Perche’ vale ancora la pena combattere per l’occidente

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C’è chi vede l’occidente come un “bad deal”,ma fa solo il gioco di chi vuole dividerci. Abbiamo il potere per mantenere l’ordine mondiale,serve la volontà
di John McCain
Pubblichiamo il discorso che il senatore dell’Arizona John McCain ha pronunciato venerdì 17 febbraio alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco di Baviera.
Tratto da IL FOGLIO 21.2.17

Civiltà occidentale
Amici, nei quarant’anni in cui ho partecipato a questa conferenza, non posso ricordare un anno in cui il suo scopo sia stato più necessario e importante. Il tema del prossimo panel è se l’occidente sopravviverà o meno. Negli ultimi anni, questa domanda ha attirato accuse di esagerazione e falso allarmismo. Non quest’anno. Se c’è mai stato un tempo in cui è necessario trattare questa questione con serietà assoluta, è adesso. La domanda era reale mezzo secolo fa, per Ewald von Kleist e i fondatori di questa conferenza. E’ stata questa la ragione per cui hanno iniziato a incontrarsi a Monaco. Non potevano essere sicuri che l’occidente sarebbe sopravvissuto perché avevano visto la sua completa distruzione. Avevano visto il libero mercato sostituito da protezionismo e accuse reciproche, e avevano assistito alla povertà che ne era derivata. Avevano visto l’ordine mondiale frantumarsi in passioni etniche e nazionalistiche in continuo scontro, e la miseria che avevano provocato. Avevano visto l’ascesa di grandi potenze ostili, il fallimento della deterrenza, e la guerra che infine era scoppiata. Dalle ceneri della più grande disgrazia della storia umana era nato ciò che oggi chiamiamo occidente – un ordine nuovo, differente e migliore, basato non sul nazionalismo, sulle sfere d’influenza o sulla conquista del debole da parte del forte, ma su valori universali, sui liberi commerci e sul rispetto per l’indipendenza e la sovranità nazionali.
L’intera idea di occidente è aperta a qualunque persona o nazione che onori e sostenga questi valori. Il periodo di sicurezza e prosperità che abbiamo vissuto negli ultimi sette decenni non è si è verificato per caso. Si è verificato non solo per la capacità di attrazione dei nostri valori, ma perché li abbiamo sostenuti con il nostro potere e abbiamo perseverato nella loro difesa. I nostri predecessori non credevano nella fine della storia – o che essa si sarebbe piegata, inevitabilmente, verso la giustizia universale. Tutto dipende da noi, e questo richiede uno sforzo continuo, durissimo. Ed è per questo che veniamo anno dopo anno qui a Monaco. Cosa direbbe la generazione di von Kleist se vedesse il nostro mondo oggi? Temo che molto di ciò a cui assisterebbero sarebbe fin troppo famigliare per loro, e ne sarebbero allarmati. Sarebbero allarmati dall’allontanamento crescente dai valori universali verso i vecchi legami di sangue, razza e settarismo. Sarebbero allarmati dal risentimento in aumento nei confronti degli immigrati, dei rifugiati, delle minoranze, soprattutto dei musulmani. Sarebbero allarmati dall’incapacità crescente e perfino dalla scarsa volontà di separare la verità dalla menzogna. Sarebbero allarmati dal fatto che sempre più parti sembrano flirtare con l’autoritarismo e vederlo in maniera eufemistica come un equivalente morale dell’occidente. Ma la cosa che li allarmerebbe di più, penso, è il fatto che molti dei nostri popoli, incluso il mio, stanno rinunciando all’idea dell’occidente, il fatto che vedono l’occidente come un “bad deal” di cui fare volentieri a meno, e che benché le nazioni occidentali abbiano ancora il potere per mantenere l’ordine mondiale, non è chiaro se ne abbiano la volontà. Dobbiamo accettare tutti la nostra parte di colpa per come sono andate le cose. Ci siamo rilassati. Abbiamo fatto errori. A volte abbiamo fatto troppo e altre volte abbiamo fatto troppo poco. Abbiamo perso il contatto con la nostra gente. Siamo stati troppo lenti nel riconoscere le difficoltà e nel rispondervi. Dobbiamo affrontare queste realtà, ma ciò non significa perdere la speranza e ritirarci. Questo non deve succedere. So che in tutta Europa e nel mondo c’è molta preoccupazione davanti alla possibilità che l’America abbandoni il suo ruolo di leadership globale. Posso solo parlare per me stesso, ma non penso che questo sarà il messaggio di tutti i leader americani a cui importa abbastanza da viaggiare qui a Monaco questo fine settimana.
Non è questo il messaggio che sentirete oggi dal segretario alla Difesa Jim Mattis. Non è questo il messaggio che sentirete dal segretario per la Sicurezza interna John Kelly. E questo certamente non è il messaggio che sentirete domani dalla nostra delegazione congressuale bipartisan. Non lasciatevi ingannare, amici. Questi sono tempi pericolosi, ma non pensate chel’America sia fuori dai giochi, e non smettete di contare gli uni sugli altri. Dobbiamo essere prudenti, ma non possiamo rimanere con le mani in mano a dubitare di noi stessi. Dobbiamo comprendere i limiti del nostro potere, ma non possiamo permetterci di mettere in dubbio la giustizia e la correttezza dell’occidente. Dobbiamo capire e imparare dai nostri errori, manon possiamo essere paralizzati dalla paura. Non possiamo rinunciare a noi stessi né rinunciare gli uni agli altri, perché è così che l’ordine mondiale declina e crolla per davvero. Questo è ciò che vogliono i nostri avversari. E’ il loro obiettivo. Non hanno alleati veri, e perciò cercano di seminare la divisione tra noi e di dividerci gli uni dagli altri. Sanno che il loro potere e la loro influenza sono inferiori ai nostri, e cercano di sovvertirci dall’interno, di erodere la nostra volontà di resistere, cercano di terrorizzarci per renderci passivi. Sanno che hanno poco da offrire al mondo oltre all’egoismo e alla paura, e per questo cercano di minare la nostra fiducia in noi stessi e la convinzione nei nostri valori. Dobbiamo difendere la nostra posizione in questa battaglia. Dobbiamo essere vigili. Dobbiamo perseverare. E non dobbiamo mai, mai smettere di credere nella superiorità morale dei nostri valori – il fatto che sosteniamo la verità contro la menzogna, la libertà contro la tirannia, il giusto contro l’ingiustizia, la speranza contro la disperazione. E anche se subiremo inevitabilmente delle perdite e soffriremo delle sconfitte, finché le persone di buona fede e coraggio non perderanno fiducia nell’occidente, l’occidente continuerà a vivere. E’ per questo che veniamo a Monaco anno dopo anno: per rivitalizzare il nostro comune obiettivo morale, la convinzione che valga la pena combattere per i nostri valori. Perché alla fine la sopravvivenza dell’occidente non è solo una lotta materiale. Oggi, e da sempre, è una battaglia morale. Ora più che mai non lo dobbiamo dimenticare. Durante uno degli anni più bui della Guerra fredda, William Faulkner tenne un breve discorso a Stoccolma al momento di ricevere il premio Nobel per la Letteratura: “Mi rifiuto di accettare la fine dell’uomo: l’uomo prevarrà”, disse Faulkner. “Credo che quell’uomo non solo sopravviverà: prevarrà. E’ immortale, non perché lui solo tra le creature ha una voce che non si spegne, ma perché ha un’anima, uno spirito capace di compassione e sacrificio e perseveranza”. Anche oggi, quando la tentazione di rinunciare alla speranza è grande, io rifiuto di accettare la fine dell’occidente. Rifiuto di accettare che i nostri più grandi trionfi non possono ancora una volta provenire dai momenti di più grande pericolo, come è successo tante volte in precedenza. Rifiuto di accettare che i nostri valori sono moralmente equivalenti a quelli dei nostri avversari. Ho una fiducia orgogliosa e sincera nell’occidente, e credo che sia nostro dovere difenderlo sempre – se non lo facciamo noi, chi lo farà?

L’insospettabile ingenuità dei nativi digitali

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Uno studio in America dimostra quanto poco i più giovani sappiano riconoscere le falsità che circolano in rete

