L’Italia e gli obiettivi sostenibili

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Nasce Asvis, allenza fra 80 associazioni per realizzare l’Agenda 2030

Il Sole 24 Ore 23 marzo

ASVISCi sono voluti anni, ma finalmente l’Agenda Globale per portare il mondo sul sentiero dello sviluppo sostenibile può dirsi completa. Dopo l’approvazione, nel settembre 2015, da parte dell’Assemblea generale dell’Onu dei 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile (Sustainable Development Goals – SDGs) e dei 169 sotto-obiettivi di carattere economico, sociale, ambientale e istituzionale che tutti i paesi del mondo si sono impegnati a raggiungere entro il 2030, la settimana scorsa la Commissione statistica dell’Onu ha approvato i 240 indicatori attraverso cui monitorare, anno dopo anno, il cammino verso la sostenibilità.

A questo punto, la parola passa a ciascuno dei governi che hanno elaborato e sottoscritto l’Agenda 2030, ai quali spetta ora il disegno di strategie nazionali per mettere il proprio paese in grado di svilupparsi in modo sostenibile non solo dal punto di vista ambientale, ma anche economico e sociale.

Una delle caratteristiche fondamentali dell’Agenda 2030 è l’interconnessione tra i 17 obiettivi prescelti, la quale richiede una forte integrazione delle politiche settoriali: riduzione della povertà, educazione di qualità per tutti, lotta alle disuguaglianze di genere, occupazione di qualità e stili di consumo sostenibile, miglioramento delle condizioni ambientali e qualità della vita nelle città, istituzioni pubbliche efficienti e innovazione tecnologica e sociale, sono tutte dimensioni che vanno tenute presente simultaneamente, superando la tipica politica dei “due tempi”: prima crescita economica a costo di distruzione dell’ambiente e di ingiustizie sociali e poi, non si sa quando, riparazione dei danni.

A differenza dei Millennium Development Goals, questa volta l’impegno riguarda tutti i paesi, anche chi, come l’Italia, fa parte del mondo più ricco e ha, come ha ricordato Papa Francesco, un debito ecologico nei confronti dei paesi in via di sviluppo.

L’Agenda 2030 impegna l’Italia a trovare una via allo sviluppo che preservi, anzi che ricostituisca, il capitale sociale, umano, ambientale ed economico intaccato dalla crisi di questi anni. Proprio per questo, l’attuazione dei 17 obiettivi non può essere lasciata solo ai governi, in quanto senza un impegno comune delle imprese e della società civile sarà impossibile farcela.

È per questo che è nata l’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS), che già riunisce ottanta organizzazioni (tra sindacati e associazioni imprenditoriali, fondazioni e associazioni del Terzo Settore, reti di volontariato e della società civile) ed è stata presentata alla Camera dei Deputati venerdì 11 marzo (www.asvis.it).

È la prima volta che in Italia si realizza una tale unità di intenti e di questa responsabilità l’Alleanza è ben consapevole. Le attività dell’ASviS sono numerose e articolate, e vanno dall’impegno per l’educazione allo sviluppo sostenibile alle proposte per approcci integrati alle politiche nazionali e territoriali, dall’advocacy al monitoraggio attento del percorso dell’Italia e dei suoi territori per raggiungere gli obiettivi sottoscritti.

In questo processo i dati statistici giocano un ruolo fondamentale. La lista approvata dall’Onu comprende indicatori per i quali esistono già metodologie di calcolo consolidate e i relativi dati (35% del totale), indicatori i cui dettagli metodologici sono disponibili ma per i quali esistono pochi dati (15%) e indicatori per il cui calcolo bisogna ancora definire una metodologia adeguata (10%).

A tale proposito, va rilevato che non basterà fornire indicatori riferiti alle medie nazionali, ma, secondo il principio “nessuno venga lasciato indietro” posto alla base dell’Agenda 2030, molti andranno disaggregati sul piano territoriale, per genere e con riferimento ai diversi gruppi socio-economici.

Per questo l’Alleanza chiederà all’Istat di procedere con la massima rapidità a rendere facilmente fruibili i dati esistenti e di impegnarsi a produrre quelli mancanti, così da consentire all’opinione pubblica italiana di valutare la posizione del Paese e dei suoi territori rispetto agli Obiettivi. È un impegno non banale ed è auspicabile che il Governo renda disponibili adeguate risorse per conseguire, intanto, questo obiettivo.

Enrico Giovannini*

 

*Portavoce dell’Alleanza Italiana

per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS)

Dispute sull’Ulivo: vi prego, il gioco dell’oca no!

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Urge terapia di sostegno per i malpancisti del PD

(appunti per la Direzione del 21 marzo)

MalpancistaParafrasando e attualizzando la vecchia battuta renziana (“per vedere un sorriso in un esponente del centrosinistra, bisogna ricorrere al photoshop”) si può dire oggi, che per suscitare una lacrima di ottimismo nei rappresentanti della corrente piddina che si autodefiniscono minoranza, bisogna ricorrrere al counseilling…

Nell’ultimo biennio, nella variegata platea della sinistra italiana, si è diffuso il virus del “malessere” che ha –nella maggior parte dei casi – una origine in quella leggera infelicità (già vaticinata da Epicuro) che colpisce soprattutto gli uomini politici affetti da una dipendenza da gioco compulsivo, quella peculiare che si contrae dedicandosi in modo prolungato al tatticismo esasperato che dà il senso di contare e lasciare tracce indelebili nella storia del Paese e che, nel momento della perdita di centralità (nel gioco politico), crea un vuoto incolmabile.

Sarebbe auspicabile quindi che il Partito, accanto alla Scuola di Formazione per i Giovani Quadri, promuovesse anche i Corsi di recupero per i Dirigenti esodati.

Partendo con l’organizzazione dei gruppi di auto aiuto rivolti prioritariamente ai fondatori del PD che si sono “allontanati” dal Partito: circa la metà dei 45 che nel 1997 ebbero il merito di chiudere la tormentata vicenda del fascinoso progetto dell’Ulivo ed imprimere un’accelerazione alla ridefinizione programmatica ed identitaria del centrosinistra senza trattino; molti di loro oggi vagano per club, clan, interviste ai giornali, animati da risentimento, rivendicazioni e propositi di rivalsa proprio nel momento in cui dovrebbero aiutare la ancor giovane creatura ad irrobustirsi.

