Lotta alla povertà, pronti 700 milioni

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Lotta alla povertà, pronti 700 milioni

 

Davide Colombo – Il Sole 24 Ore –

 

Con la stabilità 2016 decolla un programma strutturale di contrasto alla povertà che ha l’obiettivo dichiarato di garantire un sussidio ad almeno un milione di soggetti, la metà dei quali sono bambini. Strumento principe sarà il Reddito di inclusione attivo, uno sviluppo del Sostegno di inclusione attiva (Sia) sperimentato nell’ultimo anno in 12 città campione, con la Capitale in netto ritardo, e che ha raggiunto circa 28mila soggetti. Il nuovo programma sarà calibrato sui nuclei familiari, con un’attenzione particolare su quelli con bambini. Il finanziamento per il 2016 annunciato dal premier è di 600 milioni, destinati a salire a un miliardo strutturale dal 2017. Il sussidio massimo mensile previsto su questo programma che avrà cadenza annuale è di 404 euro per famiglie povere con cinque componenti, tra cui minori (l’Isee dovrebbe essere fino a 3mila euro). Viene poi istituito, in via sperimentale, un altro fondo finalizzato a misure di sostegno contro la povertà educativa, alimentato da versamenti effettuati dalle fondazioni bancarie. Attraverso questa seconda iniziativa si rendono disponibili ulteriori 100 milioni l’anno

Matteo Renzi ha sottolineato la sua contrarietà a misure di mero sussidio, non accompagnate da programmi di inclusione messi in campo da diversi livelli delle amministrazioni centrali e degli enti locali, e ha sottolineato il carattere organico dell’intervento che si rivolge appunto ai minori. Una politica di contrasto alla povertà – ha poi aggiunto il presidente del Consiglio – oltre ad assolvere a un dovere morale garantisce in prospettiva un maggior potenziale di crescita dell’economia, visto che tende a ridurre le diseguaglianze di reddito. Il finanziamento da 600 milioni per l’anno venturo comprende anche una quota di 220 milioni per il programma Asdi, ovvero il sostegno semestrale riconosciuto a disoccupati con ammortizzatori esauriti e un carico famigliare (Isee attorno ai 5mila euro), che è stato attivato qualche mese fa con gli ultimi decreti attuativi del Jobs Act che hanno riformato (il decreto ministeriale è alla firma del ministro Padoan). Quello che viene attivato è un nuovo fondo ad hoc, come detto, destinato a crescere nel biennio 2017-2018 a un miliardo.

Le dotazioni per interventi di politiche sociali si completano con il rifinanziamento, dato per scontato visto che si tratta di fondi strutturali, della vecchia social card (la carta aquisti da 40 euro al mese) che impegna 250 milioni annui, mentre il fondo non autosufficienti dovrebbe passare dai 250 milioni del 2015 a 400 milioni.

Ieri in conferenza stampa Renzi ha anche annunciato un ulteriore finanziamento di 100 milioni sempre per il 2016, su un fondo chiamato “dopo di noi”. Si tratta di un finanziamento che va a coprire i programmi di intervento previsti in un disegno di legge già all’esame delle Camere e che ha l’obiettivo di garantire aiuti alle famiglie con disabili di età avanzata che stanno perdendo (o hanno già perso) i genitori. Si vogliono introdurre azioni per evitare la segregazione in istituti di questi disabili (Renzi ha fatto un esempio citando i malati di sindrome Down) per assicurare invece la possibilità di vivere in ambienti familiari.

Sul nuovo fronte di policy che si apre per il contrasto della povertà pende a questo punto solo l’incognita Isee, parzialmente bocciato con tre sentenze gemelle del Tar Lazio (2454, 2458 e 2459 dell’11 febbraio scorso ). Sul ricorso presentato, il Consiglio di Stato dovrebbe esprimersi il 3 dicembre prossimo e, in caso di conferma delle sentenze, il Governo dovrà procedere a una modifica dell’indicatore della situazione economica equivalente attualmente in vigore. Modifica che procederebbe con un decreto del presidente del Consiglio (Dpcm) con passaggi in Conferenza unificata e che potrebbe assorbire qualche mese.Famiglia

Contro le lagne digitali

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Contro le lagne digitali

 

COSÌ SHERRY TURKLE RACCONTA L’EROSIONE TECNOLOGICA DELL’ATTIVITÀ PIÙ UMANA,

LA CONVERSAZIONE. C’ENTRANO SMARTPHONE E INTERNET, MA NON CHIAMATELA LUDDISTA

Di Mattia ferraresi – IL FOGLIO – 15 ottobre

 

New York. Il dizionario inglese include la parola “phubbing”, che descrive l’atto di snobbare l’interlocutore per guardare lo smartphone o un altro device. Per quelli della generazione Z il termine ha assunto un significato anche più specifico: mandare messaggi sullo smartphone senza staccare gli occhi da quelli della persona di fronte, uno snobbare più educato e socialmente presentabile. Non perdere il contatto visivo

mentre le dita procedono in automatico, si pensa, ci immunizza dall’autismo tecnologico, dall’ossessione del “second screen” che serve a schermarci – appunto – dagli effetti indesiderati di una conversazione

reale, ad esempio la noia, l’imbarazzo o il puro disinteresse per l’altro e le sue parole, permettendo di salvare la capra delle nostre tendenze digitali e i cavoli della realtà che è fuori dallo smartphone.

Nel suo ultimo libro, “Reclaiming Conversation”, la psicologa Sherry Turkle spiega che le cose non sono così semplici. Non basta trovare il punto di equilibrio fra vita digitale e reale per esorcizzare le tendenze

sclerotiche. Il grande compromesso fra le conversazioni mediate dalla tecnologia che costantemente scorrono nel sottofondo della vita e i rapporti umani è possibile, ma ha un prezzo. Esistono comprovate sindromi da texting compulsivo, casi estremi di dipendenza dagli apparati tecnologici che costellano la vita, ma la riflessione di Turkle non è così grossolana da suggerire che siamo tutti malati, che gli schermi pulsanti

e vibranti ci hanno isolato e istupidito fino a farci bere il cervello, e l’intero mondo smartphonizzato avrebbe bisogno di andare dall’analista per guarire. Più semplicemente, e sottilmente, nel gioco a somma zero delle relazioni la conversazione tecnologica ha tolto fiato a quella faccia a faccia, “la cosa più umana, e umanizzante che facciamo”. “Interamente presenti l’uno all’altro – scrive Turkle – impariamo ad ascoltare.

E lì che sviluppiamo la capacità dell’empatia” “E’ lì – continua Turkle – che sperimentiamo la gioia di essere ascoltati, di essere capiti. Le conversazione accrescono l’autoriflessione, le conversazioni con noi stessi

che sono la pietra angolare dello sviluppo iniziale e che continua nel corso della vita”. Le conversazioni tecnologicamente mediate, per lo più in forma scritta, sempre rapide, selettive, disimpegnate, largamente

spogliate di tono e sottotesto, non sono per Turkle il male assoluto, ma un surrogato comunicativo che striminzisce l’attività più umana. “Siamo stati messi sotto silenzio dalle nostre tecnologie”, è la conclusione disarmata della psicologa del Mit, che è una maestra dell’analisi, non una profetessa dell’apocalisse.

Capita talvolta che gli entusiasti del vivere digitale, per dimostrare che non è la tecnologia ad averci reso antisociali, mettano a confronto le fotografie di due vagoni della metropolitana, una di oggi e una di

qualche decennio fa. Nella prima gli sguardi dei pendolari sono immersi negli smartphone, nella seconda gli occhi dei presenti sono ugualmente immersi nei giornali. Qual è la differenza? Turkle, che procede nelle sue affermazioni con il metodo delle scienze sociali, dunque sempre sostenuta dal peso dei dati e dalle indagini

quantitative, spiega che “anche un telefono silenzioso inibisce conversazioni rilevanti.

La presenza stessa di un telefono nel nostro campo visivo ci fa sentire meno connessi, meno impegnati l’uno con l’altro”. E’ la natura dell’oggetto distraente a fare la differenza fra le due fotografie. Lo

schermo dello smartphone è la via d’accesso alla possibilità di conversazioni più interessanti di quella che si sta svolgendo, è un punto di fuga che contiene tutto lo scibile della rete, dunque certamente si troveranno

oggetti più intriganti delle fanfaronate dello zio brillo al pranzo di Natale o della ramanzina della mamma. E’ un rifugio sicuro, identico e sempre nuovo, la sua sola vista è un pro memoria del fatto che ci stiamo perdendo qualcosa, è una recrudescenza della “fear of missing out” per cui viviamo sempre altrove, nel giardino delle possibilità perdibili o già perdute. Con lo smartphone non ci si incarta il pesce a fine giornata.