Ingenuità digitale
FEDERICO RAMPINI – Repubblica – 19.1.17

Nativi digitali: i ragazzi venuti al mondo quando Internet esisteva già. Abituati a muoversi nelle nuove tecnologie come pesci nell’acqua, dovrebbero essere i più smaliziati e astuti nel percepire i tranelli della Rete, giusto? Sbagliato. Al contrario, per la maggior parte non sanno distinguere notizie false o vere, fonti serie o inattendibili, teorie scientifiche o bufale oscurantiste, rivelazioni credibili o leggende metropolitane. Insomma i “nativi” sono di un’ingenuità disarmante. E molto pericolosa: per loro stessi, per la società, per la salute delle nostre democrazie. L’allarme viene dalla Graduate School of Education di Stanford, al termine di una lunga ricerca sul campo, un’indagine che ha coinvolto studenti della secondaria, dei licei, e dell’università. Non è uno studio fatto in fretta e furia per cavalcare il dibattito sul
fenomeno Donald Trump, il tema delle “fake-news” e della realtà post-fattuale. No, lo studio condotto dallo Stanford History Education Group (Sheg, consultabile su questo link https://ed.stanford.edu/node/ 10003?newsletter=true) ebbe inizio nel gennaio 2015, prima ancora che Trump si candidasse. Le conclusioni, come spiega il professor Sam Wineburg che ha fondato il centro di ricerca, rivelano «una inquietante incapacità degli studenti di ragionare sull’informazione che vedono in Rete, la difficoltà a distinguere la pubblicità dalle notizie, o a identificare le fonti delle news». Crolla un mito, dunque: «Molti danno per scontato », prosegue lo stesso Wineburg, «che i giovani essendo a loro agio nei social media sono anche sagaci, lucidi nel valutare i contenuti, invece la nostra ricerca dimostra l’esatto contrario ».
La celebre denuncia di Umberto Eco sulla «invasione degli imbecilli», assume una gravità superiore. Nel giugno 2015, ricevendo una laurea honoris causa a Torino, Eco disse: «I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano messi subito a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel».
Il problema indicato dalla ricerca di Stanford, è che intere generazioni non sanno proprio distinguere tra un Nobel e un imbecille? Lo stesso Eco dalla sua invettiva traeva una conclusione operativa: «I giornali dovrebbero dedicare almeno due pagine all’analisi critica dei siti, così come i professori dovrebbero insegnare ai ragazzi a utilizzare i siti per fare i temi». È proprio quello che si prefiggono gli studiosi di Stanford. Anche loro partono dalla consapevolezza che «l’invasione degli imbecilli» — o peggio ancora dei faziosi, disseminatori di falsità, calunnie — è un problema sociale e politico di massima importanza. «La democrazia», avverte il sito della Stanford Graduate School of Education», è minacciata dalla facilità con cui la disinformazione sui temi civici viene tollerata, si diffonde e fiorisce».
Il direttore dello Sheg, Joel Breakstone, condivide con Eco il richiamo al ruolo della scuola; ma constata che gli stessi prof sono allo sbaraglio, e se cercano dei supporti educativi non li trovano: «Gran parte del materiale sulla credibilità della Rete è fermo allo stato dell’arte sul finire degli anni Novanta. Il mondo è cambiato ma molte scuole sono inchiodate nel passato».
I test usati nelle scuole americane sono rivelatori. «A tutti i livelli », dicono i ricercatori, «siamo rimasti esterrefatti dall’impreparazione degli studenti». Citano l’esempio delle scuole medie dove hanno voluto saggiare capacità di distinguere articoli e tweet affidabili o meno. Un esercizio semplice: ti puoi fidare di un articolo su un tema finanziario, se l’autore è dipendente di una banca o l’articolo è sponsorizzato? Molti ragazzi non esaminano l’autore o la sponsorizzazione prima di capire se crederci o no. L’80 per cento non sa riconoscere la pubblicità redazionale dagli articoli fattuali.
Passando alla politica, e alla secondaria superiore, un test sottoponeva agli studenti diversi annunci sulla candidatura di Trump, segnalati attraverso Facebook. Alcuni venivano dalla Fox News, altri da un account che si spacciava per Fox News: il 30 per cento preferiva quest’ultimo perché presentato in veste più attraente. Idem a livello universitario dove alcuni test vertevano sulla capacità di selezionare i risultati delle ricerche su Google. Su un tema politicamente scottante — la falsa accusa ad una esponente democratica di volere “l’eutanasia di Stato” — anche la generazione che va al college fa molta fatica a distinguere fonti autorevoli, indipendenti, dai disseminatori di bugie interessate. A volte basta arricchire un sito con qualche link che rinvia a fonti serie, per attirarli in trappola.
La ricerca è stata condotta in 12 Stati Usa, sottoponendo ai test 7.800 studenti, con un ventaglio di situazioni socio-economiche e culturali, dai quartieri poveri di Los Angeles ai sobborghi residenziali benestanti di Minneapolis.
Il progetto Stanford non si ferma alla constatazione dell’abisso d’ignoranza e impreparazione. Vuole offrire alle scuole e alle università gli strumenti per ovviare a queste lacune. Lo Sheg ha elaborato una sorta di kit ad uso dei prof che vogliano integrare i loro corsi sui due terreni gemelli: «Digital literacy — Informed citizenship», alfabetizzazione digitale per una cittadinanza informata. Dall’istituto californiano partono regolarmente in missione dei prof che vanno a tenere seminari nelle università e nelle altre scuole, per insegnare come s’insegna questa alfabetizzazione digitale. Una prima versione del loro kit (curriculum, nel senso inglese) è dedicata alla verifica delle fonti d’informazione negli studi di scienze sociali, ed è già stata scaricata 3,5 milioni di volte, viene adottata da diversi provveditorati scolastici. È uno sforzo ancora all’inizio. Una montagna da scalare. In fondo il punto di partenza, lo stato dell’arte, non è molto diverso da quando la prima televisione fece irruzione in paesi ancora poveri, irrorando di informazione e spettacolo vaste sacche di analfabetismo tout court; e per molti valeva il principio «è vero, lo ha detto la tv».

Tanta ricerca, poca impresa in Italia l’innovazione è bloccata

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GLI SCIENZIATI CHE VOGLIONO PORTARE UNA SCOPERTA SUL MERCATO AFFRONTANO MILLE OSTACOLI L’UNIVERSITÀ LI IGNORA, LE AZIENDE NON INVESTONO
FILIPPO SANTELLI – RepubbQualità ricercalica – 19.1.17

Dal 2009 Luca Ravagnan è nella valle della morte. Nei laboratori della Statale di Milano ha fatto una scoperta: una tecnica con cui incorporare circuiti elettrici nella plastica. Ideale per produrre elettrodi flessibili per i malati neurologici. Anziché scrivere un saggio, stanco del precariato da ricercatore, ha deciso di farne un’azienda. «Oggi vedo l’uscita», racconta il 39enne: gli elettrodi della sua Wise stanno per arrivare sul mercato. Ma ha capito perché la chiamano così, valle della morte: «Lo scetticismo dei colleghi, “rinunci alla carriera”, la burocrazia, i finanziamenti da trovare, un mercato da costruire». Tanti universitari neppure ci provano. La ricerca di eccellenza, ingegneria o farmaceutica, in Italia non manca: siamo ottavi al mondo per pubblicazioni. Precipitiamo al diciassettesimo per brevetti, il solo Mit di Boston ne deposita quanto tutti i nostri atenei. Che in un anno producono in media solo due aziende e mezza, i cosiddetti spinoff. Il trasferimento tecnologico, il canale che porta l’innovazione verso il sistema produttivo, è interrotto.
PUBBLICARE, SOLO PUBBLICARE
Il fatto è che i colleghi di Ravagnan avevano ragione. Per diventare professori la (lunga) strada è una sola: pubblicare. In altri Paesi chi deposita brevetti viene premiato, in Italia perde tempo. Sui fondi pubblici che un’università riceve, del resto, l’efficacia della terza missione, la valorizzazione della ricerca sul mercato, conta poco. Gli uffici dedicati al trasferimento hanno in media 3,6 dipendenti, in quello dell’Università di Lovanio, Belgio, sono in 82. «Diventa un modo per far sopravvivere la ricerca», ammette Alberto Silvani, che lo dirige al Cnr, 15 persone contro 10mila ricercatori e un budget «drasticamente tagliato». Vista la penuria di risorse, far “sponsorizzare” una ricerca ai privati è l’unico modo per pagare lo scienziato. Ma così la tecnologia viene data in licenza presto, quando l’esito è incerto e il valore basso: «Pochi, maledetti e subito», dice Silvani.
I PADRONI DELLA RICERCA
«Al trasferimento mettono persone senza esperienza», attacca Silvano Spinelli. «Scaricano i moduli di Harvard e pensano di poterli imitare». Lui ne sa qualcosa: con la sua Eos ha sviluppato una molecola tumorale portandola a una vendita record da 500 milioni. E ora ha fondato un acceleratore di startup, BiovelocITA, con cui vorrebbe ripetersi. Selezionare nelle università nuovi potenziali farmaci, dare loro i primi fondi e accompagnarne lo sviluppo. Dopo un anno, ammette che in Italia è difficile: «C’è troppa frammentazione, le ricerche sono fatte da più università e bisogna negoziare la licenza con tutte, interminabile». All’estero gli atenei hanno uffici per il trasferimento comuni, da noi è l’eccezione. TTFactor, quello di Ieo e Ifom di Milano, è uno dei pochi: non a caso il primo spinoff investito da Spinelli viene da lì. Il secondo, una molecola anti diabete, da un istituto privato come il San Raffaele. «Nelle università pubbliche i diritti sulla ricerca sono dei singoli scienziati, non dell’ateneo », spiega l’avvocato Domenica Colella, esperto della materia. «Un unicum legale italiano» che disincentiva le università a investirci. Tanto non ci guadagnano.
IL MONDO LÀ FUORI
L’Istituto italiano di tecnologia di Genova, racconta il responsabile del trasferimento Salvatore Majorana, ha una cultura diversa. Licenze e startup generate influiscono sullo stipendio dei ricercatori. E all’ufficio dedicato lavorano 12 persone, per 1.500 scienziati. Una volta fondato però, uno spinoff ha bisogno di soldi per crescere: «In Italia manca il capitale di rischio per iniziative a bassa maturità — dice — 120 milioni l’anno, meno che in Spagna ». Proverà Cassa depositi a metterci una pezza, un nuovo fondo da 200 milioni tutto dedicato alle startup universitarie. Ma poi ci vogliono i clienti, qualcuno che compri quei prodotti. «Abbiamo tanti padroni e pochi imprenditori», lamenta Matteo Martinelli, 39 anni, ex ricercatore del Politecnico di Torino e ora combattivo fondatore di Safen. In piena valle della morte: i suoi pneumotrasformatori, dati alla mano, permettono a un’industria di risparmiare l’80% dell’aria compressa. Ma tra le piccole imprese italiane non trova clienti: «Chi riceve la tecnologia deve essere innovativo tanto quanto chi la propone». Per questo inizierà a vendere in Germania.
MERCANTI NEL TEMPIO
«Speriamo che gli incentivi di Industria 4.0 aiutino le imprese a investire», dice Marco Cantamessa, a capo dell’incubatore di startup I3P del Politecnico di Torino. «Il rischio è dare acqua a un cavallo che non vuole bere». Non ci sono scorciatoie, ecco il problema. Bisognerebbe rafforzare la dimensione delle imprese, in modo che assorbano più innovazione. E nell’accademia superare le barriere di cultura e burocrazia che incontrano gli aspiranti imprenditori. Luca Ravagnan non ha aspettato i tempi dell’università, brevettando e trovando i finanziatori da solo. Anche per questo ce l’ha fatta. Oggi nella pause del lavoro con Wise tiene ancora brevi corsi, dove incontra studenti sempre più interessati a fare startup: «Bisognerebbe portare esempi positivi, smitizzare l’idea della ricerca pura». Ha proposto di dedicare un’ora di lezione a spiegare come si fa, ma la risposta è stata negativa: «Molti mi considerano ancora un mercante nel tempio».