Per molti di loro si tratta di una sorta di malattia professionale, probabilmente con effetti che incidono pesantemente sulla personalità, ma di cui – ne sono certo – si può guarire, come mi è capitato di riscontrare – con esperienze professionali dirette – per fumatori, alcolisti, tossicodipendenti, gambler…

Con i professionisti della politica bisogna sicuramente ricorrere ad una metodologia specifica: non è sufficiente operare con la leva dell’amicizia e/o l’uso dei confronti ravvicinati: le convinzioni ed i pre-giudizi che si sono sedimentati nel corso di una carriera politica (e molti dei fondatori del PD vantano curriculum quarantennali ed hanno esercitato poteri e ruoli prestigiosi) sono difficilissimi da mettere in discussione!

Ho seguito in questi giorni la vicenda peculiare di D’Alema (che, essendo mio stimato coetaneo, seguo sin dai suoi esordi negli anni ’70): non sono sono riusciti a scalfirne l’atteggiamento astiosamente critico sulla gestione del PD, né la lettera aperta del suo amico ed ex collaboratore, ai tempi della Presidenza del Consiglio, Fabrizio Rondolino, che ha amichevolmente cercato di convincerlo che Renzi sta seguendo la rotta blairiana da lui tracciata (già allora ostacolata – do you remember il paracarro Cofferati? -); né la sottile analisi politiologica di un ex comunista (vero come lui), Giuliano Ferrara, che dalle pagine del Foglio ha tentato di “spiegare facile” a D’Alema il ruolo dinamico e rappresentativo di Renzi nell’asfittica sinistra europea.

http://www.ilfoglio.it/politica/2016/03/12/renzi-spiegato-facile-a-dalema___1-v-139347-rubriche_c852.htm

La stessa difficoltà incontrerebbe chi tentasse di convincere Prodi che il mancato affidamento dell’incarico di inviato ONU in Libia non sia stato – oltre che uno sgarba irreparabile – un errore clamoroso!

L’elenco delle vedove inconsolabili è molto lungo ed il suo aggiornamento quotidiano è affidato alle mani sicure di Enrico Letta, il quale a Parigi si trova nelle condizioni ideale (da “osservatore” europeo) per fare il censore un po’ patetico e redigere la pagella con i voti al Governo: impagabile e commovente, nelle settimane scorse, il suo twet fortemente critico sulla “disattenzione” per il caso Regeni e, ieri, nell’intervista di ieri al Corriere della sera, l’appello “ad assumere l’onere della inclusione e non l’onere del cacciare un pezzo di Pd” (ma chi caccia chi!?).

http://www.corriere.it/politica/16_marzo_19/pd-rischia-crisi-insanabile-letta-renzi-non-caccia-9f7d7ceced4f- 11e5-a691-1e1091159f0c.shtml

Insomma, è davvero difficile reimpaginare la narrazione ed impostare il confronto interno di un Partito Democratico a guida renziana nel quale è intervenuto un cambiamento profondo dei paradigmi interpretativi-valutativi con cui affrontare:

  • la realtà politica interna (Patto del Nazareno come filosofia della conciliazione nazionale per evitare la deriva populista a trazione grillina)
  • rapporti parlamentari orientati al rispetto di tutti i protagonisti
  • le partnership competitive in Europa e assunzione della guida PSE per la crescita
  • la piena autonomia in Politica estera (leggi Libia, Russia, Africa…), anche per non subire le spinte rovinose di Francia e UK nelle crisi del Nordafrica
  • lo sviluppo attraverso il processo di liberalizzazione ed innovazione della PA, mettendo in discussione l’estesa rete delle rendite create dai partiti ed in molti casi difese dai benecomunisti in malafede
  • maggiore attenzione al Sociale (vedi Piano Povertà) e sollecitazione delle rappresentanze sociali ad assumersi la responsabilità di collaborare per l’incremento della produttività, fattore decisivo per la crescita e l’aumento dell’occupazione, senza indulgere alle posizioni conservatrici e corporaitive di soggetti sindacali impegnati a difendere la propria autoreferenzialità
  • un programma riformista (ovvero concreto e praticabile) per le Riforme istituzionali
  • un rapporto con la Magistratura che superi la stagione della subalternità culturale nei confronti del Giustizialismo

Ma soprattutto è ancor più gravoso spiegare ai professionisti del malpancismo che la sfida di questa stagione politica è mantenere la barra della governabilità, messa a rischio quotidianamente non solo dalla debolezza numerica al Senato, ma per il convergere delle spinte massimalistiche e demagogiche di attori diversi (M5S, Lega, SEL) e del disorientamento determinato dalla frammentazione di Forza Italia.

In un simile contesto diventano stucchevoli gli atteggiamenti, i comportamenti, le provocazioni che, mirando a minacciare ed indebolire la leadership nel Partito (e di conseguenza nel Governo) ottengono solo il risultato di cortocircuitare la fragile identità di un’Organizzazione politica che rappresenta una stratificazione di culture e storie che sarebbero state destinate all’irrilevanza e/o ad implodere senza la sterzata imposta dalla guida renziana.

I protagonosti della guerriciola interna sottovalutano le contraddizioni, le tensioni ed i paradossi che la vecchia nomenclatura dell’Ulivo si è portata appresso dentro il PD; la generazione che ne ha preso la guida, si è assunto anche il gravoso compito di evitare i “calci in culo” (storicamente parlando) che l’orda barbarica guidata dal Comico genovese era pronta a sferrarle.

Certi ammiccamenti che tuttora si intravvedono nei confronti dei Casaleggio boys, rappresentano la testimonianza clamorosa della vocazione suicida di alcuni sinistrati che, incapaci di condividere la fatica delle sfide della governbilità che stanno loro di fronte, preferiscono “trivellarla” inventandosi polemiche ed iniziative che esorbitano dai limiti e dai vincoli dell’Agenda politica risultante dal mandato e dai rapporti di forza scaturiti dalle elezioni del 2013.