L’effetto più rilevante di questa costante fuga dalla conversazione per Turkle è la crisi dell’ “empatia”, parola onusta di significati sociali e anche politici, non a caso messa da Barack Obama al centro della

sua prima, trionfante campagna elettorale. L’empatia è la capacità di immedesimarsi con l’altro, di mettersi nei suoi panni, di sperimentare come proprie le sue gioie e i suoi dolori. Sollecitata da professori allarmati,

Turkle ha visitato molte scuole americane, riscontrando, ad esempio, che i dodicenni si comportano come bambini di otto anni: faticano a giocare insieme, ad ampliare il cerchio delle amicizie, di rado sperimentano forme profonde di lealtà verso gli amici, faticano ad ascoltare, abituati come sono (dai genitori, innanzitutto) a selezionare, a troncare le chat noiose e a prolungare quelle interessanti, a bannare

i troll. Applicano criteri simili alla realtà extradigitale, che di troll è piena. Senonché, sostiene Turkle, così facendo perdono un pezzo della propria identità, non sanno più chi sono, lasciano lungo la via strumenti importanti per affrontare la realtà. La struttura di “Reclaiming Conversation” è costruita su una frase del “Walden” di Henry David Thoreau: “Nella mia casa avevo tre sedie. Una per la solitudine, una per l’amicizia, una per la società”. E’ la prima sedia, quella della solitudine, dell’introspezione e dell’autocoscienza, a essere stata messa in vendita nello yard sale dell’epoca digitale. Senza quella le altre due, quelle della condivisione amicale, intima, e del dialogo pubblico, diventano istantaneamente inutili. Più che un atto d’accusa contro il “nemico esterno” della tecnologia, quello della professoressa americana è un caloroso invito alla riappropriazione dei pezzi di realtà che l’invasione tecnologica ha reso trascurabili. Turkle ha il vantaggio della credibilità. Critica la tecnologia da una cattedra del Mit, non da un circolo di neoluddisti del Kentucky, agisce nel campus dove sono fioriti futurologi e transumanisti, parla dallo stesso luogo in

cui Nicholas Negroponte profetizzava con entusiasmo negli anni Ottanta l’avvento di un mondo tecnologizzato e wireless. Lei stessa è stata una militante della leggenda digitale, e non ha fatto alcun voto di castità tecnologica. Jonathan Franzen, che non si scomoda spesso per recensire libri, sul New York Times

scrive che Turkle rappresenta una specie rara nel mondo dei critici della tecnologia: “Una moderata fra gli estremisti, una realista fra gli idealisti, una umanista ma non una luddista: un’adulta”. Franzen mette a fuoco la questione più importante del libro: i soggetti che l’autrice ha intervistato, le persone che ha conosciuto, gli studi sociologici che ha condotto o consultato dicono che le vittime di questo impoverimento della conversazione, attività umana per eccellenza, non la vivono come una conquista, ma come un disagio. Gli stessi compulsatori ossessivi di schermi che deviano la realtà, specialmente nei

suoi tratti più spiacevoli, non amano la riduzione del discorso umano di cui sono protagonisti, quel processo che frammenta l’interlocutore “in bit e pezzetti, come se potessimo usarli come pezzi isolati per sostenere

il nostro fragile io”. Questo disagio apre la possibilità di una riappropriazione della propria umanità, che non passa per la censura o l’eliminazione della tecnologia dalle nostre vite – il verbo dell’ascesi luddista che i critici le appiccicano proditoriamente addosso – ma per la sistemazione dell’elemento digitale nel suo giusto posto. Agli albori della comunicazione digitale i surrogati delle conversazioni tradizionali,

osserva Franzen, erano “meglio che niente”, adesso sono “meglio di tutto il resto”, per via delle caratteristiche ben note: rapidità, disimpegno, assenza di sottotesto e strati di lettura. Ma questo ha

aperto un vuoto umano, che Turkle sostiene si possa colmare ripartendo dalla domanda giusta: non “che cos’è la tecnologia?”, ma “che cos’è l’uomo”.

 

Giovani digitali

Primo passo per rilanciare l’edilizia (sostenibile)

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Edilizia sostenibile due

 

Giorgio Santilli – Il Sole 24 Ore – 16 ottobre

 

La prima considerazione da fare sul pesante «pacchetto casa» è che il governo ha rispettato i due impegni fondamentali che si era dato nelle scorse settimane: l’eliminazione integrale della tassa sulla prima casa per tutti e la riconferma (anch’essa integrale) dei tre bonus fiscali per le ristrutturazioni edilizie (50%), per il risparmio energetico degli immobili (65%) e per l’acquisto di mobili collegato a lavori fatti in casa (50%). Per dare una valutazione corretta della manovra in questo settore bisogna partire da qui, dal “cuore”, dalle misure di peso, per dire che questo primo importante passo aiuterà l’edilizia e il mercato immobiliare con una riduzione del peso fiscale per i proprietari di casa. Poco importa – in questo momento di congiuntura ancora difficile e di stretta necessità di uscire da un tunnel che dura da otto anni – che l’eliminazione di Tasi-Imu sia, come dice il premier, «per sempre», mentre la conferma degli sgravi fiscali riguardi solo il 2016 e non sia passata invece una più strutturale «stabilizzazione» pure auspicata dal Parlamento all’unanimità. La discussione su questo tema è ben avviata e vi partecipano ormai tutte le forze politiche con proposte e posizioni largamente mature: si potrà riprendere forse nel corso dell’esame parlamentare della Stabilità e, se così non fosse, non è un dramma se una soluzione venisse rinviata all’anno prossimo. Quel che è importante è che lo strumento più importante di “fisco buono” che abbiamo in Italia sia stato confermato senza mutilazioni: ricordiamo che nell’ultimo triennio, vale a dire dal 2013 a quest’anno, gli investimenti indotti dai crediti d’imposta sono ammontati a 28 miliardi di euro l’anno, praticamente la fetta più consistente di quel che è rimasto dell’edilizia privata.

Il secondo punto importante della manovra edilizia è l’allargamento, parziale ma significativo, che il ministro Delrio è riuscito a ottenere per questi bonus. Non è ancora chiaro se sopravvive la norma che estenderebbe la possibilità di utilizzo del bonus mobili agli under 35 che non effettuano lavori in casa. Certa è invece l’estensione dell’ecobonus agli alloggi popolari cui va aggiunto un fondo da 170 milioni per interventi di efficientamento energetico sempre del patrimonio abitativo pubblico. È qualcosa che somiglia a quello che Delrio e il presidente della commissione Ambiente della Camera, Ermete Realacci, hanno chiesto nelle settimane scorse.

Non siamo ancora – diciamolo chiaramente – a quella politica organica che dovrebbe favorire un piano complessivo di efficientamento energetico degli edifici pubblici e privati (compresi gli stabilimenti industriali) in Italia. È però certamente un primo passo in quella direzione che dovrebbe portare alla trasformazione dell’edilizia in chiave di sostenibilità energetica e ambientale. Ora che con lucidità anche il premier ha identificato questo come una delle sfide dell’Italia di oggi, bisogna avere più coraggio in questa direzione per incentivare chi compra case con classe energetica alta e favorire la demolizione e ricostruzione nelle nostre periferie degradate.

Il senso dello smartphone per gli studenti e la nuova Scuola

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Il senso dello smartphone per gli studenti e la nuova Scuola

di Paolo Ferri, università Bicocca

http://www.agendadigitale.eu/competenze-digitali/il-senso-dello-smartphone-per-gli-studenti-e-la-nuova-scuola_1741.htm#.ViAOcnLDzcQ.facebook

Gli stili di comunicazione dei “nativi digitali” sono profondamente differenti dai nostri, secondo i dati del recente rapporto Progetto Eu Kids on-line 2010-2014. In particolare smartphone non è solo una strumento di fruizione delle informazione ma, come abbiamo visto, è uno strumento di socialità, approfondimento e produzione di contenuti audio-video. Allora perché gli insegnanti non permettono ai loro allievi e studenti di usarlo in questo modo in classe?

Il recente studio dall’OCSE, Students, computer and learning: Making the connection evidenzia un dato solo apparentemente sorprendente: le tecnologie, pur indispensabili, da sole non bastano per migliorare gli apprendimenti dei “nativi digitali”, senza un riflessione sulla trasformazione delle metodologie didattiche e dei programmi. Tuttavia la necessità di integrare le competenze digitali nei curricula scolastici, lo afferma sempre l’OCSE, è fondamentale per la vita dei bambini e ragazzi di oggi. Questa necessità è in primo luogo dovuta al fatto che gli stili di comunicazione dei “nativi digitali” sono profondamente differenti dai nostri. Questo emerge anche da un recente studio pubblicato nell’ambito del Progetto Eu Kids on-line dal titolo significativo: Mobile Opportunities. Exploring positive mobile media opportunities for European children. Si tratta di una ricerca condotta dalla Professoressa Jane Vincent sui dati 2010 e 2014 raccolti nelle numerose indagini sulla dieta mediale di ragazzi e bambini condotte da Eu Kids On line.