«I problemi dell’Europa da Bruxelles e Francoforte»

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Il ministro Padoan a Davos: «Classe media disillusa. Perciò dice sempre no»

Padoan
Gianni Trovati – 19 Gennaio 2017 – Il Sole 24 Ore

Donald Trump e i partiti pro-Brexit sono riusciti a portare in massa alle urne i loro sostenitori, mentre la voce dell’Europa arriva spenta alle orecchie degli elettori, tutt’al più sotto forma di dibattito ragionieristico sulle virgole del deficit che valgono miliardi, ma non sono esattamente la chiave per aprire teste e cuori dei cittadini.
«Il problemi dell’Europa nascono a Bruxelles e qualche volta a Francoforte», ma più in generale «il problema dell’Europa è l’Europa», sostiene senza giri di parole il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan nel corso dei lavori del Forum di Davos. L’accusa mossa all’Unione è di non avere «una visione» in grado di generare «carica vitale» e di produrre «azione» anche nel settore privato. La «potenza dei messaggi» lanciati da Brexit o dalla nuova presidenza americana è «incomparabile», e questo spiega le diverse fortune che il fronte eterogeneo raccolto nel dibattito sotto l’etichetta di “populismo” incontra fra i cittadini: nelle urne e non solo. Ma «se l’atteggiamento populista si afferma – lancia l’allarme Padoan – non possiamo più governare una società democratica».
La trasferta di Davos offre al ministro dell’Economia l’occasione per rialzare la testa dall’agenda quotidiana e ragionare sulle cause profonde della crisi politica europea, intrecciata all’affanno di un riformismo fiaccato dalla disillusione della classe media che «si esprime dicendo “no” a qualsiasi proposta politica». Le urgenze immediate e i tira e molla sugli zerovirgola inseguono però Padoan anche sulle montagne svizzere: da Roma arriva la notizia che il Senato ha approvato quasi all’unanimità la richiesta avanzata dal Movimento 5 Stelle di un intervento del ministro per informare il Parlamento sulla richiesta di aggiustamento dei conti italiani arrivata martedì da Bruxelles, e il tema tornerà oggi al centro di un incontro fra l’inquilino di Via XX Settembre e il commissario Ue agli affari economici Pierre Moscovici.
Le discussioni con Padoan, ha spiegato Moscovici, sono «sempre costruttive e franche», ma più del rapporto fra i due titolari dei conti italiani ed europei c’è in gioco la necessità per i Paesi come il nostro di «ridurre il proprio deficit, perché è positivo per le loro economie e perché non possono andare avanti con troppo debito. Mi spiace per l’Italia – ha chiosato il politico francese – ma ne sono convinto». Tanta fermezza, ha riconosciuto lo stesso commissario europeo, non è dimostrata dall’Europa quando si tratta di rimettere nelle carreggiate dei regolamenti i surplus commerciali di altri membri dell’Unione, Germania in primis, e alla base di questo disallineamento ci sono ragioni tecniche che hanno però un’origine politica. «Una cosa sono le procedure per deficit, che hanno sanzioni efficaci, e un’altra le procedure per gli squilibri macroeconomici, meno efficaci», riassume Moscovici, spiegando che l’Europa funzionerà così fino a quando i Paesi non decideranno di «condividere gli sforzi».
Ma in questa direzione non sembra soffiare l’aria europea, chiusa in un circolo vizioso fra spinte nazionaliste e riforme che incrociano l’opposizione dei cittadini prima di produrre risultati percepibili, con la conseguenza di fornire argomenti ulteriori agli emuli più o meno fedeli di chi ha voluto portare il Regno Unito fuori dalla Ue. Per spezzare questo circolo Padoan porta sui tavoli della discussione di Davos «quattro pilastri per la crescita inclusiva», rappresentati da lavoro, istruzione, tecnologia e redistribuzione della ricchezza.
Programma vasto, evidentemente, da articolare in un orizzonte di vent’anni che secondo Padoan «sembrano tanti, ma non lo sono». Se l’obiettivo è quello di restituire all’Unione europea una visione in grado di muovere gli interessi delle persone e non solo i tasti delle calcolatrici, del resto, la prima mossa è quella di uscire dalle strette di una discussione che alle dinamiche del giorno per giorno sacrifica le prospettive di lungo termine, regalando questo terreno all’esclusiva dei “populismi”. E se la classe media è «spremuta e arrabbiata», come recita il titolo dell’incontro in cui Padoan ha sviluppato la sua riflessione, la creazione di «posti di lavoro decenti», per dirla con il ministro, è «il modo più potente per includere le persone nella società».
Il lavoro è il primo dei quattro «pilastri» indicati da Padoan, perché la creazione di nuove fonti di reddito è l’unico strumento per dare un po’ di sangue anche a un dibattito su una crescita che altrimenti rimane chiusa nelle stanze degli economisti senza farsi sentire nella vita delle persone. Per innalzare questo pilastro, però, servono gli altri tre, da un’istruzione che va costruita cercando di capire quali lavori serviranno fra 10-20 anni alla tecnologia e all’innovazione. In più di un’occasione l’economista Padoan ha respinto la visione, coltivata anche dal dibattito accademico, di una tecnologia distruttrice di lavoro.
Nelle parole di Padoan l’innovazione ha lo stesso mix di pregi e difetti presentato da molte «riforme strutturali», che creano malcontento nelle fasi iniziali e risultati positivi nel medio-periodo: come nelle rivoluzioni industriali, in quest’ottica i posti di lavoro cancellati dall’innovazione sono sostituiti da nuovi filoni produttivi in altri settori, e nel lungo termine il saldo è positivo.
Il lungo termine, però, non è l’orizzonte preferito dalla politica, alle prese con la successione di appuntamenti elettorali in cui chi vota è propenso a esprimere l’insoddisfazione per il presente più che la speranza nel futuro. Anche per questo la politica si deve occupare di «redistribuzione della ricchezza», che il mercato da solo non è in grado di assicurare. L’alternativa è lasciare sul terreno la crescente e preoccupata sensazione di esclusione che dà argomenti alle forze politiche collocate a vario titolo nell’ampio ventaglio anti-sistema: forze che secondo Padoan «sollevano anche problemi giusti, ma non danno le risposte».

Incredibile rovesciamento dei ruoli tra Cina e Usa

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«La globalizzazione non c’entra con la crescita»
Xi Jinping, al debutto a Davos: «I nodi economici dipendono da altro e dobbiamo dire no al protezionismo»