Gli esempi che si possono addurre sono numerosi e si ripetono quotidianamente: ne sono protagonisti – in Parlamento, in alcune Regioni – Rappresentanti del Partito Democratico che si muovono guardando lo specchiettto retrovisore, ovvero pensando alle occasioni di “rivincita”, piuttosto che allo scenario magmatico di un quadro politico che richiede uno straordinario impegno riformista su tutti i terreni che l’azione di Governo ha avuto il merito di arare, ma sui quali la semina è compito e responsabilità di tutti i protagonisti e protagonismi.

Certo una tale consapevolezza deve essere alimentata e promossa attraverso la rigenerazione degli Organismi del Partito, che possono consentire la partecipazione ed il coinvolgimento di tutti i soggetti portatori di condivisione, nuova conoscenza e nuove sensibilità necessarie per rendere credibili e dare attuazione ai programmi di rinnovamento del Paese.

Ci auguriamo quindi che nella Direzione di domani si focalizzino non solo i contenuti della strategia politica in discussione ma anche i percorsi organizzativi che consentano di sottrarre la dialettica interna alla retorica di vecchie e nuove conventicole ancorate alla pigra conservazione di se stesse ed incanalarla invece nell’alveo di una discussione aperta, vivace ed inclusiva.

Tale scelta si rivelerà sicuramente una terapia efficace anche per superare il malpancismo.

 

Datemi una ruspa e vi sFascio tutto: che ci azzecca il Gabibbo lepenista con la Lega?

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Salvini Le PenCircola l’interrogativo, tra molti osservatori del mondo leghista, in particolare nel Veneto, sul futuro politico di Matteo Salvini.

Qui da noi il Presidente Zaia, anche sulla spinta di una legittimazione e credito personali, sta cercando una traiettoria politica che – a partire dall’omaggio scontato alla strategia dell’Autonomia regionale rafforzata – punta ad introdurre nella governance regionale elementi di riformismo ed innovazione.

Si può ritenere che, sia pure in modo sottotraccia e doroteo, si stia avviando un processo di de-Salvinizzazione…

Per il Veneto sarebbe sicuramente salutare, anche per il futuro di una Lega che non voglia imbarcarsi nell’avventura lepenista-nazionalista e scelga invece di rappresentare e tutelare gli interessi e le ragioni di un rinnovato Progetto federalista.

Non ho titoli per esortare il Gruppo dirigente leghista a liberarsi dell’invadente Gabibbo nero-verde e la mia ipotesi non è dettata da un pregiudizio politico.

Non nego che il “personaggio”, che con destrezza si è   impossessato della Lega (in crisi di identità e squassata dalla questione morale) guadagnandosi sul campo i galloni di leader in grado di farla risalire nelle quotazioni della Borsa elettorale, con il suo linguaggio rozzo e scurrile, mi ha suscitato sin dal suo apparire irritazione e ribbrezzo.

Non nego altresì che i giudizi malevoli espressi su di lui da Berlusconi dopo lo “scherzetto” subito in questi giorni (“è solo una comparsa Mediaset”, “non sarebbe in grado di gestire un’edicola”) non mi lasciano indifferente e fotografano il livello di ostilità che lo aspetta al varco nel campo del centrodestra.

Aggiungo poi che lo considero vittima, oltre che di sé stesso, per la propensione tutta milanese a fare el bauscia (un vocabolo dialettale, attestato in area lombarda, che segnala una persona che si dà delle arie, uno sbruffone), soprattutto del giornalismo cialtrone.

Mi riferisco a quello messo in scena   da talk show nei quali conduttori cretinetti sono alla disperata ricerca di audience ed impegnati perversamente ad adescare nuovi protagonisti in cerca di visibilità e disponbili ad essere brutalmente sfruttati, strasbattuti sugli schermi mentre ne viene attizzata la vanità e diventano strumenti per creare bolle mediatiche.

Ma tutto ciò premesso, esistono seri motivi che me lo fa ritenere una vera minaccia per gli interessi dei veneti e della comunità regionale nel suo insieme: ne indico alcuni dei più rilevanti, lasciando sullo sfondo gli argomenti al centro delle polemiche sulle candidature per le elezioni amministrative.

Parto dalle affermazioni, come al solito tracotanti, più recenti (che mi hanno fatto andare il sangue agli occhi): il Salvini, in occasione dell’incontro a Roma per presentare Marion Le Pen e darsi un profilo europeo, ha detto di voler “abolire il Jobs Act e le politiche del lavoro tedesche”: andate a controllare, si è espresso proprio così!?

Ora, se vogliamo essere seri, potete immaginare un qualsiasi imprenditore veneto che non avrebbe sbarrato gli occhi e poi spernacchiato il “fiero avversario nostrano della Merkel” all’udire quelle parole?

Affrontare con spregiudicatezza i temi cruciali dell’agenda europea è diventata l’ossessione del nostro prode guerriero: la campagna ANTIEURO passerà sicuramente alla storia come una cavalcata donchisciottesca surreale (resa ancor più paradossale dalla partecipazione di quello straordinario esperto (Claudio Borghi Aquilini) , autentico competitor del Governatore Mario Draghi ostinato, poverino, ad inondare la fiacca economia europea con quella assurda moneta che è l’euro, con il quantitative easing….

Ma il meglio di sé l’aspirante leader l’ha dato nella sua funzione di inviato speciale della versione trash di “Striscia la notizia”: si trattasse di un campo Rom o di un Ostello per rifugiati, ci fosse stata una sparatoria con sangue versato in un episodo di cruento, abbiamo dovuto assistere alla “politica situazionista”, ovvero agli interventi sui luoghi del conflitto sociale, per operare una volgare manipolazione ideologica di fatti che avrebbero dovuto e dovrebbero essere occasione per innescare processi di riflessività, consapevolezza critica e progettualità condivisa, non divisiva ed esclusivamente finalizzata alla propaganda.

A proposito di propaganda, però, va anche ricordato che Matteo Salvini ha cercato negli ultimi tempi di mettere in campo delle proposte che avrebberro potuto (e potrebbero tuttora) trasformare l’attuale situazione di sofferenza sociale ed economico-finanziaria del Paese in un meraviglioso mondo dei balocchi: nel Truman show da lui immaginato el illustrato da alcuni suoi “tecnici” creduloni, la legge Fornero dovrebbe essere abolita ed il regime fiscale riformato con la FLAT TAX al 15 %.