Gli “stili di comunicazione” digitale dei nostri figli e nipoti, infatti, costituiscono una parte sempre più significativa, sicuramente maggioritaria per ciò che riguarda la fruizione mediale, della loro esperienza individuale e sociale. Nello stesso tempo Internet e i media digitali offrono loro una serie di opportunità di crescita che spesso la scuola e la famiglia non solo non incoraggiano ma spesso impediscono! Crescere in un mondo digitale “connesso”, come è evidente, anche dai nostri studi, è un’avventura emozionante per i nostri figli e per tutti i ragazzi del mondo. Si divertono a navigare ed a utilizzare le molteplici caratteristiche di Internet, i servizi di social networking (SNS), le App e i giochi che sono supportati dai loro dispositivi mobili. In particolare sono molto “ingaggiati” dallo sperimentare su se stessi e sulle loro relazioni sociale gli effetti e le opportunità dei nuovi media; anche i potenziali “rischi” di Internet costituiscono per loro un sfida da superare. Se si osserviamo le tre figure seguenti, contenute nel report della London School of Economics, vediamo che esiste, infatti, un correlazione positiva tra accesso ed uso di Internet (ogni giorno) e numero delle attività svolte on-line – navigare, guardare video, aggiornare il proprio profilo sui social network, video-giocare con altri pari, consultare contenuti per l’apprendimento – . Esiste poi una correlazione altrettanto positiva con le competenze relative a queste attività che vengono acquisite: informarsi, stabilire relazioni sociali on line, produrre video, interagire in maniera proattiva sui blog eccetera.

Ovviamente come dimostra la figura 3, un maggior presenza on-line, sia in mobilità che a casa espone, anche, maggiormente di “rischi della rete” (visione di materiale sconveniente, possibili alterchi on-line, furto d’identità, o episodi di bullismo digitale) . E tuttavia, anche in questo caso, il Report della London School of Economics, rileva come la grande maggioranza dei bambini/e intervistati hanno affermato di non essere stati particolarmente disturbati dall’aver incontrato esperienze potenzialmente “a rischio” sulla rete. Al netto di poche eccezioni, anche se ovviamente significative eccezioni, cioè, navigare quotidianamente aumenta nei bambini la consapevolezza dei rischi che possono correre on-line delle strategie da utilizzare per minimizzarli.

La vita digitale dei nostri bambini e ragazzi

La fotografia dei comportamenti on-line che il Report presenta si concentra su sei aspetti della vita digitale dei nostri figli: a. Essere in Mobilità; b. Essere all’interno di una comunità sociale; c. Apprendere; d. Intrattenersi e. Giocare; f. Essere sé stessi; g. Essere sicuri e protetti.

Analizziamo in maniera sintetica i risultati con particolare riguardo ai temi dell’identità dell’essere parte di una comunità sociale.

Essere se stessi

I bambini e ragazzi europei “stanno utilizzando i loro telefoni cellulari e le esperienze online per esplorare la loro identità”. Si tratta di un affermazione molto interessante che potrà sorprendere molti adulti. Ad esempio la pratica dei “selfies”, dei video auto-prodotti (e condivisi sul Instagram o You Tube) sono per i bambini e i ragazzi di questa età un modo per scoprire come gli altri considerano la loro immagine – ad esempio come li vedono i loro amici – e più intimamente per sperimentare, scoprire ed esplorare i differenti aspetti del proprio sé in una fase molto dinamica e rilevante del loro sviluppo.

Il cellulare, poi, è un vera protesi del sé. Rappresenta, infatti, uno specchio, uno strumento di analisi e un diario che traccia la storia della crescita e delle esperienze dei bambini e dei preadolescenti. E’ il contenitore delle relazioni con i pari e delle loro comunicazioni sociali, che si svolgono per lo più attraverso, testi, immagini e video più che “a voce”. Lo Smartphone è anche il mediatore delle loro relazioni più intime, cioè quelle relative alla sfera dell’amicizia e dell’affettività e in seguito della sessualità. Progressivamente archiviano in digitale le loro esperienze di vita oltre che il loro intrattenimento ed usano spesso questo archivio per riflettere su se stessi e sulle loro azioni. Noi adulti siamo portati a considerare il cellulare quasi esclusivamente come un strumento per le “emergenze” e per la comunicazione, solo da poco abbiamo scoperto il texting e l’uso di Internet in mobilità. Per i nostri figli tutto questo è naturale e lo smartphone è molto di più di questo. E’ lo spazio “narrativo” e sociale dove viene documentato e rielaborato il loro percorso di crescita e le loro relazioni con i pari. Si tratta di una “porta” di accesso privilegiata alla loro identità digitale, che non costituisce per loro una elemento estraneo o parziale della loro esistenza, come lo è spesso per noi adulti, ma è una parte integrante della loro identità reale.

Essere all’interno di una comunità sociale

I “nativi digitali” stanno sperimentando anche, e con molto entusiasmo, nuove forme di connessione, di socialità on-line che permettono loro essere contemporaneamente presenti e socialmente attivi sia nel mondo reale che in quello digitale. Lo smartphone, come si accennava, è diventato in questi anni una “protesi” sociale fondamentale per i nostri figli tra i 9 e 16, non è detto che questo sia del tutto positivo ma è un fatto. Questo “sesto senso”, lo potremmo definire come il “senso” della socialità tra pari, dell’intrattenimento e del gioco condiviso. Si tratta di un “senso molto duttile e sviluppato ma poco orientato alle relazioni con la famiglia e genitori. Questi spesso “acquistano” uno smartphone al figlio per rimanere in contatto con lui in caso di necessità, ma subito si accorgono di avere fallito l’obiettivo visto che molto spesso le chiamate dei genitori restano inascoltate. Lo smartphone, infatti, serve a bambini, preadolescenti e ragazzi per aprirsi al mondo delle relazioni con gli amici, i compagni di scuola o quelli delle attività sportive, ma serve anche a riempiere attraverso la socialità, la fruizione dei contenuti e il gioco, i “tempi morti” della giornata. Questo avviene attraverso la fruizione e/o la produzione di contenuti su vlog (videoblog), Instagram, su You tube. Come si vede “i tempi morti” sono riempiti da attività che implicano sempre una forte componente sociale – anche i video-game ormai sono tutti fruibili su Internet con gli amici. Facebook, soprattutto in mobilità, rimane sempre la principale piattaforma “social” dei bambini e dei pre-adolescenti europei – lo usano il 39% dei soggetti tra tra i 9 e 16 anni –. Tuttavia si assiste negli ultimi anni a una maggiore varietà di scelta tra le piattaforme, come dimostra il crescente successo di strumenti più agili e meno permeabili agli adulti come appunto WhatsApp, Instagram e Snapchat. Inoltre l’uso che di questi strumenti fanno i “nativi” è piuttosto consapevole. In bambini e i ragazzi tra i 9 e 16 sono sempre più consapevoli delle problematiche e delle impostazioni riguardanti la privacy e hanno spesso contatti esclusivamente con la rete dei pari, hanno cioè un chiara consapevolezza dei rischi della rete, un consapevolezza che è maggiore quanto maggiore è la frequentazione dei siti social. Anche noi adulti dobbiamo imparare a considerare che lo smartphone è una protesi ormai “indispensabile” in questa fascia di età. E’ molto difficile proibirne l’uso e soprattutto i bambini saranno sempre in grado escogitare modi e motivi per averlo con loro in ogni momento, anche quando non possono utilizzarlo come a scuola o a causa della proibizione di un genitore.

Conclusioni

Ora questa fotografia della vita digitale dei nostri bambini e ragazzi ci evoca almeno due riflessioni conclusive che riguardano gli adulti.

La prima riguarda la diffusione di Internet, in particolare in mobilità, tra i bambini e i ragazzi tra i 9 e i 16 anni. Il fenomeno è ormai ampiamente maggioritario. Che senso ha il fatto che molti “laudatores temporis acti” sprechino tante energie nel condurre una battaglia per impedire l’uso di questo potentissimo strumento ai bambini e ai ragazzi. Non varrebbe forse la pena di impiegare più produttivamente il tempo a capire come educare il nuovo “sesto senso” dei nostri figli?

 

In secondo luogo dal Report della London School of economics, emerge chiaramente come lo smatrphone è un “protesi” che apre ai nostri figli molte opportunità anche nel campo dell’apprendimento. Perché le norme di molti paesi europei ne proibiscono l’uso all’interno delle scuole? Lo smartphone non è solo una strumento di fruizione delle informazione ma, come abbiamo visto, è uno strumento di socialità, approfondimento e produzione di contenuti audio-video. Perché gli insegnanti non permettono ai loro allievi e studenti di usarlo in questo modo in classe? Ai posteri l’ardua sentenza…

 

 

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Territorio, nuova ricchezza d’Italia

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L’art. 24 dello Sblocca Italia è la chiave di volta per riqualificare interi quartieri

Francesco Prisco – Il Sole 24 Ore 5 ottobre

Valorizzare gli spazi. La carta da giocare è nel partenariato pubblico privato con un forte coinvolgimento dei cittadini

La grande sfida di cambiamento per le città italiane si chiama qualità: passare dal tradizionale modello di valorizzazione di singoli edifici alla valorizzazione di interi quartieri, con un approccio partecipativo che parta «dal basso». L’occasione del rilancio è data dall’articolo 24 dello “Sblocca Italia”, in virtù del quale «i comuni possono definire i criteri e le condizioni per la realizzazione di interventi su progetti presentati da cittadini singoli e associati, purché individuati in relazione al territorio da riqualificare».