Presidente cinese
Vittorio Da Rold – 18 Gennaio 2017 – Il Sole 24 Ore
La globalizzazione non c’entra con gli attuali problemi economici mondiali e dobbiamo dire no al rischio del protezionismo. Parola del numero uno di Pechino. «Molti dei problemi di oggi non sono affatto causati dalla globalizzazione. Per esempio le migrazioni dal Nord Africa e Medioriente che hanno provocato tanta apprensione e la crisi finanziaria di dieci anni fa». Così il presidente cinese Xi Jinping per la prima volta al 47° forum economico mondiale di Davos sulle nevi svizzere davanti a tremila rappresentanti del gotha internazionale in religioso silenzio.
«È vero che la globalizzazione ha creato nuovi problemi, ma questa non è una giustificazione per cancellarla, quanto piuttosto per adattarla alle nuove esigenze», ha proseguito il presidente della Repubblica popolare cinese, Xi Jinping, con un riferimento indiretto alle forze anti-globalizzazione e populiste che hanno portato al potere Donald Trump negli Usa, votato per la Brexit in Gran Bretagna e per il no alle riforme costituzionali in Italia. «Piaccia o no, l’economia globale è l’enorme oceano dal quale nessuno può tirarsi fuori completamente». La globalizzazione, secondo Pechino, punterà in futuro a rendere il mondo più equo ed efficiente.
Il panorama industriale e commerciale mondiale è cambiato, con nuove catene del valore globale, eppure «le regole del commercio globale non hanno seguito questi sviluppi. C’è una frammentazione delle regole», ha spiegato il presidente della Repubblica popolare cinese. La Cina sta conducendo un’offensiva diplomatica alla Wto, l’organizzazione mondiale del commercio, per ottenere lo status di economia di mercato che la metterebbe al riparo da eventuali dazi da parte degli altri membri che la accusano di aiuti di stato e di manipolare i cambi. Secondo l’economista Nouriel Roubini «la Cina offre al mondo l’Aiib, la Banca dei Brics, la strada della seta, e il progetto infrastrutturale One Belt one Road, un piatto ricco, mentre gli Usa vogliono addirittura abolire anche i Tpp». Anche il premio Nobel Joseph Stiglitz, non concorda con la posizione protezionista di Trump che scatenerà guerre commerciali. «Il protezionismo potrebbe avere un impatto di 1,5 punti di Pil nei prossimi 15 anni», spiega. Un mondo più chiuso può essere pericoloso per un Paese che esporta: «Se noi chiudiamo alla Mercedes loro non comprano le nostre auto». In altri termini «Potrebbe peggiorare il deficit commerciale e l’effetto sarebbe quello di una perdita di migliaia di posti di lavoro. La politica di Trump non può funzionare. E anche l’Europa deve temere», conclude Stiglitz.
Pechino invece suona tutta una altra musica «Dobbiamo dire no al protezionismo. Perseguire il protezionismo è come chiudersi dentro una stanza buia. Vento e pioggia possono pure restare fuori, ma resteranno fuori anche la luce e l’aria», ha detto Xi Jinping. «Nessuno uscirebbe vincitore da una guerra commerciale».
«La Cina ha fatto passi coraggiosi per abbracciare il mercato globale. Abbiamo affrontato le onde più alte, ma abbiamo imparato a nuotare», ha proseguito il presidente cinese. Vero è che «la crescita globale è al livello più basso da sette anni e il commercio globale è debole. Cerchiamo nuovi effetti trainanti della crescita. L’intelligenza artificiale e la stampa in 3d sono le nuove frontiere». Ha spiegato Xi ponendosi alla testa di quelle nazioni che investono nel futuro tecnologico per uscire dalla stagnazione secolare.
«Il direttore dell’Fmi Christine Lagarde mi ha detto che i mercati maturi e gli emergenti contribuiscono alla crescita per l’80%», ha aggiunto Xi dando l’impressione di voler dare un messaggio di stabilità alla crescita globale in cooperazione con gli altri Paesi in contrasto con la politica di rottura di Trump.
Non è mancato un passaggio del clima. «L’accordo di Parigi è un passo avanti magnifico, tutti i firmatari dovrebbero rispettarlo», ha concluso Xi Jinping, parlando a Davos dell’accordo, che il presidente eletto Usa Donald Trump ha invece pesantemente criticato, come una «responsabilità che dobbiamo assumere per le prossime generazioni».
Xi, dunque, paradossi della storia, farà il paladino del libero scambio, mentre l’amministrazione americana sosterrà il protezionismo. Trump diverrà presidente a Washington proprio venerdì, l’ultimo giorno della riunione del Wef di Davos, in uno scambio di ruoli davvero inaspettata tra le nevi della Montagna incantata.

I Ventotto e quel lusso pericoloso dell’inazione

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Anniversario della firma dei trattati di Roma

Adriana Cerretelli 2 Gennaio 2017 Il Sole 24 Ore lunedì

L’ Unione europea ha quasi 60 anni e li dimostra: stanchezza di vivere, cortocircuito tra integrazione e democrazie, nebbia sul futuro. Avrebbe un bisogno urgente di ritrovarsi e riprendersi in mano, invece rischia di perdersi, smarrire il senso di sé, lo spirito di famiglia, le ragioni della propria esistenza. Che resta più che mai necessaria. Irrinunciabile.
Il 25 marzo prossimo, anniversario della firma dei Trattati di Roma, dunque non sarà una festa vera, ma una fredda formalità.
Ventotto leader raccolti a Roma, ma la testa altrove, ripiegati sui rispettivi problemi interni, risucchiati da ansie elettorali sparse, ma soverchianti, al punto da paralizzare ogni iniziativa di rilancio e ripensamento comune del progetto europeo. Al punto da condannare l’Unione all’abulia, a un lungo anno perso proprio mentre nel mondo tutto cambia e la necessità di agire e reagire sarebbe più impellente che mai. Perché nessuno aspetterà l’Europa che non sa più dove vuole andare, con chi, come e per fare che cosa insieme. Tutti invece ne approfitteranno per occuparne gli spazi vacanti. Per eroderne quel che resta del vecchio protagonismo globale.
Pur con le sue molte incognite, l’alba dell’America di Trump si annuncia decisionista, interventista pro domo sua, egoista, isolazionista, tiepidamente atlantica. E anche rivoluzionaria rispetto all’ordine (disordine?) costituito. Un alleato molto più esigente e meno generoso.
Partita all’arrembaggio della scena mondiale dopo gli anni della marginalizzazione relativa e sfruttando l’appeasement degli Stati Uniti di Obama, la Russia di Putin è rientrata brillantemente in gioco imponendo la sua pax siriana, firmando per la prima volta nella storia un patto tra paesi Opec e non Opec per far risalire il prezzo del petrolio. Di sicuro non intende rinunciare al ruolo riconquistato. E se poi l’entente cordiale che sembra profilarsi tra Putin e Trump dovesse materializzarsi davvero, l’Europa potrebbe venirne stritolata, da buon vaso di coccio in mezzo a quelli di ferro con cui sarà costretta a viaggiare.
Per non parlare della Cina, che da sempre guarda con grande appetito ai suoi mercati, alle sue aziende e tecnologie e che ora, conquistato l’agognato status di economia di mercato (che non è), avrà gioco molto più facile a destreggiarsi tra le divisioni europee e le scarse difese anti-dumping che da sempre ne derivano. E in Europa troverà una preziosa valvola di sfogo soprattutto se la nuova Casa Bianca dovesse, come promette, erigere barriere alle sue merci negli Usa.
Di fronte ai mutati e mutevoli equilibri del mondo, l’Europa dovrebbe usare il 2017 in arrivo per accelerare sulla creazione di una vera e autorevole politica estera, di una credibile difesa comune autonoma e sinergica con quella Nato, di una politica comune di sicurezza che integri i suoi diversi sistemi di intelligence, anti-terrorismo, banche-dati e casellari giudiziari con un’efficace protezione delle frontiere esterne dalle troppe instabilità ai suoi confini, bomba migratoria in prima linea.
Invece su tutti questi dossier di importanza vitale, quando si fa, si fa poco e senza fretta, come se le emergenze da affrontare fossero quelle degli altri. Troppe conflittualità di interessi, troppi divari culturali prima che politici ed economici. La strategia del galleggiamento però non paga, trascina e complica i problemi invece di risolverli. Soprattutto fa dimenticare i grandi benefici che l’Europa ancora distribuisce, mettendone in luce solo ombre e difetti. Così l’anti-europeismo sale e si confonde con le pulsioni no global, la crisi della democrazia rappresentativa e dei partiti tradizionali, tutti incapaci di adeguare il passo al mondo che cambia, fanno la fortuna di populisti, demagoghi e forze anti-sistema. E così le elezioni, che ci saranno in Olanda, Francia, Germania e forse Italia, diventano eventi temuti invece di normali liturgie per possibili ricambi al potere.
Per questo, a meno di catastrofi imprevedibili che nessuno si augura, il 2017 sarà un anno bloccato. Anche se le urgenze da affrontare in casa sono molteplici: tra Brexit, le cui conseguenze restano un enorme punto interrogativo per tutti; ripresa torpida; troppi disoccupati; rialzo dei tassi di interesse e dei prezzi del petrolio; unione bancaria zoppa; governance dell’Eurozona inefficace tra crescenti divari Nord-Sud; ristrutturazione del debito greco ferma; rischio-Italia in agguato in caso di instabilità politico-finanziaria grave. E di cantieri aperti per scuotere l’attuale e pernicioso status quo ce ne sarebbero molti: dalla riforma dell’Eurozona all’integrazione del mercato digitale e dell’energia, a una politica di immigrazione capace di gestire i flussi dei disperati come le società destinate ad accoglierli e integrarli.
Sembra un perfido scherzo della storia quello che vedrà l’Europa celebrare i primi 60 anni nel punto più basso della sua esistenza, proprio quando il tradimento dei vecchi ideali incoraggia il ritorno dei nazionalismi, dei muri, delle frontiere. Passata la lunga febbre elettorale, c’è da sperare che il passato comune solleciti una rapida e costruttiva seduta di autocoscienza collettiva. Prima che sia troppo tardi: l’inazione oggi è un lusso che dovrebbe esserle vietato.