Si tratterebbe di due provvedimenti che, se anche adottati separatamente, ci porterebbero immediatamente al DEFAULT ed al Commissariamento da parte della Troika!

Ora la domanda è: cosa c’entra il Veneto con le provocazioni ed esasperazioni politiche di un aspirante leader nazionale che con il suo linguaggio ed i suoi atteggiamenti, offende la sensibilità e l’intelligenza della maggioranza di una popolazione temprata ed orientata al realismo, al pragmatismo, alla tolleranza, all’ordine e giustizia, a guardare con invidia ed ammirazione il modello socio-economico tedesco, a ritenere che l’Europa costituisce l’ambiente (inteso come luogo sociale ed istituzionale) naturale in cui competere e farsi rispettare?

Sicuramente la legittimità e la convenienza politico-elettorale a promuovere una strategia lepenista in Italia saranno i militanti e la dirigenza leghista a valutarlo.

In ogni caso dai cittadini veneti e dal variegato mondo delle associazioni e rappresentanze politiche che trovano ragioni profonde e stimoli per la loro testimonianza nella subcultura e nella tutela degli interessi regionali, è altrettanto legittimo attendersi una risposta all’interrogativo proposto in questo intervento.

Su un piano diverso e, se vogliamo, pre-politico, confidiamo che l’Agenzia di comunicazione – verosimilmente milanese – che “cura l’immagine” e pianifica la produzione di chiacchiere-distintivi-felpe, abbandoni il format del Gabibbo destrorso e crei un plot narrativo più rispettoso del pubblico e del comune senso del pudore.

 

Euro-Esm-Bond per scongiurare il rischio di stagnazione

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EurobondAlberto Quadrio Curzio COMMENTI E INCHIESTE   13 Marzo 2016   Il Sole 24 Ore

Il presidente della Bce Mario Draghi ha fatto un ulteriore passo in quella che un numero crescente di osservatori chiama “terra incognita”. Si tratta dell’accentuazione dei tassi di interesse negativi sui depositi presso la Bce a cui si aggiungono ora anche ulteriori prestiti alle banche pagando alle stesse un premio nella misura in cui faranno credito all’economia. Cresce anche il volume di acquisti di titoli di Stato e si vara l’acquisto di obbligazioni di buona qualità emesse da società non bancarie della eurozona. Riflettiamo su queste decisioni collocandole nel contesto di come evitare il passaggio dalla deflazione in atto ad una possibile stagnazione secolare. È un rischio paventato anche dal vicepresidente della Bce, Victor Costancio, che in una difesa delle scelte della Bce, riconosce come in tali condizioni la politica monetaria da sola non può spingere la crescita tendenziale ma poi conclude che allo stato presente in Europa solo la politica monetaria può normalizzare l’inflazione. È una visione rassegnata che non ci convince e che non collima con le raccomandazioni dell’Fmi e dell’Ocse all’Europa e con quanto dovrebbero fare “politicamente” i governi della eurozona.

Bce e Germania. Il solo modo per contrastare oggi nella Uem una deflazione-stagnazione è infatti spingere gli investimenti pubblici in euro-infrastrutture (ecocompatibili) materiali e immateriali. E quindi l’economia reale (tutta) e il lavoro che sono il fondamento di uno sviluppo durevole e inclusivo. Il problema è sempre quello del loro finanziamento perché gli “Junckerbond” sono virtuali mentre ci vorrebbero degli Euro-Esm-bond reali.

Forse questa ipotesi potrebbe adesso risultare meno sgradita alla Germania molto critica verso politiche monetarie così eterodosse. Sarebbe interessante sapere che ne pensa anche la Bce che diverrebbe un attore del successo di bond europei acquistandoli quando fossero emessi.

In ogni caso non possiamo sottovalutare le reazioni politiche e sociali tedesche alle ultime decisioni di Draghi che forse potevano essere ammorbidite da una consultazione strategica a livelli apicali della Eurozona (Commissione, Consiglio, Bce, Eurogruppo). I “puristi” risponderanno che la Bce fa meglio a “sorprendere i mercati”, a non esprimersi sugli Euro-Esm-Bond, a non fare consultazioni per non sconfinare in politica. Sarebbe una risposta non convincente sia perché Draghi ha firmato il “documento dei 5 presidenti” sia perché da tempo fa tutta la euro-politica economica. Certo, non per colpa ma per necessità.

Quanto a Victor Costancio, il giorno dopo le decisioni della Bce ha detto «corretta ma banale» l’affermazione che la politica monetaria non può oggi da sola aumentare in Europa la crescita tendenziale ma che non ci sono altre possibili politiche. Non è del tutto così. Infatti Costancio dice che le restrizioni di legge nella Ue (perché sono immutabili?!) non consentono a Stati inclini a politiche di bilancio espansive di farle, mentre Stati (leggi Germania) che hanno surplus di bilancio non le vogliono fare! Quanto alle riforme strutturali, Costancio le liquida in breve perché sono di lenta attuazione e perché in carenza di domanda i guadagni di produttività e di competitività non potrebbero «stimolare la crescita in misura significativa nell’arco dei prossimi due anni». In tali condizioni, perché Costancio nulla dice sulla necessità di una politica di euro-investimenti e di rilancio della domanda, aspetto sul quale l’Europa ha già avuto tante critiche dall’Fmi e dall’Ocse?

Bce e G-20. Fmi e Ocse sono infatti consapevoli del rischio che dalla bassa crescita, anche europea, si passi adesso alla stagnazione globale. Lawrence Summers (il cui punto di vista, è stato spesso richiamato, anche di recente, da questo quotidiano) lo dice da anni mettendo in guardia da politiche monetarie espansive e competitive dal punto di vista valutario che spostano la domanda da un’area all’altra ma non la fanno aumentare globalmente. Nel breve termine, egli dice, i quantitative easing hanno evitato guai peggiori ma nel medio termine hanno effetti decrescenti, creano rischi di bolle speculative e di instabilità con conseguenze gravi sia occupazionali sia politico-sociali. Noi concordiamo con lui.