Tutto nasce, insomma, perché siamo a una sorta di anno zero per il comparto immobiliare, ancora alle prese con una crisi lunga e grave (da cui solo alcune aree del Paese cominciano a emergere). In un contesto in cui la carenza di risorse pubbliche si aggiunge alla paralisi amministrativa e all’ostinazione del popolo dei «No», la necessità sempre crescente di dare risposte rimettendo mano alle nostre città, riaccende il dibattito su come riqualificare.

È opinione comune che serva “qualità in quantità” in città trasandate e funzionalmente obsolete, per garantire migliore vita ai cittadini, maggiore capacità attrattiva ai turisti, efficienza gestionale con minori costi per l’ambiente. Occorre che servizi manutentivi e gestionali incontrino l’opportunità costituita dal patrimonio immobiliare pubblico di manufatti, piazze, vie e aree ancora da valorizzare.

Come arrivarci? Innanzitutto cogliendo le opportunità di valorizzazione che arrivano da cittadini e imprenditori e, insieme, individuando ambiti di applicazione, quali quartieri metropolitani o più ampie aree urbane e rurali: insiemi, cioè, appropriati che possano essere oggetto di un intervento di valorizzazione. Sia del singolo bene pubblico che del quartiere, rivitalizzato da una più efficace gestione e dal traino del manufatto pubblico nella sua nuova destinazione.

La sfida che le istituzioni sono chiamate a raccogliere è nota: capacità d’ascolto, di dialogo con chi è portatore di benefici, risparmi di risorse e migliore qualità della vita per la collettività. In altre parole, la gestione deve rispondere a utenti e stakeholder con modelli innovativi. Del resto, c’è poco da inventare, poichè ciò è già avvenuto, e con molto successo, in diverse esperienze estere (si veda l’articolo nella pagina a fianco).

Per troppo tempo l’approccio è stato “top down”, dall’alto verso il basso, causa lo stallo di società e pubblica amministrazione poco disponibili al cambiamento. Ma domani le chiavi interpretative dovranno necessariamente essere il New Public Management (Npm) con un ridimensionamento della Pa, le relazioni di partenariato pubblico-privato, l’universo del facility management che prevede la gestione integrata dei servizi al territorio e ancora forme crescenti di condivisione del principio di sussidiarietà.

Il “detonatore” per far esplodere il cambiamento può essere proprio l’articolo 24 del Decreto “Sblocca Italia” (Dl 133/2014) che promuove un modello bottom-up: «I comuni – si legge nel testo – possono definire i criteri e le condizioni per la realizzazione di interventi su progetti presentati da cittadini singoli e associati, purché individuati in relazione al territorio da riqualificare». È la sfida della “sussidiarietà verticale” e “orizzontale” tramite espressioni organizzative dei cittadini che può diventare fatto concreto.

Per un’applicazione efficace di questo approccio, l’intervento deve essere “proattivo” da parte della Pa, spesso ancora resistente a consentire la partecipazione dei cittadini: da un lato, l’ente locale deve dare sostegno a quanti già esprimono una richiesta ragionevole, fattibile e “cantierabile”; dall’altro, lo stesso ente dovrà anche svolgere un lavoro di promozione per favorire un atteggiamento propositivo e grande partecipazione da parte dei cittadini.

Naturalmente non si parte da zero, perché anche in Italia si riscontrano spunti di innovazione. Per esempio a Bologna, con il «Regolamento sulla collaborazione tra cittadini e amministrazione per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani».

Ad esempio,il modello gestionale integrato “Insula” per il Borgo antica Dogana di Napoli (si veda l’articolo a fianco) riguarda un frequentatissimo quartiere centrale che versa in condizioni di obsolescenza e, per questo, non può giovarsi delle enormi opportunità turistiche insite nella sua prossimità al centro città. Questo modello può essere applicato anche in altri contesti urbani assimilabili.

Ipotesi interessanti riguardano a esempio un’area di tutt’altro segno: Ponticelli, tessuto urbano fragile, incerto e pervaso da marcati fattori di disagio sociale. In questi casi l’approccio al tema richiede rigenerazione urbana per parti di città; ottimizzazione delle risorse disponibili, finalizzate alla qualità urbana; condivisione dei modi e delle scelte, con conseguente recupero della coesione sociale anche a favore dell’identità (consolidata o nuova) dei luoghi; perseguimento della semplificazione amministrativa nelle procedure autorizzative (quanti progetti bloccati nei Comuni italiani? pensiamo al caso Bagnoli) e nei servizi al cittadino; utilizzazione ottimale della risorsa info-telematica, decisiva in numerosi ambiti per la qualificazione delle prestazioni e dei servizi.

Un percorso che porta dritto alla città del futuro. Che sarà finalmente il luogo della “qualità in quantità”, per una migliore convivenza civile.Ricchezza territorio uno

Imbriaghi spolpi e rinnovamento veneto

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Aveva sicuramente esagerato il caustico Toscani nell’attribuire ai veneti una propensione all’alcolismo (scambiando un ironico sfottò per un giudizio antropologico-culturale…) .

Ora però, lo stigma colpevolizzante è riemerso in versione vicentina, e l’epiteto di “imbriaghi spolpi” è stato velenosamente (e con buone ragioni) rivolto all’indirizzo degli amministratori della locale Banca Popolare, volendo attribuire loro “una sbornia di ambizione” (vedasi l’articolo odierno di Stella sul Corriere della sera: “Il salvadanaio e le illusioni”).

Certo, si riferisce ad una vicenda circoscritta, ma probabilmente il ricorso a tale aggettivazione ci segnala la volontà di marchiare in modo inappellabile comportamenti che deviano dalla serietà e dalla compostezza, dall’equilibrio e dal senso della misura delle cose e nelle azioni.

Ed allora è forse il caso di cogliere l’occasione per riflettere sulla necessità che nella nostra Regione, la “sobrietà” diventi una virtù più robusta e diffusa, venga assunta come valore di riferimento da parte di coloro che – a vario titolo – esercitano funzioni di responsabilità e di forte impatto su consumatori e cittadini, ma ne venga anche costantemente evidenziata la rilevanza in termini di costume e civismo.

Mi spiego meglio con alcuni esempi concreti che fanno emergere il deficit di sobrietà, intesa come consapevolezza critica, che caratterizza lo spazio pubblico veneto.

  • E’ ormai acclarato che il vignaiolo (ironia della storia) Zonin ha perpetuato un potere autocratico e finanziariamente criminogeno, ma esso è allignato in un contesto sociale di omertà diffusa e si è basato sul consenso di una una massa di clienti predisposti all’autoinganno ed alla dipendenza dai bicchieri – promesse irealistiche di una Banca le cui attività fraudolente erano “tollerate” in quanto pensate e gestite nell’ambito del territorio vicentino
  • Tale comportamento sociale debole e subalterno somiglia molto alla credulità ed agli atteggiamentti manifestati da altre “comunità locali” venete, affascinate dalla predicazione antieuro ed antiprofughi di un “Capitan Fracassa” (copyright Flavio Tosi) come Salvini intento a somministrare promesse – nel suo caso politiche – palesemente irrealizzabili (e dannose), ma ritenute corrispondenti agli interessi immediati dei cittadini, in omaggio alla vulgata del “paroni a casa nostra”!
  • La fenomenologia della “distrazione di massa” in Veneto, non è recente, bensì è correlata ad un certo disorientamento provocato dall’accelerato processo di crescita economica e trasformazione sociale che ha trovato le leadership imprenditoriali e politiche impreparate a leggerne ed affrontarne gli effetti e le conseguenze. La società veneta nel suo complesso, anche nella stagione più recente, ha fatto letteralmente miracoli (si pensi solo all’assorbimento ed integrazione di mezzo milione di immigrati), ma al suo interno non si sono – finora – coagulate forze sociali e culturali (università, media, agenzie e centri di ricerca) con la forza adeguata per introdurre quegli elementi di riflessività critica nell’opinione pubblica necessari per focalizzare meglio i nodi e le scelte cruciali per il cambiamento in corso. Ci si è trastullati con il venetismo autocompiaciuto e difensivo, con le previsioni astrologiche (pardon sociologiche) e dibattiti da Bar Sport sulla vocazione indipendentista; e con ciò bruciando lustri di tempo che sarebbero stati fondamentali per l’opera di aggiornamento socio-culturale e modernizzazione (infrastrutturale, di apparati produttivi ed amministrativo-istituzionali, di protezione del territorio, ecc.).

In questa situazione è – nel frattempo – cresciuta la straordinaria realtà delle Imprese venete che, estraniandosi dal frustrante cazzeggio sociopolitico locale, si sono date il compito ed assunto la responsabilità di trainare l’intero sistema regionale ad affrontare la crisi misurandosi con il processo di globalizzazione in corso, accettando le sfide dell’innovazione e della competizione: sono così diventati trentamila gli imprenditori impegnati ad interagire con i mercati di tutto il mondo ed a dotarsi delle chiavi di lettura ed accesso al futuro.