Tullio De Mauro, una vita spesa a studiare la lingua per capire l’Italia

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de-mauroUn gramsciano lontano dall’accademia
Franco Lo Piparo 6 Gennaio 2017 Il Sole 24 Ore

Tullio De Mauro aveva diverse qualità. Una era ineguagliabile. Il suo stile di vita corrispondeva alla sua produzione scientifica. Quando da giovane laureato sono andato a presentarmi da lui per fargli leggere la tesi fui accolto come mai nessuno dei professori cosiddetti democratici mi aveva accolto. Mi sono sentito subito a mio agio.
Siamo nell’autunno del 1969 nell’Università di Palermo. De Mauro non era solo un bravo professore. Era un intellettuale che interveniva sui giornali e creava opinione. Era noto fuori d’Italia. Aveva al suo attivo opere fondamentali, tradotte in varie lingue, e su cui molte generazioni di linguisti e filosofi del linguaggio si formeranno, non solo in Italia: Storia linguistica dell’Italia unita, 1963; Introduzione alla semantica, 1965; traduzione e commento del Cours de inguistique générale di Ferdinand de Saussure, 1967.
Era anche cattedratico giovanissimo e questo lo rendeva ancora più affascinante. Almeno a noi che respiravamo l’aria del Sessantotto. Naturalmente quello che per noi era fattore attrattivo non era ben apprezzato dai colleghi glottologi anziani. Amava raccontarmi con una punta di orgoglio che fu bocciato da arcigni e ignoti professori al suo primo concorso universitario. Il pezzo forte delle sue pubblicazioni era quello che da tutti è considerato un classico della storiografia linguistica: Storia linguistica dell’Italia unita. La motivazione della bocciatura fu che non si trattava di opera scientifica ma di un pamphlet politico.
La stupidità, tutta accademica, degli arcigni professori a modo suo aveva visto bene. De Mauro fu un linguista gramsciano, quanto di più lontano si possa immaginare dall’accademia. Quell’opera valutata negativamente dall’accademia, oltre che una inedita ricostruzione della storia delle vicende linguistiche dell’Italia unita, è anche un programma teorico che affonda le sue radici nei Quaderni di Gramsci.
L’ascendenza gramsciana, però, di quell’opera l’ho capita dopo, molto dopo. È accaduto quello che accade ai classici. Intercettando lo spirito profondo e nascosto di altri classici (i Quaderni nel caso specifico) costringono a rileggere con sensibilità nuova i testi che hanno ispirato il nuovo approccio. Un virtuoso corto circuito.
Alcune delle colonne portanti dell’approccio gramsciano di De Mauro alle lingue provo a elencarle.
(1) Le lingue esistono in quanto sono parlate o sono state parlate. Sembra banale ma non lo era nel panorama linguistico degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso e credo che non ne siano ancora del tutto chiare tutte le implicazioni teoriche. Questo vuol dire che in ogni lingua è leggibile la storia dei conflitti e delle conquiste o delle sconfitte dei suoi parlanti.
(2) Non esiste la lingua ma la coppia lingua-parlanti. E i parlanti parlano e/o scrivono non per eseguire regole grammaticali ma per affrontare problemi che linguistici non sono.
(3) Ciò vuol dire che il senso delle parole e dei modi di dire è il protagonista delle vicende linguistiche. La semantica è la parte del linguaggio che guida le altre.
De Mauro questo lo spiega già in opere giovanili come l’Introduzione alla semantica e nella interpretazione che dà del Cours di Saussure e delle Ricerche filosofiche di Wittgenstein. Lo approfondirà ancora meglio in Minisemantica (1982), altra opera di diffusa circolazione internazionale.
I tre pilastri esposti qui in maniera sommaria sono riassumibili nella costitutiva natura politica delle lingue. Erano due gli autori da cui De Mauro traeva suggerimenti e ispirazioni.
Uno era l’Aristotele che faceva derivare la specificità delle lingue storiconaturali dal fatto che l’uomo è animale che può vivere solo come parte di una città. “Città” in greco polis, donde la definizione di uomo come animale politikón che letteralmente significa per l’appunto “animale per natura cittadino”. L’altro era Antonio Gramsci che spiega diffusamente e analiticamente come nessun potere-egemonia può essere esercitato senza la cooperazione linguistica e, per questo, chiarisce in maniera incontrovertibile la politicità di ogni questione linguistica.
La lettura in parallelo della Storia linguistica di De Mauro e dell’ultimo Quaderno a noi noto, scritto da Gramsci nella clinica Cusumano nell’aprile 1935, è molto illuminante. Il titolo di quel quaderno era, se mi è consentito di invertire il prima e il dopo, molto demauriano: Lingua nazionale e grammatica.
L’impalcatura filosofica che qui ho tratteggiato De Mauro l’ha declinata in numerosi saggi di alta teoria ma l’ha anche tradotta impegno politico quotidiano. Convinto che la crescita individuale e collettiva non è separabile dalle abilità linguistiche è stato un attentissimo analista dei livelli culturali in cui è stratificata una società.
Penso proprio che De Mauro aveva ragione ad essere orgoglioso della bocciatura al concorso universitario perché linguista politico. Non sapendo gli arcigni glottologi che col loro giudizio univano De Mauro con Aristotele.

Innovazione per le pmi: a venezia la 15^ edizione di ief international entrepreneurship forum

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iefIl 14 dicembre si è tenuta all’Isola di San Servolo la conferenza di tre giornate organizzata dal network mondiale INSME ed Essex Business School.
Insieme agli oltre 50 ricercatori, policy maker e manager da tutto il mondo, nel panel dei relatori anche t2i.
Generare nuove idee, visioni strategiche e scambio di pratiche efficaci per definire una roadmap globale nell’indirizzare e supportare – attraverso servizi concreti – l’innovazione continua nelle piccole imprese come driver principale verso i mercati globali.
E’ stato questo l’obiettivo della 15^ edizione di IEF – International Entrepreneurship Forum partito il 14 dicembre, a Venezia presso l’Isola di San Servolo che ha visto riunirsi fino a venerdì 16 dicembre ricercatori, policy maker e manager non solo europei che si sono confrontati sulle strategie di innovazione e internazionalizzazione delle PMI.
Sono stati oltre 50 i relatori che hanno partecipato ai panel della tre giorni veneziana; tra questi anche t2i Trasferimento Tecnologico e Innovazione, la società consortile per l’innovazione delle Camere di Commercio di Treviso-Belluno, Verona e Venezia Rovigo Delta Lagunare. Oltre all’intervento nel panel, t2i ha presentato in una sessione demo dedicata le attività del progetto europeo Openisme, di cui è capofila e unico partner italiano. Il progetto è nato con lo scopo di creare nuovi strumenti per supportare e facilitare l’innovazione nelle piccole e medie imprese, semplificando e rendendo più agevole il contatto e la collaborazione tra PMI, Università e Centri di Ricerca.
La conferenza internazionale è stata organizzata da INSME, maggiore network mondiale di agenzie e service provider per l’innovazione per le PMI che comprende 84 Membri in 37 paesi di 4 continenti, ed Essex Business School – University of Essex, con il sostegno di numerosi partner prestigiosi tra cui OCSE – con il suo LEED Programme. t2i ha contribuito all’iniziativa in qualità di membro di INSME.
La demografia, la globalizzazione dei mercati – non solo di sbocco ma anche di acquisto di competenze e tecnologie -, l’accelerazione tecnologica e il complesso panorama del contesto finanziario non permettono a nessuna impresa di rimandare scelte strategiche che devono mirare alla sostenibilità innanzitutto economica, inevitabilmente con radici nell’ecosistema locale.
Focus particolare dell’appuntamento è stato quindi dato alla ricerca, attraverso benchmark internazionali, degli elementi chiave che permettono di attivare un ecosistema, con meccanismi virtuosi di partnership pubblico-private tra stakeholder, policy maker e imprese. La presenza di alcuni fondi e banche di sviluppo dell’area mediorientale ha testimoniato inoltre la rilevanza che i nostri sistemi produttivi locali e distrettuali hanno ancora oggi, pur richiedendo urgentemente meccanismi di finanza completamente nuovi, che considerino il potenziale economico dell’impresa e il complesso del suo capitale intangibile, superando gli schemi del credito tradizionale.
Un appuntamento che, vista la rilevanza delle scelte e delle traiettorie evolutive compiute dalle PMI nello scenario economico globale, ha reso la scelta dell’Italia e del Nordest, ancora più rilevante proprio per gli scenari, completamente nuovi e turbolenti, che i sistemi produttivi locali stanno affrontando ormai da lungo tempo.
Tutte le informazioni sull’evento sono disponibili al link: ‎http://www.iefconference.com/