È dunque evidente che bisogna passare a politiche fiscali cooperative ed espansive per spingere la crescita. E questo significa anche più investimenti in infrastrutture come emerge dai G-20 e come si è visto nel recente summit a Shanghai dei ministri delle Finanze e dei presidente delle Banche centrali (di cui abbiamo detto nel nostro articolo del 5 marzo).

Già del novembre 2014 al G-20 in Australia si è deciso di supportare anche una “Global Infrastructure initiative” per spingere gli investimenti pubblici e privati in infrastrutture, per facilitare gli standard qualitativi, per aumentare la opportunità di investimenti nei Paesi del G-20 e del non-G-20. Si è anche deciso di supportare un connesso “Global infrastructure Hub” come braccio operativo per colmare secondo un modello cooperativo, progettuale e di standardizzazione, le necessità di infrastrutture stimante in almeno 20mila miliardi di dollari entro il 2030. Nel novembre del 2015 al G-20 in Turchia, oltre a riconfermare il deciso, si è enfatizzata l’importanza degli strumenti finanziari per le infrastrutture.

Strano è il silenzio su tutto ciò di Victor Costancio che cita il G-20 di Brisbane del 2014 solo per dire che quanto là convenuto in termini di riforme non ha portato ad alcun risultato in termini di crescita. Eppure egli capisce che ci si trova di fronte a sfide «connesse al ristagno secolare» ma poi conclude che al presente la politica monetaria è il solo strumento a disposizione dell’Europa. È una conclusione che non ci piace e dalla quale il Governo italiano si è da tempo staccato con una visione di medio-lungo temine che molto insiste sugli investimenti come risulta anche dal recente documento del ministro Padoan “Una condivisa strategia politica europea per la crescita, l’occupazione e la stabilità”.

Metastasi del linguaggio politico per il giornalismo alla Alvaro Vitali

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MetastasiCercate un significativo indicatore della crisi etico-civile del Paese od un fattore che ne frena la crescita? Se volete andare a colpo sicuro dedicate po’ di tempo a monitorare i prodotti di una quotidiana giornata di informazione: non vi sarà difficile riscontrare che, fatto salvo un esiguo numero di firme ed anchor man & woman autorevoli per competenza ed efficacia stilistica, il mondo della comunicazione si sta progressivamente caratterizzando per la mediocrità delle performance giornalistiche.

Il peggio lo potete osservare quando l’attività dei giornalisti è rivolta ad “adescare” una particolare “fauna”, quella politica, che – per parte sua – si dimostra disponibile ad ogni tipo di avanspettacolo gestito da conduttori la cui predisposizione e competenza ad illustrare ed approfondire i fatti ed i temi di attualità affrontati nei talk show, nei servizi, nelle interviste, sono accostabili – per l’atteggiamento ed il linguaggio adottati – alle posture ed alla libidine manifestate da  Alvaro Vitali nelle scene di sesso degli “indimenticabili” film degli anni ’70.

Da sottolineare che alla scarsa qualità e correttezza dei contenuti informativi di molti dei media tradizionali, va aggiunto lo squallore delle junk news: la spazzatura digitale attraverso cui blogger, aspiranti leader politici e “liberi pensatori” – potendo usufruire dell’accesso alle autostrade del web – dispensano castronerie, insulti gratuiti e messaggi nei quali mixano i superficialità con demagogia.

L’insieme dei molteplici mezzi di comunicazione sono quindi abusati, da un lato per inseguire disperatamente audience, dall’altro per creare-favorire-legittimare-sostenere carriere politiche.

Siamo oramai di fonte ad una commistione incestuosa di rapporti & scambi di ruoli che consente di travalicare i vincoli della deontologia professionale, del comune senso del pudore, del rispetto interpersonale: documentazione, approfondimento critico, pluralismo delle opinioni, salvaguardia della riservatezza? Ma dai, non fanno spettacolo, non interessano alla ggente!

Non ci si può meravigliare quindi del pullulare di “personaggetti” nell’ambiente mediatico-politico, dello squallore di certi dibattiti parlamentari.

In questi ultimi anni giornali e palinsesti si sono disputati le quote di pubblico volgarizzando confronti e discussioni: abbiamo così visto emergere nuovi protagonisti degni di partecipare e concorrere alla Corrida….

Ma Corrado produceva divertimento mettendo in scena un evento popolare; i “presentatori” odierni giocano al populismo affrontando maldestramente e “spettacolarizzando” questioni vitali che richiederebbero preparazione, format, strumenti, dibattiti, coinvolgimento degli spettatori (oggi reso possibile dalle tecnologie dell’interazione e della condivisione) finalizzati alla diffusione di buona conoscenza, alla promozione della responsabilità civica, a contribuire alla consapevolezza critica dei processi di cambiamento in atto: rivoluzione digitale, globalizzazione ed interdipendenza, conflitti culturali ed integrazione, necessità di efficientamento delle istituzioni e di magior rendimento del personale politico.

A dire il vero la situazione non è drammatica bensì, come direbbe Flaiano, è poco seria…

Migliorarla è sicuramente possibile: non solo perche sono aumentate per (quasi) tutti coloro le opportunità di scegliere e la a libertà di decidere le fonti di informazione; sono anche cresciuti in modo esponenziale il possesso di strumentti e competenze utili per constrastare il flusso della cattiva informazione, la capacità di introdurre nell’agenda pubblica e nella sempre più ricca Rete dei media analogici e digitali opnioni e documenti che alimentino la riflessività critica.

Si tratta di un decisivo processo di democratizzazione bottom up del sistema di comunicazione che comporta: il decentramento dei luoghi, delle infrastrutture e delle funzioni di autoproduzione dei contenuti e trasmissione delle informazioni; una maggiore trasparenza del processo di formazione delle idee e produzione della conoscenza; un freno alle manipolazioni attuate attraverso l’uso proprietario dei mezzi e delle tecnologie (è necessario citare gli esempi più clamorosi – vecchi e recenti?-) ; il filtraggio più efficace alle attività, più o meno spudorate, di disinformazione.

In questi giorni, per esempio, ci è capitato di leggere che la decisione UE di aumentare l’importazione di olio tunisino (circa il 2 % sul totale del mercato) mette a rischio ….. i produttori gardesani!?