Si tratta di un pezzo importante di quel mondo di elettori veneti che – alle elezioni Europee – ha intravvisto e giudicato favorevolmente il riformismo avvviato nel Paese dal Governo Renzi, che ha l’indubbio merito di aver aperto le finestre di un ambiente politico-istituzionale ammuffito.

Infatti nella nostra Regione l’esigenza più avvertita è quelle proprio di un riformismo operante finalizzato ad aggredire tutte le posizioni di rendita ed anche coloro che non si identificano nell’attuale maggioranza sentono la necessità di partecipare ad un’azione critica con analisi-elaborazioni-proposte programmatiche alternative che veicolino – però – un messaggio responsabilizzante, ovvero che testimonino la volontà di misurarsi con la complessità dei problemi e della loro soluzione piuttosto che con il bullismo, la retorica ed il sorvolo dei nodi cruciali accumulati proprio in virtù della verbosità demagogica ed inconcludente.

Ritornando (e concludendo) sulla querelle di Toscani, per il veneti non è l’alcolismo il vizio più pericoloso da evitare (che tocca più da vicino invecece territori “autonomi” con il Trentino e la Valle d’Aosta…) bensì l’ubriacatura nei confronti demagoghi politici e protagonisti del tessuto economico-finanziario che sotto la bandiera del localismo e del territorio hanno pervicacemente ostacolato i processi di rinnovamento veicolati dalla concorrenza, il merito, l’apertura, l’integrazione e l’inclusione socialeZonin due

Crisi delle Rappresentanze: il (recente) caso della CISL

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aritrovarbellezzaLa recente e traumatica uscita di  scena di Raffaele Bonanni  avrebbe dovuto costituire l’occasione per un ripensamento strategico culturale nell’Organizzazione, ovvero sollecitare una riflessione approfondita – a tutti i livelli ed in tutte le strutture – che si proponesse di identificare (e rimuovere) le ragioni ed il contesto che avevano consentito di far evolvere (nel senso di degenerare) l’esercizio di una leadership – acquisita legittimamente attraverso le regole della rappresentanza – verso una gestione autocratica e  scelte discrezionali che, con l’acquisizione  di un reddito esagerato e “sorprendente”,  manifestava solo l’aspetto più evidente e scandaloso, sicuramente grave e preoccupante, ma non il solo in una situazione rimasta per molti aspetti oscura.

Personalmente, i 40 anni di affiliazione,  da un lato mi  facevano auspicare una rigenerazione innanzitutto etica,  dall’altro – per il disincanto accumulato e la conoscenza diretta della fenomenologia costituita dalle cordate e dai poteri insediatisi nelle strutture sindacali – avevo percepito che il “sacrificio” delle dimissioni anticipate del Segretario Generale rappresentava una prima manifestazione dello sgretolamento dell’equilibrio che aveva retto nell’ultimo ventennio una Confederazione governata prevalentemente sulla base di cordate e vincoli relazionali, disancorati dal terreno del confronto sulla progettualità, della dialettica sui programmi, della condivisione di un’etica comportamentale rispettosa delle attese e degli interessi degli iscritti.

Avevo ben presente e sperimentato che si era oramai  affermata una  subcultura organizzativa assunta come mainstream  sia  da parte della dirigenza meridionale affermatasi al vertice (ed a suo agio nel gioco della seduzione e del ricatto) che da parte di numerosi aspiranti leader (autocollocati all’opposizione interna) desiderosi di mercanteggiare e dividersi i posti di comando a prescindere da ogni valutazione sullo stato reale dell’Organizzazione.

Il risultato di tale processo era riscontrabile su due piani separati, ma correlati:

a) La moltiplicazione e negoziazione di incarichi e carriere dentro e fuori la CISL ( Enti, Istituzioni, Aziende Speciali, Partiti)  che hanno consentito di disinnescare conflitti e “remunerare” una vasta platea di dirigenti frustrati per non potersi  aggiudicare lo strapuntino di carriera rincorso con tanta passione ed alla disperata ricerca di “uscite di sicurezza”…

b) La progressiva caduta di credibilità, legittimazione ed efficacia dell’azione sindacale in tutti quegli ambiti che – soprattutto nell’ultimo decennio, sull’onda di una irreversibile (e necessaria) ristrutturazione degli assetti economico-finanziari ed amministrativo-istituzionali – avrebbero richiesto un radicale cambio di paradigma nell’interpretazione della crisi e programmatico:

–  Ri-negoziazione ed aggiornamento di tutti gli istituti regolativi  del mercato del lavoro ben prima del Jobs act che privilegiasse l’accessibilità all’occupazione per i giovani (sostanzialmente oscurati nei monitor sindacali)

– Riforma della contrattazione e diffusione della sua pratica con al centro la produttività intesa come misuratore vincolante per la distribuzione del reddito

– Ristrutturazione della Spesa pubblica finalizzata alla riduzione della pressione fiscale ed alla salvaguardia delle quote di spesa sociale e sanitaria sottoposte, però, ai criteri della trasparenza, dell’equità e degli standard di efficienza

– Riorganizzazione della Pubblica Amministrazione nel segno dell’innovazione, della produttività, della remunerazione  del merito e della professionalità, facendola diventare un focus prioritario Confederale e non settoriale

–              Riordino del Sistema pensionistico (anticipando la Fornero) attraverso una severa razionalizzazione degli sprechi,  delle asimmetrie e squilibri nei diversi regimi e fondi, consentite dalla nefasta ideologia dei “diritti acquisiti” difesa ostinatamente soprattutto (ma non solo) da parte delle caste corporative: da essa e solo da essa (la razionalizzazione) sarebbe potuta derivare anche una realistica salvaguardia del potere d’acquisto delle pensioni (attraverso un meccanismo di aggiornamento collegato anche agli effettivi versamenti contributivi)

Di tutto ciò (che avrebbe potuto mettere alla prova ed esaltare la vocazione autonoma e riformista cislina) in questi ultimi anni abbiamo visto molto poco, troppo poco!

Il progressivo indebolimento, sia in termini di elaborazione culturale che capacità di mobilitazione della CISL, ha favorito sia la regressione della CGIL su posizioni conservatrici che l’affermarsi di una propensione dei Governi a privilegiare un approccio aggressivo sostenuto da un pregiudizio antisindacale nei provvedimenti riguardanti l’occupazione, lo sviluppo, lo stato sociale.

Nell’ultima stagione politica, poi, l’iniziativa politica  renziana nel nome della rottamazione, ha trovato un varco ed una giustificazione (ed un’ampia legittimazione democratico-popolare) proprio nella pigrizia, nell’impreparazione dei gruppi dirigenti sindacal-confederali, appiattiti sulle sorti e le strategie  prodotte dalla cultura politica fallimentare del vecchio (e coevo) sistema partitico ed istituzionale.

Posso capire quindi che nell’attuale temperie, ci sia tra i quadri ed i militanti cislini, disorientamento, disillusione ed una profonda amarezza di fronte ad una realtà stipendiale che mostra il “fortunoso e non casuale” arricchimento di molti frati, in un convento –  soprattutto nei territori –  che deve fare i conti  con straordinarie difficoltà provocate dalla crisi economica e sociale, sicuramente aggravate dalla caduta della credibilità indotta nei lavoratori e nei pensionati dal verificare che molti  loro rappresentanti appartengono ad un altro pianeta reddittuale e, verosimilmente, non possono comprendere e  con-dividere le loro condizioni.

La denuncia di un  vecchio amico (e coetaneo) come  Fausto Scandola, quindi, rappresenta un grido d’allarme, che va assunto come  un segnale disperato e disperante rispetto una situazione che può determinare un crollo verticale di fiducia nel rapporto tra rappresentati e rappresentanti.

I Probiviri ed i Regolamenti diventano quindi una risposta risibile e del tutto inappropriata: non si affronta l’imminenza di uno tsunami ricorrendo agli ombrelli, bensì concentrandosi sul consolidamento dell’edificio comune,  innanzitutto avviando  la sua rigenerazione etico-civile e strategico-operativa.

 

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Thinking and eating differrent : appunti per il Rinascimento agroalimentare italiano

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a5t

La ri-affermazione del primato italiano nel mondo, per l’eccellenza del proprio comparto agro-alimentare, sta oggi  tutta dentro la progettualità, la  fatica e la gioia di perseguire l’innovazione  produttiva e la determinazione a difenderne l’autenticità  sia nel mercato nazionale che in quello globale.

In coerenza con tale visione, l’auspicato e  vagheggiato “Nuovo Rinascimento” dell’economia, è diventato pratica e comune sentire per  un popolo di piccoli e medi imprenditori con i quali  Accademia delle 5 T,  sin dalla sua fondazione e nel corso di dieci anni di vita associativa, ha elaborato e sperimentato una strategia di sviluppo incardinata sull’adozione e concretizzazione delle caratteristiche fondamentali della cultura enogastronomica italiana: Territorio, Tipicità, Tradizione, Tracciabilità, Trasparenza.