(No)I boys scout volonterosi e l’ignavia dei supponenti

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riforma-dalemaNella guerricciola civile a bassa intensità che si sta combattendo all’interno del PD, la querelle sull’epiteto giachettiano rivolto a Speranza (che, detto serenamente e pacatamente, ha il volto dell’agnellino sacrificale che suscita tenerezza), ha aperto un’altra interessante pista di ricerca sulle tormentose vicissitudini dei democratici.
Dopo la suggestiva lezione dello psicanalista Massimo Recalcati che ha avuto modo di sviscerare il subdolo e ricattatorio atteggiamento di padri (e nonni aggiungo io) che hanno bacchettato ed ostacolato i figli colpevoli di aver “scritto in modo orribile”, “da far schifo”, il testo della Riforma Costituzionale, perché incapaci di riconoscere loro la chance di misurarsi con la responsabilità di cambiare – anche sbagliando -, si presenta ora l’opportunità di un’indagine storico-culturale sul linguaggio che caratterizza le leadership degli schieramenti in campo…
(detto tra parentesi, il conflitto generazionale succitato è risultato evidente sia a livello della sterminata platea di costituzionalisti – un mestiere in cui sicuramente l’Italia primeggerà, come per gli avvocati, per numero di “addetti” -, sia tra i sostenitori del NO e del SI : è stata una bella gara infatti, tra gli sbefriforma-dalemafeggiamenti di D’Alema ed il turarsi il naso di Cacciari e a chi era più spregiudicato nel boicottare – direttamente o meno – il Progetto di Riforma).
Ma, tornando allo stile espressivo suggerisco una prima ipotesi interpretativa.
Da un lato non ci dovrebbero essere più dubbi sulla matrice lapiriana-scoutistica di Matteo Renzi nel quale prevale uno slancio idealistico-volontaristico con accenti di prosa “smart” arricchita da citazioni e l’uso di “parole di gomma”, “che scambia gli slogan motivazionali con le buone intenzioni, e le buone intenzioni con la capacità di metterle in pratica, e posandosi sui concetti li svuota di senso e di aderenza alle cose, e li trasforma in arnesi da imbonitore” (da Essere #Matteo Renzi – di Claudio Giunta).
Dall’altro si fa sempre più chiara la “presa”, sulla multiforme platea di una parte di “giapponesi” PCI-PDS -DS renitenti all’OPA neo-ulivista promossa dal leader fiorentino, della tattica dalemiana di usare il linguaggio togliattiano del dileggio e del disprezzo nei confronti degli avversari: può apparire azzardato ma “Voglio comprarmi un paio di scarponi chiodati per dare un calcio nel sedere a De Gasperi”, oggi potrebbe essere declinato in termini meno diretti e più allusivi i con: “Voglio comprarmi un deodorante contro la puzza delle riforme renziane”.
Ma in questa occasione non voglio soffermarmi su tale dialettica verbale che, purtroppo, porta a far arretrare il dibattito e l’agenda politica sul ruolo e sul programma del Partito Democratico necessari per affrontare le sfide contemporanee; su tale esigenza ho espresso con nettezza le mie valutazioni (e preferenze), anche con un contributo specifico centrato sulle proposte per dare continuità all’iniziativa riformista, a prescindere dal risultato della consultazione referendaria, vedi in:

Reimpaginare la comunicazione

Ciò che mi preme rilevare ed evidenziare invece è una questione che riguarda il grado di credibilità e leggibilità del Partito Democratico nel suo insieme per ciò che esso oggi rappresenta agli occhi dell’opinione pubblica partecipe alle vicende della vita politica e di quella che si ritiene impegnata ad esercitare un ruolo di classe dirigente: anche per gli osservatori più benevoli esso appare caratterizzato da una carenza di elaborazione culturale che rischia di indebolire irrimediabilmente anche l’efficacia di un’azione programmatica avviata nella giusta direzione e con risultati incoraggianti dalla svolta impressa al Governo dell’ultimo triennio.
Si sta appalesando ciò che lo storico Giorgio Roverato indica come un grave deficit nella personalità politica di Renzi (ma che io preferisco traslare ed attribuire all’intera Organizzazione del Partito) ovvero la mancata acquisizione della lezione gramsciana di “egemonia culturale”, risorsa ritenuta – credo giustamente – fondamentale per dare basi robuste ad una strategia di cambiamento convincente ed in grado di incidere nelle vischiostà ed arretratezze del sistema-Italia.
Senza riprendere il filo del ragionamento progettuale che ho affrontato recentemente, mi limito ad osservare che gli impegni esplicitati all’Assemblea Nazionale per la rivitalizzazione organizzativa del Partito, debbono essere integrati ed irobustititi da un Piano di lavoro culturale e comunicazione in grado di dare profondità, compiutezza e coerenza alla strategia messa in campo con i mille giorni di Governo: e ciò non dovrà esaurirsi nella – pur utile – pubblicazione che Renzi si accinge a divulgare….
E che tale lavoro debba essere sviluppato a tutti i livelli con il coinvolgimento di tutte le forze sociali, professionali, intellettuali che si sono cimentate generosamente durante la campagna referendaria e che hanno confermato la disponibilità a proseguire nell’impegno (mi riferisco in particolare ai mittenti delle 30.000 mail citate da Renzi domenica), diventa fondamentale non solo per dare un messaggio forte al Paese, ma anche per riorientare l’atteggiamento critico-schifiltoso di una molteplicità di opinion leader che – prima e dopo il risultato del Referendum – si sono esercitati nel “calcio dell’asino”, approfittando strumentalmente dell’esposizione solitaria e dell’atteggiamento sfidante del Presidente del Consiglio.
Con ciò voglio dire che la presunta personalizzazione del leader PD, non è un alibi né tantomeno una giustificazione per tollerare e non controbattere alle analisi contraffatte ed ai giudizi superficiali e velenosi, alle supposizioni fantasiose, che negli ultimi mesi giornali e talk hanno ospitato e veicolato, contribuendo a determinare un ulteriore impoverimento della riflessività nell’opinione pubblica; a tal proposito è illuminante la riflessione di Cristian Rocca, giunto a scrivere che “Lo scandalo del 2016 non è ciò che i giornalisti non hanno raccontato ai lettori; ma al contrario ciò che hanno scritto e il fatto che averlo scritto non ha avuto alcun impatto”
http://24ilmagazine.ilsole24ore.com/2016/12/la-fine-dellopinione-pubblica/
Il programma annunciato e varato dall’Assemblea dev’essere attutato facendo scendere in campo, con la ricchezza e l’articolazione di contributo che esso può apportare, l’intero corpo di iscritti, militanti, dirigenti che in questi tre anni ha auspicato, delegato, sostenuto la novità politica “interpretata” con coraggio dal nuovo Segretario del PD e che ha consentito di cambiare l’agenda politica del Paese, scompaginando anche i canovacci ed i paradigmi interpretativi dei professionisti dell’autocompiaciuta lettura della realtà immaginata più che indagata nel suo processo evolutivo.
Che dire dell’ineffabile Ilvo Diamanti, intento con il suo giocattolo Demos ad imbastire tabelle ed articoloni sul PDR (Partito di Renzi), innovazione linguistica inconsistente ed offensiva, utile solo a mascherare il vuoto di analisi e comprensione di una fenomenologia politica espressione della transizione verso una nuova forma Partito nella quale leadership e struttura organizzativa assumono funzioni inedite rispetto alla stagione nella quale dominavano visioni e prospettive dettate dalle nomenclature dei Partiti costituenti il Partito Democratico.
Non ci è poi mancata la verbosità generosa ed inconcludente di Massimo Cacciari: per esempio il suo recente invito alla separazione consensuale da parte delle componenti di maggioranza e minoranza del PD potrebbe sembrare ragionevole se espresso nell’ambito di Forum (la trasmissione di Barbara Palombelli), ma non aiuta certo a capire la natura dello scontro interno in atto ed il percorso politico per uscirne, collegato all’esito di una sincera ed aspra discussione sull’identità di una sinistra de-ideologizzata ed ancorata ad un’aggiornata visione dell’equità sociale, della crescita economica e della citadinanza attiva, non certo alle carte affidate a qualche notaio….
C’è poi la squadra dei giornalisti che hanno trovato nel renzismo un argomento per esercitarsi in dissertazioni retoriche, svincolate dal rigoroso ri-conoscimento dei fatti e basate sull’accentuazione della personalizzazione di Renzi all’incontrario, ovvero sul soffermarsi pigramente sul suo storytelling piuttosto che focalizzare le novità (positive e contradditorie) della sua azione all’interno di un quadro politico precario e malmostoso.
Abbiamo così potuto leggere, dell’apppassionato di storia Paolo Mieli, l’invito al dimissionario Presidente del Consiglio di ritirarsi dalla vita politica, citando esempi suggestivi ed improbabili: come si fa a paragonare il Generale De Gaulle nella temperie storico e politico della Quarta Repubblica francese con un giovane leader appena affacciatosi – in circostanze per gran parte da lui non determinate – su uno scenario politico che richiede, anche dopo l’esito del Referendum, la continuità di una presenza politica energica non solo di Renzi, ma anche dell’intera generazione politica a cui egli appartiene.
Ed ancora, Stefano Folli, in assenza di meditate controargomentazioni alla relazione del Segretario PD all’Assemblea Nazionale, non trova di meglio che, in concorrenza con Recalcati, a vestire i panni del psicanalista, informandoci che – secondo lui – l’autocritica “non è sincera”!
O, per continuare sul genere introspettivo, Ernesto Galli Della Loggia che, noncurante della reale condizione personale di Renzi (famiglia e chance professionali invidiabili), ha imbastito una sorta di pastone centrato su “Renzi e la paura di sparire”.
Lascio sullo sfondo le ricorrenti interpretazioni maramalde di altre “prime penne” giornalistiche, per concludere questa sintetica rassegna stampa segnalando una cronaca surreale di Mario Sechi sul “Funerale retorico dell’Assemblea PD”: un commento che vuole essere sarcastico e veritiero, ma – al di là del tono simpaticamente irriguardoso – si rivela una descrizione mistificante di un evento sicuramente intriso di elementi di inautenticità, ma comunque espressione di un’Organizzazione viva e desiderosa di intrapresendere un cammino di rigenerazione culturale ed organizzativa, di riconnettersi con le domande, le ansie e le contraddizioni di un Paese in crisi.
Se mi sono soffermato su questi scampoli di analisi e giudizi che considero in gran parte estemporanei, è per rimarcare il fatto che il messaggio, o meglio il racconto del Progetto PD per l’Italia è – finora – stato malinteso ed in molti casi deformato per ragioni che hanno a che fare anche con il fatto che l’attenzione dei commentatori si è concenrata sulle convulsioni interne e sull’approssimazione di una struttura-partito figlia della situazione emergenziale (sul piano economico-finanziario ed istituzionale) con cui la leadership renziana ha dovuto fare i conti.
Da domenica, come avevo avuto modo di auspicare e, se mi è permessa un po’ di presunzione, di preconizzare, si apre una stagione nuova, in cui la discontinuità e la novità saranno dati dal protagonismo delle migliaia di “boys scout” che, tra difficoltà ed incomprensioni, sono riusciti a convincere 13 milioni e mezzo di cittadini ad investire sul futuro ed a sottrarsi al ricatto della paura, del risentimento, della conservazione dello statu quo.
Il loro compito sarà quello di appropriarsi della bandiera, dei valori e della visione del PD, delle idee progettuali praticate e sperimentate con passione, parzialità, concretezza nei “mille giorni” passati e sottoporle al vaglio di una discussione più ampia e diffusa sull’intero territorio nazionale con tutti i soggetti e contesti sociali della sofferenza.
Il loro coraggio sarà di mostrare il volto e la volontà di chi si pone in ascolto e si apre al confronto non alla ricerca di un facile consenso e senza il timore di presentare un programma di cambiamento che fa i conti con le domande ma costruisce le risposte con la crescita, che entra nel vivo dei contrasti e del dissenso che oggi imperversano sulle questioni del lavoro, del reddito, dell’immigrazione, promuovendo le scelte dello sviluppo dell’equità dell’inclusione, del rigore.
E’ questa mobilitazione che deve diventare il focus per l’intero Partito Democratico, ovvero il terreno di convergenza attiva per funzionari, amministratori, consiglieri, parlamentari; di coinvolgimento della vasta platea di associazioni e forze sociali e culturali consapevoli che la svolta attesa di una cittadinanza democratica più ricca per tutti il 4 dicembre ha soltanto subito un rallentamento.
Nei prossimi mesi le chiacchiere su maggioranza e minoranza stanno a 0!
Con linguaggio scoutistico: la Speranza va praticata non rivendicata!
Naturalmente questo è il pensiero di un semplice iscritto disponibile a portare il proprio contributo nel Circolo di appartenenza ed in tutte le sedi in cui gli sarà richiesto di farlo.