Credo che in questo piccolo caso di opinione farlocca come per quelli molto più rilevanti, per cittadini ed elettori, nei quali il sistema mediatico e politico ha farfugliatio e continua a farfugliare (con dati fasulli, “impressioni”, approcci superficiali) dobbiamo – singoli cittadini, agenzie culturali, centri di ricerca e documentazione, fondazioni, libero associazionismo – rinvigorire la capacità di documentare, far discutere, ma anche di spernacchiare il cattivo giornalismo ed i rappresentanti politici che barano (perché ignoranti o in malafede).

 

D’Alema ed il Partito della fazione

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D’ALEMA: DAL PENSIERO DIACRONICO UNO SGUARDO DISTORCENTE SULLA CONTEMPORANEITÀ DEL PD E LA PROPOSTA DELIRANTE DEL “PARTITO DELLA FAZIONE”

 Renzi & D'AlemaHo sempre osservato con autentico interesse la traiettoria politica di D’Alema e la sua abilità manovriera nel far transitare – attraverso un lungo e tortuoso percorso – nell’alveo della socialdemocrazia europea un Partito (PCI) la cui matrice ideologica e politico-culturale profonda era immersa nel togliattismo cominternista (seppur “ripensato” dalla visione impressa dalla gestione berlingueriana).

Aggiungo che non mi ha mai sorpreso il riemergere, nei diversi tornanti della storia più recente della sinistra italiana – in gran parte approdata nella costituzione del Partito Democratico – del suo ostinato approccio tattico per dirimere ed orientarne le scelte strategiche.

Tale impegno, assunto come una mission da predestinato, si è manifestato in particolare nelle occasioni in cui – nel campo di gioco politico nazionale – si sono disputate vere e proprie competizioni per la leadership.

Come è stato osservato, soprattutto da coloro che lo hanno frequentato e/o subito da vicino, “nel boicotaggio dell’avversario (interno) D’Alema è sempre stato imbattibile”!

Ricordiamo tutti il memorabile disarcionamento di Occhetto, “colpevole” dello strappo della Bolognina, nel 1992 -1994; fu meno brutale, ma con un alto livello di tensione, la competizione con Prodi nel 1997-1999 sulla funzione ed il governo dell’Ulivo; seppur dissimulato, è stato aspro anche il prolungato dissidio con Veltroni sul modello a cui ispirare la strategia del Partito Democratico.

 

Non deve sorprendere quindi che l’affermazione di Renzi alla guida del PD ed a seguire del Governo – soprattutto l’imprinting della discontinuià con cui egli ha inteso caratterizzarsi dopo la campagna per la rottamazione – sia diventata per D’Alema l’loccasione per una sfida davvero intrigante, ovvero di ripensare criticamente la propria biografia politica.

Decidendo che, dopo quarant’anni di cimento, era giunto il tempo di riconoscere l’inizio di una nuova stagione politica con altri protagonisti; oppure, ritenere che, nell’ambito dell’estenuante trama portata avanti indefessamente per continuare ad esercitare – sulla base di una presunzione di primazia e funzione storica inestinguibile – l’egemonia ideologico-culturale sulla sinistra, il giovane fiorentino avesse le sembianze di un “arrogante usurpatore” a cui riservare, attraverso   l’alimentazione di una opposizione astiosa e ben calcolata, il destino di diventare il bersaglio di un ennesimo (l’ultimo?) boicotaggio.

Parentesi: In una esilarante quadretto familiare Claudio Velardi ha illustrato nel suo Blog (curiosamente lo stesso giorno dell’uscita dell’intervista sul Corriere della Sera) il sentimento di ostilità preconcetta e la pulsione all’ostracismo che anima alcuni dei vecchi leader ex-comunisti, nel rapporto con Matteo Renzi; scrutandoli maliziosamente ha attribuito loro il seguente giudizio: “…… l’essere più abominevole mai apparso sulla scena politica italiana. Antipatico arrogante incompetente chiacchierone falso vanesio inconcludente indisponente presuntuoso insolente. Naturalmente vecchio democristiano, nemico giurato della sinistra, uomo dei poteri forti, agente del Mossad. Un buono a nulla capace di tutto”…… .

Proseguendo poi nella sua fantasiosa ricostruzione, Il simpatico ex ghost writer di D’Alema si è messo nei loro panni e ne ha descritto la segreta speranza-previsione: “Poniamo tutto questo. Poniamo poi che a Bray riesca a Roma il gioco che funzionò con Pastorino in Liguria, che la Balzani a Milano faccia lo sgambetto a Sala, che a Napoli la farsa delle primarie travolga la Valente. Poniamo che nel frattempo e dopo qualche imboscata parlamentare vada a segno, che il governo perda consensi nei sondaggi, che l’Europa ci emargini. E, infine, poniamo pure che vada male il referendum di ottobre, che Renzi – come ha annunciato – di conseguenza si dimetta e vada a casa” (sic!).

Quando il perspicace uomo di comunicazione napoletano si dilettava a scrivere il suo post (10 marzo scorso) non poteva certo pensare che il giorno successivo sarebbe stata pubblicata l’intervista al “leader Maximo”, nella quale il subdolo e surreale “disegno politico” da lui ipotizzato, corrispondeva alla luciferina e delirante prospettiva vaghegggiata da D’Alema nella sua prognosi sul Partito Democratico!

http://www.corriere.it/politica/16_marzo_11/d-alema-il-partito-nazione-gia-c-ma-perdera-malessere-puo-creare-nuova-forza-2805f89a-e6fd-11e5-877d-6f0788106330.shtml

Si potrebbe parlare di affinità elettive (seppur divaricanti, perché il Velardi considera “bollito” D’Alema sin dal 2008…).

Qualche esponente del partito si è detto “sconcertato” di fronte alle considerazioni ed ai propositi espressi nell’intervista; in effetti, a leggerli in filigrana, siamo si fronte al tentativo di un controcanto (legittimo. Per carità) al progetto politico renziano; restando ai fatti della pura agenda politica se ne possono dedurre quattro messaggi: non voterà Giachetti a Roma; non voterà SI al referendum costituzionale; detesta Renzi che non lo ha nominato commissario europeo; sta tessendo la sua tela per provare a danneggiarlo il più possibile, prospettando la nascita di un progetto politico a sinistra del PD che potremmo riassumere nel “partito della fazione contrapposto al partito della nazione”!

