domenica 9 novembre).

Posso capire la necessità di elaborare il lutto per il declino dello sceicco, ma vorrei sommessamente segnalare che a Firenze in questo momento non c’è nessun “Principe” a cui dare consigli: semmai  c’è un giovane leader a cui suggerire di imparare bene ad evitare il velleitarismo programmatico e le promesse  populiste che hanno costituito il mainstream dell’ultimo ventennio: di cui  Berlusconi non può certamente essere ritenuto l’unico responsabile, ma che sicuramente deve essere superato con la ricerca di nuovi paradigmi politico-culturali e di nuovi percorsi per la rivitalizzazione dell’assetto istituzionale e della partecipazione democratica.

Al buon giornalismo il compito di indagarli, svelarli ,  farne discutere ed appassionare!

I SUDDITI DELLO SCEICCO

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I SUDDITI DELLO  SCEICCO.

Il clima politico che si è determinato nel PDL, dopo che la delegazione  capitanata da Alfano ha deciso di confermare l’alleanza di Governo e con ciò sottrarsi al diktat dello sceicco,  orientato a sfiduciare Letta, non potrebbe essere stato descritto nemmeno da uno sceneggiatore dalla fantasia molto fervida. Per uno come me, convinto della giustezza ed ineludibilità delle cosiddette larghe intese – nell’attuale drammatica congiuntura economico-finanziaria ed istituzionale che sta vivendo il nostro Paese – fanno venire l’orticaria  la superficialità ed il velleitarismo con cui, anche oggi alla Leopolda, il Sindaco Renzi affronta la questione della coalizione di Governo. Ebbene, potete immaginare il disgusto che posso provare per il modo in cui lo sceicco ha tentato di anteporre la  (legittima) autodifesa dall’aggressività giudiziaria nei suoi confronti, rispetto alla conferma del patto per garantire l’agibilità al tandem Letta & Alfano. Ma non voglio qui soffermarmi  sulla diatriba determinatasi nella nomenclatura romana a seguito dell’accelerazione del passaggio dal PDL a Forza Italia, bensì operare qualche rapido scatto fotografico sul deserto politico-culturale che si è venuto a creare nella rappresentanza veneta  di tale “Partito in movimento”. Ho già detto la mia sul patetico tentativo di Galan di dare vita all’Orfanotrofio; ciò che sconcerta degli altri deputati e senatori veneti è l’incapacità (penso per esempio alle reiterate dichiarazioni di fedeltà della sen. padovana E. Casellati) di distinguere tra giusto tributo di riconoscenza ad un leader a cui gran parte dei parlamentari deve molto – non tutto! – ed un autonomo esercizio soggettivo di libertà nella valutazione dell’azione politica necessaria per il bene del Paese (e del Veneto in particolare). Per quello che mi è dato di conoscere e ricordare, nella lunga e per molti versi ricca storia politica della nostra Regione non si è mai manifestato un tale livello di obnubilamento nelle menti e di incapacità di “smarcarsi” da una gestione centralistica ed autocratica del potere partitico. Ho ben presente che  l’assedio giudiziario alla tenda dello sceicco è originato anche dall’esercizio di un potere debordante della magistratura; ma anche in ragione di ciò, i parlamentari che in verità sono animati più dall’orror vacui che dalla generosa difesa del capo, dovrebbero dare una più determinata ed efficace dimostrazione di senso delle istituzioni e di consapevolezza della prioritaria attenzione e preoccupazione per una forte azione di Governo sulle priorità assolute in agenda: risanamento finanziario e risorse per lo sviluppo, riduzione della pressione fiscale e riforme istituzionali + nuova legge elettorale. Inoltre, proprio i parlamentari veneti dovrebbero contribuire a definire una nuova forma politica che consenta di sottrarre il Partito (vecchio PDL o nuova Forza Italia) all’ipoteca della gestione proprietaria. Probabilmente una tale manifestazione di dignità e libertà comporterebbe un sacrificio personale ben maggiore (anche di carattere finanziario) che non la rituale dichiarazione di “lealtà” , che poi in realtà è una sorta di  trade-off : il pieno affidamento al carisma dello sceicco in cambio della fidejussione da parte  dello stesso per evitare il crac finanziario del “movimento politico”…. Ho fatto riferimento ai veneti perché proprio da essi, facendo leva sulla vitalità di un vasto consenso e sulla vivacità della tradizione politico-culturale (sussidiarietà & federalismo, religione della libertà personale, senso della responsabilità, energia e creatività imprenditoriale) ci si attenderebbe una testimonianza più coraggiosa, una manifestazione più esplicita di consapevolezza che quello presente è un tempo che richiede discontinuità ed innovazione anche del costume politico, nell’esercizio di una rappresentanza per la quale  la stella polare sono gli elettori ed il messaggio vincente è quello della partecipazione più diffusa, tutto il contrario dell’affidamento al carisma  di un vecchio sceicco logorato…..