Da La Repubblica del 20 dicembre 2016

Intervista poco corretta

“Vogliono liberarsi di Renzi,lo dicano.Sennò hanno la faccia come…” Giachetti insiste su Speranza, Bersani, D’Alema & Co. “IlPd non è più un partito se ciascuno fa come gli pare”
Ipocrisie, correnti, scissioni
Salvatore Merlo – IL FOGLIO – 20.12.16
Roma. Poiché ha detto a Roberto Speranza e agli altri “compagni” della minoranza del Pd che “avete la faccia come il culo”, da qualche giorno Roberto Giachetti, deputato, renziano, vicepresidente della Camera e già candidato sindaco di Roma, è diventato lo scorrettissimo eroe del parlar chiaro, o del parlar sporco, in un partito in cui i coltelli veri e metaforici scintillano nell’ombra. Domenica scorsa il suo intervento di appena cinque minuti è precipitato sul morbido – lui dice “sull’ipocrita” – dell’assemblea del Pd e si è infranto sulla platea, tra fischi e applausi, con la forza di un fenomeno atmosferico, con l’ineluttabile potenza di un fulmine o di un temporale. “Vengo dal partito radicale”, dice Giachetti, che giura di aver simpatia personale per Speranza (vi siete sentiti? “Ancora no”), ed è proprio per questo – spiega – “che forse non mi sono trattenuto. Sono cresciuto tra i Radicali e lì, com’è noto, non si dissimulava niente. Le cose ce le dicevamo in faccia. Con limpidezza. Anche ruvida. Eccessiva. Per me il parlare chiaro è anche una forma di rispetto, persino etico, se mi è consentito di tirar fuori una parola così densa. Dunque forse mi è scappata la frizione, domenica. Va bene. Forse ho usato un’espressione volgare, anche se non più volgare dei riferimenti al ‘ducetto di Rignano’ che da più di un anno vengono scagliati dalla minoranza contro Renzi o alla ‘puzza delle riforme’ di cui parla Massimo D’Alema. Va bene. L’ho detta forte. Ma ho anche detto quello che pensavo, e quello che pensano e sentono in tanti, in giro per l’Italia, non solo a Roma. Ho violato le regole dell’ipocrisia, ma il problema che ho posto rimane piantato come un chiodo nell’anima di questo Pd: è immaginabile l’esistenza di una comunità politica nella quale c’è qualcuno che, poiché è in minoranza, rifiuta sistematicamente le decisioni prese nelle sedi democratiche del partito e stabilisce di avere il diritto divino di fare quello che vuole?”. E Giachetti si riferisce alle riforme, alla campagna per il No al referendum, all’opposizione al Jobs Act, “e anche al fatto incredibile, inaudito, che la minoranza abbia dichiarato di voler sostenere il governo Gentiloni valutando provvedimento per provvedimento. Fanno come se il loro fosse un appoggio esterno. Ma che partito è questo? Abbiamo stabilito che non c’è più il partito, evidentemente. Esistono solo una serie di club dove ognuno fa quello che vuole. E come teniamo insieme la baracca? Come lo spieghiamo? Come facciamo a sostenere, magari in provincia, che ci voglia un senso di appartenenza quando da noi, a livello nazionale, centrale, facciamo finta di niente? Mi dispiace che la parola volgare che ho usato abbia oscurato tutto il resto. Ma non ce la faccio a essere ipocrita: davvero il mio ‘faccia di culo’ è più grave degli abbracci e dei brindisi cui si sono abbandonati D’Alema e Speranza per festeggiare la vittoria del No? Cos’è più grave nei confronti dei nostri elettori e dei militanti che hanno votato Sì?”. E allora forse la minoranza farebbe bene ad andarsene, a lasciare il Pd. “Io non voglio cacciare nessuno. Ma qualcuno deve rispondere alla mia domanda: come lo teniamo insieme un partitofatto in questo modo?”.
“Nessuno butta fuori nessuno”, dice Giachetti. “Ma mi devono dire che ci stanno a fare in un partito che bombardano con argomenti più pesanti di quelli di Salvini, di Grillo e di Brunetta messi insieme”. Va bene, ma la democrazia, persino dentro a un partito, è anche fatta di queste cose: dissenso, contrasti, opinioni espresse a contrario. “Ma a loro del merito delle questioni non gliene importa niente. E’ così chiaro. Le regole democratiche per loro vanno bene solo se il timone della ditta lo tengono loro. Se le tiene un altro non esiste la comunità e non c’è il processo democratico. Sento che Speranza dice: ‘Vorrei sapere se c’è ancora spazio in questo partito per la minoranza?’. Ma se la minoranza ha organizzato una campagna contro il referendum su cui la direzione e gli organi del partito, i gruppi, l’assemblea, hanno deliberato decine di volte! Che altro spazio vogliono avere? Vogliono il timone della barca! Questo vogliono. Per loro il problema non è l’uomo solo al comando, ma ‘quell’uomo’ al comando”. Cioè Matteo Renzi. “Io segnalo che in direzione e in assemblea non sento interventi di Bersani da forse un paio d’anni. Non partecipano. Normalmente vengono in direzione, ogni tanto parlano, poi però prendono cappello, se ne vanno e non votano. Domenica mi pare fosse intervenuto Guglielmo Epifani in rappresentanza di tutti loro. La verità è che loro il dibattito lo fanno fuori dal partito, non dentro. Sui giornali. In tivù. Nelle interviste… Adesso possiamo continuare a fischiettare e dire volemose bene. Ma non funziona. Non lo so se funziona, non mi pare. Io voglio sapere – e me lo devono dire loro – come si tiene in piedi una comunità dove chi non è d’accordo fa come gli pare? Come possiamo andare avanti se si comportano come un partito che dà l’appoggio esterno al governo espressione del partito cui loro almeno formalmente appartengono?”. Bersani dice spesso una cosa, cioè che grazie a lui il Pd ha interpretato anche il pensiero e gli umori di migliaia di elettori di sinistra che non si riconoscevano nel Sì al referendum. “Dovreste farvi un giro nelle città, tra la gente del Pd per avere l’idea di quello che i nostri elettori pensano di loro. Fatevi una passeggiata sulla mia pagina Facebook, dove ho fatto un post pubblicando il mio intervento in assemblea, e guardate i commenti. Io durante la campagna elettorale ho girato, se loro non avessero già fatto serenamente un partito nel corpo vivo del nostro partito, forse si renderebbero conto di qual è il clima nei loro confronti. Stanno agendo contro le scelte che sono state prese democraticamente dal Pd. Io mi chiedo, anzi, chiedo a loro: che cosa volete? Renzi se n’è andato! E ora, ancora, anche con Gentiloni, dite che deciderete di volta in volta?”. Speranza ha deciso di candidarsi alla segreteria. Contro Renzi. “Ed è abbastanza singolare il modo in cui lo ha annunciato. Si dice che io ho insultato un compagno di partito. Ma uno può moderare lo scontro tra Davide e Golia, che è l’immagine usata da Speranza? Ma che immagine è?”. E’ l’immagine di un uomo che combatte contro un gigante, significa che è una battaglia coraggiosa contro un avversario evidentemente più forte. “Ma no. Fa il paio col ducetto di Rignano. Ti segnalo che il gigante contro Davide, Golia, non è una figura carina e per bene: è il nemico mostruoso. E tu il nemico ce l’hai dentro il partito? Ma che cavolo di metafora è? E poi mi fischiano perché dico che hanno la faccia come il culo?”. No basta, non lo dire più. Dai. “Ma io non ce la faccio più. Quando ho sentito che Speranza diceva, testualmente, che il Mattarellum è la loro proposta di riforma elettorale mi si è annebbiata la vista. E’ da più di un anno che sulla legge elettorale hanno un atteggiamento assolutamente scorretto. L’Italicum è stato cambiato sei volte, su richiesta della minoranza: le preferenze, le soglie, l’articolo che inseriva il vaglio preventivo della Consulta… L’ultima volta sono intervenuti sul ballottaggio, e poiché stavamo arrivando a un accordo, hanno sconfessato il loro inviato, cioè Gianni Cuperlo. E’ evidente che il merito in questa faccenda non esiste. Esiste solo l’obiettivo di disarcionare Renzi. E’ tutto un gioco ai miei occhi molto scoperto. Ma lo facessero apertamente, lo dicano che il problema è Renzi. Io non provo nessun odio, né rancore personale. Anzi, l’ho già detto, Speranza mi sta pure simpatico. Però, al netto della parola ‘culo’ riferita alla loro faccia, penso che la politica debba riguadagnare la schiettezza dei rapporti e rispondere apertamente delle scelte che si prendono”. E infatti Speranza si candida alla segreteria. “Ma si candida per fare cosa? Per vincere non mi pare. Si candida per sfasciare? C’è un fatto che loro negano, ed è anche il motivo per il quale sono costretti a una battaglia ipocrita e tutta obliqua, opaca: loro non sono il Pd. Il Pd sono quei due milioni di cittadini che hanno eletto Renzi segretario”. Ma se gli dici che hanno la faccia come il culo non aiuti. “Il continuo tentativo di ricomporre le differenze descrive una fotografia che è diversa dalla realtà. Qua nessuno vuole ricomporre nulla. Altrimenti gli atteggiamenti sarebbero diversi. La realtà si manifesta nei comportamenti, e i loro comportamenti sono puntualmente diversi da quelli che descrivono a parole”. E quindi? “E quindi mi sono scocciato. Mi sono scocciato degli eufemismi e dei calci scambiati sotto il tavolo. Qualcuno lo doveva pur dire”.