Essa si è proposta di  aggiornare la declinazione del profondo legame esistente tra natura,  cultura e manifattura, partendo dalla presa in carico e tutela del patrimonio  di  biodiversità che è stato “donato” all’Italia, rendendola il Paese   più ricco d’Europa in termini di risorse ambientali e genetiche; in assoluto presenta infatti  il più alto numero di specie: in particolare vi sono  “ospitate” circa la metà delle specie vegetali e circa un terzo di tutte le specie animali attualmente presenti in Europa.

Le razze autoctone rappresentano un patrimonio culturale e biologico frutto di anni di storia a testimonianza della cultura delle popolazioni rurali oltre a costituire un materiale di inestimabile valore per la ricerca scientifica. Attualmente la sopravvivenza delle razze locali è legata a diverse motivazioni quali la loro migliore adattabilità a condizioni ambientali difficili, a un più elevato valore di mercato della loro produzione rispetto alle produzioni di tipo industriale, alla migliore qualità dei prodotti.

Da tutto ciò è derivata la sedimentazione di una straordinaria competenza e creatività nella gestione agricola, nell’allevamento, nella produzione di cibo e nella cultura gastronomica: e tutto ciò come risultante di una millenaria consuetudine alla frequentazione ed allo scambio di esperienze e conoscenze alimentari  tra popolazioni diverse insediate in microcosmi territoriali intercomunicanti.

Ne sono la testimonianza più cospicua i circa 5.000 PAT,  Prodotti Agroalimentari Tradizionali,  che rappresentano la concretizzazione – sul piano antropologico-culturale – della biodiversità e della   varietà degli ambienti naturali che compongono l’Italia, un Paese incastonato nel Mediterraneo e caratterizzato da una  struttura orografica straordinaria.

La complessità del contesto territoriale e la dinamicità della presenza umana hanno costituito  i fattori decisivi per l’affermazione della qualità dei prodotti agroalimentari italiani e della loro originalità, ma anche le condizioni che li ha resi impegnativi e “costosi”, in ragione della limitatezza delle risorse primarie disponibili.

E questo apparente paradosso in cui la ricchezza di  capacità produttive deve convivere con la scarsità di materie prime naturali, ha rappresentato e tuttora rappresenta la questione cruciale, la cui soluzione è un passaggio decisivo per lo sviluppo dell’intera filiera, la  crescita economica e l’espansione del made in Italy nel mondo.

E’ a partire da questa consapevolezza storica e strategica che A5T ha lanciato la propria sfida: con il concorso di una molteplicità di competenze professionali e scientifiche e grazie all’apporto di sensibilità e creatività imprenditoriali, di collaborazioni  istituzionali, essa ha realizzato una struttura associativa riconosciuta e  legittimata a rappresentare un progetto di speranza,  rinnovamento  e crescita, ovvero di incremento della redditività delle imprese attraverso la declinazione di una nuova sapienza gestionale.

In questo decennio abbiamo con-vissuto una stagione  caratterizzata da un  alto tasso di cambiamento,  veicolato dalla rivoluzione scientifica e  tecnologica,  da un lato, e dalla trasformazione socio-culturale dall’altro: due vettori che hanno investito sia i modelli organizzativi delle aziende che l’approccio al consumo dei cittadini: e tutto ciò misurandoci con l’aumentata sensibilità etica per la sostenibilità ambientale delle produzioni, che ha trovato la  rappresentazione, in una sintesi esemplare ed in un inedito paradigma interpretativo nell’enciclica papale Laudato si.

I temi e le analisi in essa affrontati la rendono infatti un documento imprescindibile per l’orientamento etico-culturale sull’ambiente di tutti i protagonisti (Ricercatori, Professionisti, Imprenditori) impegnati nell’ambito della filiera agroalimentare:

  • per la descrizione accurata delle cause dell’attuale degrado ambientale e dei nuovi  comportamenti – stili di vita da assumere
  • per il richiamo alla responsabilità personale ed a quella politica
  • per la critica al paradigma tecnocratico ed il conseguente invito a reimpostare un rapporto armonico dell’uomo con la natura

Anche  tale messaggio autorevole ci fa comprendere il  big bang che  ha investito l’intero sistema conoscitivo ed operativo: da un’economia basata sulla produzione di prodotti fisici prevalentemente finalizzata ad obiettivi di quantità, efficienza e produttività, si è passati ad una basata sulla produzione con l’utilizzo di dosi cescenti di  conoscenza ed attenzione al suo impatto sociale ed ambientale.

Contemporaneamente si sono modificati ed ampliati  i confini  del mercato, diventato un’arena nella quale  le opportunità ed i rischi si intrecciano con le scelte, la visione, il coraggio e la capacità di gioco degli imprenditori, sollecitati ad affrontare le sfide ottimizzando non solo le risorse interne alle aziende, ma anche attingendo ai “giacimenti territoriali” ed al sostegno – in molti casi decisivo – delle reti associative e delle partnership privato-pubblico.

I dati strutturali del “SIL” italiano (Sapore Interno Lordo) ci parlano di 250 miliardi di euro di giro complessivo di attività – di cui 50 generati unicamente dall’agricoltura – ,  una realtà imponente, ma con due gap strutturali per affrontare la sfida della competizione globale:

a) da un lato la debolezza patrimoniale, tecnologico-organizzativa e commerciale della maggior parte delle imprese (57.000 unità!)

b) dall’altro la scarsa tutela del “made in Italy” sottoposto ad un’aggressività feroce: basti pensare che negli ultimi 15 anni contraffazioni, falsi ed abusi ai danni del prodotto italiano sono aumentati del 200 %!

Finora è mancata l’azione di  un fronte nazionale unitario  sorretto da un’identità comune che si ergesse  a difesa dei propri prodotti e della propria cultura, in grado cioè di promuovere le condizioni favorevoli allo sviluppo dimensionale dell’intera filiera agroalimentare: passi in avanti e successi importanti non sono mancati, ma hanno visto protagonisti soprattutto lobbies e grandi marchi (come Altagamma) che, oltretutto, sono spesso diventati preda di acquisizioni da parte di Gruppi stranieri in grado di intravvedere – attraverso investimenti mirati – le prospettive internazionali di sviluppo del settore.

La stessa manifestazione di EXPO 2015 a Milano è la testimonianza della vitalità del food system italiano e della sua  affermazione ed attrattività su scala mondiale, ma resta il fatto che ha coinvolto un numero insufficiente di Operatori ed ha lasciato nell’ombra  diverse questioni cruciali  dell’alimentazione  del e nel Pianeta, a partire da quella  – angosciosa – delle strategie efficaci per combattere la  fame persistente per una quota rilevante della popolazione mondiale, nelle quali entra in gioco un delicato equilibrio tra modernizzazione delle tecnologie alimentari adottate per lo sviluppo e salvaguardia ambientale.

Per affrontare e superare le insufficienze e contraddizioni che caratterizzano il dibattito e le azioni per incrementare la credibilità, la forza e la crescita quanti-qualitativa dell’intero sistema agroalimentare nazionale,  Accademia 5 T si ri-propone come soggetto aggregatore e mobilizzante del popolo di Contadini  e  Produttori (Casari, Norcini, Fornai Pastificieri e Pastai, Vignaioli, Maestri distillatori, Commercianti, Albergatori, Ristoratori, , Pastori …. , ma anche Enti pubblici, Agenzie culturali e di Ricerca, Consorzi, Imprese),  che hanno fatto da tempo una scelta di campo, coraggiosa e più faticosa, sia unendosi che simpatizzando, per l’attuazione del programma strategico-culturale ed operativo  delle 5T.

Con esso si è inteso e si intende  promuovere, tutelare e diffondere la cultura dell’eccellenza enogastronomica italiana, supportandola con strumenti ed iniziative che coadiuvino le Imprese nell’impegno di affrontare con coerenza il processo di innovazione che ciò comporta.

Piano strategico-operativo per lo sviluppo di A5T

Gli obiettivi fondamentali su cui l’Accademia intende rilanciare la sua proposta associativa ed il piano di attività ruotano attorno a 9 punti di riflessione e discussione:

  1. Sviluppo sostenibile ed impronta ambientale

Il quadro concettuale e normativo che orienta la strategia imprenditoriale, riguardante le attività produttive, distributive, della ristorazione e dell’accoglienza,  promossa da A5T è ispirato dall’impegno e dall’obiettivo di ridurre le influenze negative esercitate dai fattori che intaccano la biodiversità. Rientrano in questa categoria il controllo delle emissioni di sostanze inquinanti e la tutela della qualità delle acque, ma anche in generale la diminuzione dei consumi e degli sprechi, la ricerca di fonti energetiche “alternative” ed ecologiche, la limitazione nella produzione e nell’uso di materiali sintetici (es. la plastica) che non riescono ad essere smaltiti dall’ambiente (si pensi per es. alla cruciale problematica del packaging, sia sotto il profilo della biodegradabilità che del suo uso incongruo).