Ritengo, al contrario di quanti si meravigliano, che la sortita dalemiana rappresenti bene un sentiment coltivato con coerenza e l’ultimo capitolo di una lettura politica della storia recente del centrosinistra, con la quale si opera il tentativo – triste e patetico allo stesso tempo – di distorcere il signicato culturale e le ricadute programmatiche del processo di rinnovamento democratico avviato con la leadership espressa da una nuova generazione, non gravata dagli ideologismi ed esasperanti tatticismi ed individualismi del passato, che hanno ostacolato e rallentato l’affermazione del Partito Democratico.

Ma il fatto più rilevante – e probabilmente “disturbante” per il nostro – è che, seppur con insufficienze e schematismi, la nuova dirigenza si sente ancorata al Progetto liberante e modernizzante di rigenerazione della vita politica nazionale, di cui si possono rintracciare gli elementi ispiratori e costituenti nell’Ulivo primigenio.

Su tale interpretazione ci sarà modo di riflettere e discutere – anche per contraddire le imprecise autocitazioni uliviste dalemiane – non appena sarà pubblicata la rigorosa e documentata ricostruzione storica sul “Partito dell’Ulivo” realizzata da Andrea Colasio (già autore di un testo fondamentale per comprendere le tensioni attuali all’interno del PD: vedi in “Storia e storie del Partito Democratico a Nordest”, per il quale rinvio a https://www.dinobertocco.it/storia-e-storie-del-pd-a-nordest/ .

Da subito però sottolineo che sia molto utile una “lettura contemporanea” di caratteristiche, limiti e contraddizioni del Progetto messo in campo dal Partito Democratico a trazione renziana: ci sono sicuramente d’aiuto in tal senso l’analisi e le proposte che emergono da un’ intervista ad Arturo Parisi, che rappresentano un esplicito incoraggiamento ad intensificare e migliorare l’azione intrapresa con il “metodo primarie” e la più efficace smentita alla supponenza ed inconcludenza delle esasperate critiche dalemiane:

http://www.ilfoglio.it/politica/2016/03/10/basta-chiacchiere-il-pd-ha-un-problema-di-dirigenti-non-di-primarie___1-v-139265-rubriche_c322.htm

“Accadde domani”: il Rapporto della Fondazione SYMBOLA e di COLDIRETTI

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ISymbolaL MADE IN ITALY DALLA QUANTITA’ ALLA QUALITA’: LA STORIA DEL VINO A 30 ANNI DAL METANOLO COME METAFORA DEL FUTURO DELL’ITALIA

PRODUCIAMO IL 45% DI VINO IN MENO RISPETTO ALL’86, MA L’EXPORT E’ CRESCIUTO DI OLTRE SEI VOLTE ARRIVANDO A 5,4MLD DI EURO

 

Roma, 6 marzo 2016. Nel 1986 una sofisticazione criminale, il vino al metanolo, colpisce l’Italia causando 23 vittime, provocando cecità e lesioni gravi a decine di persone e anche un incredibile danno per il settore e per l’immagine del Paese. Da allora il mondo del vino è cambiato puntando sulla qualità legata al territorio, anziché sulla quantità a basso prezzo. Così la produzione di vino italiano negli ultimi trent’anni è scesa del 45%, passando da 76,8 a 47 milioni di ettolitri, ma il fatturato e l’export (espressi in valore nominale) sono cresciuti: rispettivamente più del doppio il primo, da 4,2 miliardi di euro a 9,4 miliardi, e oltre sei volte il secondo, da 800 milioni a 5,4 miliardi. E il nostro vino mantiene saldamente il secondo posto per quota di mercato globale col 19,9%. Questi numeri descrivono la rinascita del vino made in Italy dopo la crisi del metanolo, rinascita resa possibile dalla scommessa sulla qualità. Una storia che è anche una metafora della missione dell’Italia. Come dimostrano i dati del report ‘Accadde domani’ della Fondazione Symbola e di Coldiretti presentato oggi a Roma, infatti, la ricetta della qualità è valida non solo per il vino ma per l’economia tutta e si è mostrata vincente in molti settori: dall’agroalimentare alla meccanica, dall’abbigliamento al legno arredo, dalle calzature agli occhiali solo per citarne alcuni.

 

“Quello che è accaduto dopo lo scandalo metanolo nel vino italiano – spiega il presidente della Fondazione Symbola Ermete Realacci – rappresenta una straordinaria metafora della missione del nostro Paese. La domanda di Italia nel mondo è legata alla qualità, alla bellezza, alla cultura. Per intercettarla l’Italia deve fare l’Italia, andare avanti nel cammino intrapreso verso la qualità e puntare sull’innovazione senza perdere la sua identità. Questa parabola produttiva e culturale che ha nel vino il suo campione riguarda una parte rilevante della nostra economia. Questa tensione costante alla qualità rivela il cuore e il motore del made in Italy”.

 

“Ora la nuova sfida è quella di rafforzare e difendere le posizioni acquisite combattendo la concorrenza sleale forte e agguerrita dei produttori internazionali che si concretizza nella vinopirateria con le contraffazioni e imitazioni dei nostri vini e liquori piu’ prestigiosi che complessivamente provocano perdite stimabili in oltre un miliardo di euro sui mercati mondiali”, ha affermato il presidente della Coldiretti Roberto Moncalvo nel sottolineare che “a preoccupare sono anche i tentativi di minare la distintività delle produzioni come dimostra la recente discussione comunitaria sulla liberalizzazione dei nomi dei vitigni fuori dai luoghi di produzione che consentirebbe anche ai vini stranieri di riportare in etichetta nomi quali Aglianico, Barbera, Brachetto, Cortese, Fiano, Lambrusco, Greco, Nebbiolo, Picolit, Primitivo, Rossese, Sangiovese, Teroldego, Verdicchio, Negroamaro, Falanghina, Vermentino o Vernaccia, solo per fare alcuni esempi”.