Un bilancio obiettivo dei mille giorni del governo Renzi (Prof. De Masi eviti la faziosità!)

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de-masiAi sociologi bisognerebbe ricordare che il loro sguardo sulla realtà risulta – per la parzialità dei dati e delle competenze di cui sono dotati – ineluttabilmente opaco e che perciò dovrebbero essere cauti nell’esprimere valutazioni pretenziose. E tale atteggiamento prudente sarebbe tanto più indicato per le discussioni che riguardano l’economia. Ma per un affabulatore impenitente come Domenico De Masi, ospite assiduo del chiacchierificio della 7, il pregiudizio e l’antipatia militante nei confronti di Renzi costituiscono una molla potente per esercitarsi in giudizi talmente superficiali ed esasperati che si ritorcono contro la credibilità di un intellettuale che – pure – ha dedicato molta passione ed energia nella ricerca e produzione scientifica. Sentirlo affermare che l’ex Presidente del Consiglio ha adottato una strategia neoliberista che ha prodotto nefasti effetti sociali suscita un sentimento di tristezza ed il desiderio di invitarlo dedicarsi all’”ozio creativo” che gli sta tanto a cuore e ad evitare di impantanarsi su materie che necessitano di conoscenze e documentazione che lui non possiede. La tentazione di replicare polemicamente alle sue affermazioni è forte e potrebbe essere affidata ad un suo collega (Luca Ricolfi) che ha criticato Renzi per aver adottato politiche sociali sin troppo generose! Evito accuratamente di esercitarmi nella difesa d’ufficio dell’attività di Governo dei mille giorni ed in particolare delle misure deliberate proprio in tema di welfare e tutela delle fasce deboli della popolazione e colgo l’occasione per suggerire, a tutti coloro che in questi giorni si esercitano nel “calcio dell’asino” (con atteggiamenti superficiali ed in molti casi rivoltanti: oltre al citato De Masi, penso all’ossessionato Brunetta), di leggere un articolo caratterizzato da equilibrio, analisi ponderate e dati esplicativi di una valutazione complessiva espressa senza faziosità e/o riverenza nei confronti dell’esperienza di Governo renziana.

SU DEFICIT E SPESA TERZA VIA PRAGMATICA FRA LIBERISTI E KEYNES
Giampaolo Galli 16 Dicembre 2016 Il Sole 24 Ore

Sul bilancio del governo Renzi in campo economico si contrappongono due tesi opposte. Secondo una tesi cara alla sinistra, ma che trova ampia eco anche a destra, il governo Renzi avrebbe continuato con le politiche di austerità dei governi precedenti e ciò spiegherebbe i modesti risultati sull’economia. Secondo questa tesi, se si fosse speso di più, specie per investimenti, la crescita sarebbe più robusta. Per alcuni economisti, ad esempio per Marco Fortis, sulla crescita avrebbero avuto un impatto negativo anche i tagli alla spesa corrente. Secondo la tesi opposta, sostenuta, ad esempio, da Luca Ricolfi, il governo avrebbe seguito una classica ricetta keynesiana, fatta di più deficit e più spesa, il che avrebbe prodotto un peggioramento dei conti dello Stato, uno speculare miglioramento dei conti di famiglie e imprese, ma una ripresa dell’economia modesta perché l’esperienza dimostrerebbe che crescono di più i paesi che riducono l’interposizione pubblica nell’economia. In qualche misura queste diverse letture risentono legittimamente di diverse filosofie economiche, più o meno lontane dal paradigma keynesiano. Colpisce però che vi siano differenze tanto marcate nell’analisi dei dati, i quali, a nostro avviso, raccontano una realtà in qualche modo intermedia, che non consente di aderire né all’una né all’altra tesi. In questi anni, si è ridotto il deficit, ma ad un ritmo inferiore a quello che era stato previsto inizialmente – questo nell’intento di evitare che un eccesso di austerità bloccasse la fragile ripresa in atto.
L’intermediazione del settore pubblico si è leggermente ridotta, ma si è scelto di non ridurla tanto quanto i risultati della spending review avrebbero consentito (circa 25 miliardi a tutto il 2016), perché si sono aumentate alcune voci di spesa ritenute meritevoli, quali scuola, ammortizzatori sociali e sicurezza. Guardando i numeri, troviamo che l’indebitamento netto della Pa, attestatosi attorno al 3% sino al 2014, è sceso al 2,6% nel 2015 e dovrebbe scendere ulteriormente nel 2016. Si può dire, come dice la Commissione europea, che la riduzione è stata insufficiente, ma non si può certo dire che si sia aumentato l’indebitamento per fare spesa in deficit. Quanto all’intermediazione complessiva dello Stato, essa è scesa comunque la si misuri. In particolare, le uscite correnti al netto degli interessi – calcolando come spesa il bonus da 80 euro – hanno registrato una riduzione dal 42,6% del biennio 2013-2014 al 42,1% nel 2015, e anche queste dovrebbero scendere ulteriormente nel 2016. La pressione fiscale è scesa di un punto, dal 43,6% del 2013 al 42,6% nel 2016, se valutata al netto del bonus da 80 euro. È scesa di oltre un punto e mezzo, al 42%, se il bonus viene considerato, come si dovrebbe, una riduzione di imposte. Al di là, infatti, delle convenzioni contabili, nella sostanza economica, il credito d’imposta sui lavoratori dipendenti a basso reddito, sfortunatamente chiamato bonus, è una riduzione di tasse e rappresenta un taglio del cuneo fiscale sul lavoro, ossia della differenza fra il costo di un dipendente per l’azienda e il netto percepito in busta paga. Chi sostiene che le tasse sarebbero addirittura aumentate si focalizza sugli aumenti delle aliquote sul risparmio, ma trascura che l’onere di queste misure (valutato in 3,5 miliardi a regime) è largamente sopravanzato dalle tante misure di riduzione fiscale di cui hanno beneficiato sia le imprese (in particolare, abolizione dell’Irap-lavoro per 4 miliardi, super-ammortamento per circa un miliardo e riduzione dell’Ires per 800 milioni) sia le famiglie (Imu-Tasi per 3,5 miliardi, detassazione dei premi di produttività per un miliardo, oltre al bonus da 80 euro per un valore complessivo di quasi 10 miliardi).
In conclusione, sono state operate scelte difficili sotto il profilo della ricomposizione delle voci del bilancio pubblico, ma abbastanza prudenti dal punto di vista macro – il che forse ha deluso chi si aspettava cambiamenti radicali, come quelli che sono stati realizzati, ad esempio, nel mercato del lavoro con il Jobs act. È difficile argomentare che quelle realizzate siano le politiche ideali. Ma, ribaltando l’onere della prova, chi sostiene il contrario non può non misurarsi con contro-argomenti assai seri. I cultori del paradigma keynesiano, secondo i quali avremmo dovuto fare più spesa e più deficit, devono fare i conti con il tema del rischio finanziario, alla luce dell’alto debito pubblico, e con il rischio di isolamento dall’Europa. Dal lato opposto, chi avrebbe voluto meno spesa e meno deficit ha l’onere, non facile, di dimostrare che questa politica non avrebbe avuto l’effetto di soffocare sul nascere una debole ripresa.