Di qui l’adesione alla strategia dell’impronta ambientale, finalizzata in particolare al calcolo della carbon footprint e alla riduzione delle emissioni dei gas ad effetto serra, che hanno assunto una funzione sempre più significativa per il rafforzamento delle azioni previste dalle norme e dalle politiche pubbliche  nell’ambito del Protocollo di Kyoto e dei  “pacchetti clima-energia” adottati  dall’Unione Europea: temi che saranno al centro del prossimo summit di Parigi.

In coerenza con tale impostazione diventa necessario collaborare con le Azioni avviate dal Ministero dell’Ambiente sull’impronta ambientale (carbon footprint e water footprint dei prodotti/servizi) al fine di sperimentare su vasta scala e ottimizzare le differenti metodologie di misurazione delle prestazioni ambientali, tenendo conto delle caratteristiche dei diversi settori economici, al fine di poterle armonizzare e renderle replicabili.

L’iniziativa per sostenere l’adozione di tecnologie a basse emissioni e le migliori pratiche nei processi di produzione e nell’intero ciclo di vita dei prodotti/servizi rappresenta:

  • un driver di competitività per il sistema delle aziende italiane che tiene conto dell’importanza dei requisiti “ecologici” dei prodotti nel mercato interno e internazionale
  • uno stimolo per la revisione dei sistemi di gestione dei cicli di produzione e distribuzione
  • un’opportunità per creare una nuova consapevolezza nel consumatore verso scelte più responsabili e comportamenti virtuosi
  1. Bandiera della trasparenza contro l’opacizzazione delle origini del cibo

Da dicembre 2014 è entrato in vigore in Italia il nuovo Regolamento della Commissione Europea (1169/2011) per un’ etichettatura chiara e precisa:  le informazioni riportate devono essere  facilmente comprensibili per il consumatore ed  a tale scopo vengono indicate anche le dimensioni dei caratteri da utilizzare, le diciture obbligatorie, le indicazioni nutrizionali e quelle relative all’origine che devono essere nello stesso campo visivo della denominazione di vendita.

Si tratta di un cambio di passo fondamentale, anche se non esaustivo e conclusivo, nel rapporto di correttezza e trasparenza tra produttori e consumatori, che determina un processo di maggiore attenzione e “disvelamento”  delle caratteristiche del cibo, la cui leggibilità non sarà solo collegata al rigoroso rispetto della normativa (date di scadenza, tabelle, allergeni, origini, certificazioni etiche ed ambientali, ecc.).

Si rende necessario da parte di A5T e di Agenzie di Ricerca ed informazione (vedi per esempio Il Fatto alimentare: www.ilfattoalimentare.it)   l’attivazione di un flusso costante di  informazioni e  documentazione scientifica necessarie a comprendere i meccanismi, le zone d’ombra, i trucchi della comunicazione e del marketing, che caratterizzano i cicli produttivi degli alimenti.

Bisogna altresì comprendere indiversi piani in cui si collocano questioni come l’etichettatura degli alimenti (materia di esclusiva competenza comunitaria)  e la tutela del made in italy (un tema decisivo, ma differente da quello della sicurezza alimentare) che resta ancora “scoperto” per quanto riguarda, per esempio, per la prescrizione dell’indicazione della sede dello stabilimento sulle etichette dei prodotti italiani.

  1. Partnership e collaborazione con l’Università e  Centri di  ricerca

La passione e la competenza imprenditoriale si misurano  quotidianamente con scelte produttive, tecnologiche, metodologie e risorse (materie prime, agrofarmaci, fitofarmaci, conservanti, ecc.) che comportano livelli crescenti di informazione e conoscenza sempre più presidiati e divulgati da Università ed Agenzie specializzate; con esse A5T intende stabilire un costante confronto per contribuire ad elevare e diffondere gli standard di efficienza, qualità e sicurezza in tutta la filiera agroalimentare, anche  attraverso proprie specifiche iniziative di riflessione, formazione e documentazione.

La qualità delle produzioni è sempre più valutata in rapporto ai benefici che l’assunzione degli alimenti comporta per la salute dei consumatori; si aprono pertanto dei nuovi campi di ricerca ed indagine, come per esempio la Nutraceutica, che impattano fortemente sulle imprese della filiera agroalimentare e ne orientano le opportunità di sviluppo e miglioramento.

  1. Innovazione e competitività

L’implementazione  della strategia delle 5 T e dei conseguenti protocolli operativi determina progressivamente salti di qualità nella ricerca e nell’innovazione che intervengono sull’intero ciclo della produzione, trasformazione, logistica e commercializzazione, struttura dei servizi correlati (logistica, ristorazione, alberghiera, informazione); per affrontare tale esigenza l’Accademia è impegnata a collaborare con i soggetti predisposti e preparati a fornire alle aziende le indicazioni e la consulenza necessari:

  1. Aggiornamento e qualificazione dei Piani di comunicazione

L’esperienza decennale acquisita da A5T cooperando con centinaia di associati ed in molti casi contribuendo al loro successo, conferma che oramai (anche) nel Food vince chi produce innanzitutto qualità, diventata  sinonimo di sostenibilità: in più ricerche è dimostrato che un prodotto sostenibile viene percepito di qualità superiore rispetto ad un prodotto analogo senza questa qualifica.

Ma tale carattere distintivo si deve tradurre nella capacità di costruire e governare il proprio brand,  usato  per dare valore al prodotto attraverso il racconto, conservandone le caratteristiche più intangibili e veicolandole in maniera trasparente e credibile (dallo storytelling ai sistemi multimediali ed interattivi per il coinvolgimento dei consumatori).

Per questa ragione l’impegno prioritario dell’Accademia  è focalizzato nel coadiuvare gli associati per la creazione del  valore aggiunto attraverso la elaborazione di  Piani di comunicazione in grado di trasmettere al mercato i valori profondi e caratteristici delle imprese.

  1. Rivoluzione digitale e “seconda vita” dell’intera filiera agro-alimentare, enogastronomica e cultural-turistica

Dal QR Code per la tracciabilità ai nuovi sistemi di acquisto (e-commerce) e prenotazione,  dall’Internet of Things, alle nuove forme di pagamento (NFC), è in atto una trasformazione epocale  nel rapporto tra produttori e consumatori.

Ma il fatto più rilevante è che tutto ciò sta diventando  accessibile, per i costi limitati, anche alle piccole imprese. Per esse l’adozione delle nuove tecnologie diventa un fattore decisivo di competitività ed attrazione per quote di nuovi clienti, in particolare appartenenti alla fascia giovanili.

  1. Consumerismo responsabile

All’interno dello scenario  del cambiamento delineato c’è un attore il cui  comportamento è determinante per orientare in senso positivo sia le novità normative che scientifiche e tecnologiche: il consumatore consapevole, per il quale la qualità del cibo è prepotentemente entrata al centro, sia per quanto attiene la sua accessibilità e “rintracciabilità”  che per il rilievo crescente che ha assunto nella vita delle persone:

a) perché l’alimentazione ha un ruolo determinante  per la salute

b) inoltre costituisce un importante indicatore del modello di relazioni sociali adottato e di “quel gusto pieno della vita” che ha a che fare con la moderna concezione  del benessere e la cultura della convivialità, nei suoi molteplici modi di praticarla: il cibo identitario divenuto cioè luogo mentale,  uno spazio condiviso che affievolisce la solitudine e contrasta la tendenza alla cosiddetta “società liquida”.

Si tratta di una fenomenologia  che sta emergendo a tutte le latitudini della terra e rappresenta un ingrediente importante nel processo di globalizzazione degli scambi commerciali e culturali: e ciò determina da un lato  una spinta all’uniformità dei consumi e la tendenza alla cosiddetta fusion, (una sorta di modernizzazione alimentare definita “creolizzazione” da Fischler) ma dall’altro incentiva  ricchi percorsi di innovazione produttiva.

Essa è sospinta dall’adozione di tecnologie, creatività e si esprime nell’esaltazione delle specifiche vocazioni e delle diversità culinarie strettamente collegate alle filiere corte, espressioni delle economie locali in cui prende nuovo vigore il rapporto tra la cultura territoriale e la tipicità-genuinità delle produzioni che ne costituiscono un’espressione concreta e vitale.

Si può affermare, senza enfasi e con realismo, che in tutto il mondo la ricerca del buon cibo e l’investimento sulla buona cucina fungono  da agenti sociali di cambiamento, che si manifesta anche attraverso nuove dinamiche del mercato ed una esigente curiosità dei consumatori alla quale deve corripondere  un alto livello di qualità dell’informazione offerta; vedi in particolare:

  • I documenti e l’orientamento dell’OMS per l’Educazione alla salute
  •  I documenti FAO per la lotta alla fame ed  allo spreco alimentare
  • www.altroconsumo.it
  1. Europa

Lo sguardo alla dimensione europea,  l’interazione con tutti i soggetti sociali ed economici che vi operano, la partecipazione ai progetti finanziati dall’Unione Europea, l’attenzione e la conoscenza delle innovazioni regolamentari della stessa: sono tutte azioni  diventate  essenziali  per orientare la gestione delle imprese dell’intera filiera agroalimentare che deve monitorare costantemente le risorse, i vincoli e le opportunità con i quali fare i conti per ottenere il riconoscimento e la tutela dell’eccellenza produttiva italiana.

A5T quindi intende proporsi come finestra aperta sul continente per  dare ai soci un costante aggiornamento su legislazione e processi socio-culturali ed economici che rappresentano il contesto operativo ineludibile per le imprese.

  1. Attività di Formazione ed Editoriale – Eventi

I contenuti dell’analisi, le novità e gli impegni illustrati, costituiscono un contesto che mette alla prova ed esalta le intuizioni originarie e le esperienze finora realizzate da A5T; si apre pertanto una stagione nella quale la struttura associativa è sollecitata ad un salto di qualità sul piano organizzativo-gestionale che sarà reso possibile dal coinvolgimento e co-responsabilizzazione di molti imprenditori, professionisti, ricercatori ed operatori culturali che stanno già praticando le sfide del rinnovamento.

La piattaforma da cui partire è costituita dai crediti, strumenti, relazioni sedimentati con un intenso lavoro di formazione, editoriale,  di eventi ed iniziative che debbono diventare il Sistema A5T:

 

Scuola d’Intaglio e creatività in Val di Rabbi

Tempo di lettura: 3 minuti

valrabbi_def4_Pagina_01L’ispirazione e l’opera di Giacomo Valorz per la Scuola  d’intaglio e creatività” è una pubblicazione in circolazione da qualche mese;  con tale iniziativa editoriale mi sono proposto non  solo di  divulgare l’attività di un giovane e valente  scultore locale, peraltro  conosciuto ed apprezzato anche al di fuori del territorio trentino, ma anche di dare un contributo per valorizzare, rafforzare  e promuovere il brand di Val di Rabbi, in sintonia e coerenza con la progettualità della “Slow Valley” che mira  a migliorare e qualificare i programmi di turismo sostenibile

La Scuola  si rivolge a tutti coloro che sono interessati ad avvicinarsi alla magia dell’intaglio, ma anche a coltivare e sperimentare i percorsi arricchenti  professionalizzanti della creatività,   del rapporto tra manualità artigianale ed innovazione tecnologica.

L’arte dell’intaglio del legno è una forma d’artigianato che si tramanda da generazioni ed un tempo le famiglie in grado di padroneggiare quest’arte godevano di grande fama e successo.

È difficile classificare chiaramente la professione degli scultori del legno come artigianato, artigianato artistico o arte, per quanto sono labili i confini tra le varie discipline. Gli scultori del legno progettano

pezzi unici e serie limitate. Realizzano abbozzi, disegni, studi e modelli. Il lavoro è alquanto variegato. Risulta comunque evidente che intagliare il legno è una passione, il talento di animare e dar forma ad un pezzo di legno costituisce un’autentica forma d’espressione artistica.

Tuttavia la conoscenza delle qualità dei vari tipi di legno e l’abilità nel trattarli correttamente sono expertise peculiari. Dall’osservazione del contesto sociale ed economico attuale, emerge come numerosi giovani, anche nelle valli, preferiscano i percorsi scolastici universitari, disdegnando il lavoro manuale e le scuole professionali; considerano l’artigianato come un’attività di basso profilo, mentre si tratta spesso di un mestiere creativo, ad alta professionalizzazione, portatore di eccellenze (pensiamo al “made in Italy”, prodotto in piccole imprese artigiane di grande successo).
Il progetto “Scuola d’Intaglio e Creatività” nasce da queste considerazioni: esso si propone di stimolare la conoscenza di un’arte che si fa mestiere, antico e allo stesso tempo moderno, che dà valore al lavoro manuale quale espressione d’un pensiero che si oggettivizza attraverso il legno e la sua natura. Si tratta di una sfida importante: avvicinare giovani e meno giovani alla “scoperta” dell’arte e della creatività, recuperando conoscenze antiche e contemporanee.

Questa Scuola vuole dare vita ad un Gruppo di lavoro per arricchire il paesaggio e l’architettura ambientale tramite progetti e idee, per valorizzare la valle ed avvicinare le persone che vengono a visitarla, desiderosi di sentirsi a pieno titolo “cittadino temporaneo” del luogo che sta visitando, di accedere agli angoli di più intima familiarità che appartengono alla sfera culturale di ogni comunità.

L’abbondanza del legno era una delle poche ricchezze che in passato offriva e che tuttora offre il territorio: venduto alle segherie o destinato alla produzione di carbone, oltre che utilizzato come materiale da costruzione e come legna da ardere, il legno si è affermato, grazie alla sua eccezionale duttilità, come uno dei materiali privilegiati per l’intaglio e la lavorazione a fini pratici.

Il progetto si prefigge quindi di promuovere il recupero, la valorizzazione e la trasmissione delle attività

tradizionali legate alla lavorazione del legno, dell’intaglio, della scultura e della creatività in genere, mediante l’organizzazione di corsi finalizzati al recupero del patrimonio conoscitivo ed alla creazione di opere, progetti e lavori destinati ad “ornare” il territorio.

L’arte della lavorazione del legno ha lasciato un grande impronta e segni visibili nel tempo; l’obiettivo  della Scuola è valorizzare questa tradizione, con l’ambizione che possa essere l’input per la creazione di nuove attività economiche: l’auspicio è quello che essa possa generare un impulso all’economia locale, a nuovi stili di vita e di relazioni collaborative nella comunità di Valle.

Tale iniziativa rappresenta un contributo per arricchire la strategia della Slow Valley di un tassello importante: la cultura del legno per lo sviluppo sostenibile e risorsa per alimentare la professionalità e l’imprenditorialità che in Val di Rabbi può contare su una solida presenza, che ha bisogno però di essere rinnovata ed aggiornata, seguendo in tal senso l’esempio altoatesino, che rappresenta un punto di riferimento sotto molteplici aspetti: il coinvolgimento di artisti ed artigiani, il sostegno di Associazioni ed Enti locali, il rilievo per il marketing territoriale, l’investimento in termini di comunicazione sociale.

Certo la progettualità in Val di Rabbi è ancora in una fase sperimentale, ma questa pubblicazione vuole rappresentare il segnale ed uno strumento per farla decollare e farla riconoscere, innanzitutto da parte delle Istituzioni, Enti , Associazioni locali ed operatori turistici che vivono e testimoniano il loro protagonismo come contributo per la crescita culturale e lo sviluppo sostenibile dell’intera comunità.

La via italiana alla rigenerazione. REbuild sbarca a Milano con un Think Tank

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Appuntamento per il 6 ottobre con il mondo delle costruzioni, dell’immobiliare, della finanza con Pa, progettisti e aziende

di   Paola Pierotti | pubblicato il 24 settembre 2015

 

Il mondo delle costruzioni, dell’immobiliare, della finanza, delle banche, rappresentanti delle Pa, progettisti, aziende si danno appuntamento a Milano per un Think Tank promosso da REbuild.

 

Dopo l’ultima edizione dell’iniziativa promossa da Habitech e Fiera Riva Congressi tenutasi a Riva del Garda a giugno 2015, il prossimo 6 ottobre a Milano gli operatori del settore sono invitati in un seminario ristretto ad inviti per intraprendere un percorso che unisca innovazione nel settore delle costruzioni e sviluppo della filiera energetica, con prospettive di estremo interesse per l’economia del nostro Paese.

 

Le esperienze virtuose di Olanda e Germania hanno messo in evidenza come la riqualificazione energetica del patrimonio immobiliare – se intrapresa con concretezza e determinazione – possa restituire risultati economici significativi non solo nel medio-lungo periodo, ma anche in un orizzonte di breve periodo.

 

“Ciò può avvenire – spiegano Thomas Miorin ideatore di REbuild e direttore di Habitech, e Ezio Micelli presidente del comitato scientifico di REbuild – a patto di lavorare con determinazione sul fronte dell’innovazione di sistema, modificando le tradizionali regole di business, ripensando alla radice il progetto e l’esecuzione degli interventi di riqualificazione con l’obiettivo di promuovere livelli di qualità ed efficienza in grado di rispondere alla reale domanda del mercato”.

 

Ma come si fa a tradurre in realtà, nel contesto italiano, le buone pratiche internazionali? Sono pronte le imprese ad accettare la sfida del cosiddetto digital manifacturing, serializzando in modo flessibile i prodotti e gli interventi sugli immobili esistenti? La Pubblica Amministrazione è pronta ad attivare il dialogo competitivo per promuovere innovazione ed efficienza?

 

La rigenerazione delle città, lo sviluppo di nuove residenze, gli interventi sul patrimonio pubblico degradato o inutilizzato non richiedono prodotto a catalogo. Il privato oggi gioca un ruolo fondamentale e al pubblico deve restare il ruolo di regia, mettendo a sistema con investimenti unitari e organici i singoli tasselli. Questioni attuali e urgenti che REbuild vuole approfondire concretamente, dialogando in modo operativo con i protagonisti del settore.

 

http://www.ppan.it/stories/la-via-italiana-della-rigenerazione-rebuild-sbarca-a-milano-e-organizza-un-think-tank/