 

Una strada, quella della qualità, seguita con successo da molte delle nostre imprese nei settori più diversi della nostra economia. Il report di Fondazione Symbola e Coldiretti analizza dunque anche altri prodotti italiani di eccellenza che hanno vinto al sfida della competitività puntando su innovazione e qualità. Nella filiera agroalimentare, ad esempio, siamo il Paese più forte al mondo per prodotti distintivi, con 282 prodotti Dop, Igp, St. L’export di scarpe è diminuito da 218 mila a 165 mila tonnellate in 30 anni ma il valore nominale è passato da 5 a 11 miliardi di dollari. Nell’abbigliamento in pelle l’esportazione è passata da 1.910 tonnellate a 2.254 tonnellate, mentre il valore è triplicato: 787 milioni di dollari a fronte di 233. Nella produzione di macchine per l’industria alimentare siamo passati da un export di 68 mila tonnellate (952 milioni di dollari) a 157 mila tonnellate, per un valore nominale complessivo a 4,1 miliardi: +333%.

Sostenibilità sociale chiave dello sviluppo

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Laura La Posta  – PRIMA Sostenibilità socialePAGINA   – 2 Marzo 2016 – Il Sole 24 Ore

È la più strategica, ma per anni è stata meno considerata rispetto a quella economica e a quella ambientale

È rimasta per decenni in ombra, la sostenibilità sociale. Mentre il dibattito sui cambiamenti climatici e sulla crisi economica accendevano i riflettori sugli altri due tipi di sostenibilità: quella ambientale e quella economica. Il disinteresse diffuso ha così favorito la crisi del modello di Welfare State esistente. Il conto, per i cittadini, è stato elevato: in Italia, tagli non graduali, a volte brutali, alla spesa sociale, per salvare i conti pubblici e la tenuta complessiva del Paese. In Gran Bretagna, invece, si registra ora la minaccia di uscire dall’Unione europea (la temuta Brexit) anche per il nodo del welfare agli immigrati. Ci si sta così rendendo conto che la sostenibilità sociale – intesa come capacità di garantire condizioni di benessere umano (sicurezza, salute, istruzione, democrazia, partecipazione, giustizia) equamente distribuite per classi e genere – è in realtà la più strategica delle tre. Perché in presenza di inique diseguaglianze e in assenza di coesione sociale non possono realizzarsi la sostenibilità economica e quella ambientale.

Ecco perché i Rapporti Sviluppo sostenibile del Sole 24 Ore – una serie di special report che si avvia a compiere dieci anni – non possono trascurare questo aspetto che anzi, nell’ultima definizione dell’Onu, pervade completamente l’ambito della sostenibilità. La pubblicazione odierna del Rapporto è dunque interamente dedicata alla dimensione sociale, non più cenerentola ma regina del dibattito pubblico. Come siamo arrivati a questa nuova consapevolezza e cosa fare per adeguare le politiche pubbliche e la strategia dell’impresa a questo trend? Lo spiega uno dei padri dell’economia civile (con Luigino Bruni, che firma un’analisi del Rapporto), Stefano Zamagni, docente universitario, ex presidente della soppressa Agenzia per il terzo settore, membro della Pontificia accademia delle Scienze e fra i principali collaboratori di Papa Benedetto XVI per la stesura dell’Enciclica Caritas in veritate.

«Il modello di Welfare State totalista (non totalitarista: attenzione), nel quale si affida allo Stato il compito di preoccuparsi della condizione di vita dei cittadini (dalla culla alla bara) non è più sostenibile, sia a livello economico (perché alimenta la voragine del debito pubblico), sia perché non rispetta la dignità delle persone assistite, essendo un modello paternalistico e assistenzialista – spiega Zamagni -. Negli ultimi dieci anni è iniziata una transizione culturale verso un welfare plurale, nel quale l’ente pubblico, i soggetti privati, il terzo settore colmano tutti assieme i buchi del welfare totalista, lasciati aperti dalla riduzione dei fondi a scopi sociali (per la sanità, le pensioni, i sussidi, l’istruzione, ecc)».

«Ha preso così forma il fenomeno del welfare aziendale – riprende Zamagni -: le aziende dedicano alle misure di sostegno ai dipendenti, nella contrattazione di secondo livello, risorse via via più rilevanti. E anche il cosiddetto terzo settore è diventato più produttivo, con le imprese sociali, le coop, le fondazioni inserite nel tessuto economico italiano con risorse anch’esse ingenti».

Tutto bene, allora? La solidarietà “lineare” (da erogatore a soggetto assistito) salverà il welfare, la coesione sociale e in ultima analisi l’economia, favorendo il riaccendersi dei consumi e l’innalzamento del Pil? Non proprio, secondo Zamagni. «Anche questo modello non può durare nel tempo – sostiene l’economista -. Le menti più lucide, a livello mondiale, stanno capendo che il welfare plurale non può essere il punto d’arrivo, perché non garantisce l’equità. Sono fortunati solo quei lavoratori occupati nelle imprese con dirigenti illuminati che realizzano efficacemente il welfare aziendale. E gli altri? Il welfare plurale non ha una copertura universalistica. È un passo avanti, ma ora bisogna farne altri, perché non sono accettabili ulteriori spaccature della società tra fortunati e sfortunati. L’Italia ha già diseguaglianze reddituali e occupazionali rilevanti, non ne ha bisogno di altre».

Secondo questa corrente di pensiero, il traguardo finale di un Paese evoluto è il welfare civile, che fa riferimento alla antica civitas: quel luogo non solo fisico ma anche valoriale e culturale nel quale si riconoscevano i cittadini. «Il welfare civile ha dei vantaggi – spiega Zamagni -: è universalistico e abilitante, perché tende a migliorare la capacità di vita delle persone (la capability evocata da Amartya Sen) e non le condizioni di vita. I primi due welfare (quello totalista e quello plurale) hanno un fondamento individualistico e si rivolgono solo alle persone che “hanno bisogno”. Questo modello di welfare civile, invece, favorisce la coesione sociale: è inclusivo perché mette in pratica il principio di reciprocità. Aiuta chi ha bisogno e lo sensibilizza a restituire alla società quanto può dare lui (in termini di tempo e competenze, ad esempio)». Per raggiungere questo obiettivo, bisogna dotare la civitas di una infrastrutturazione adeguata, anche digitale: una sorta di banca del tempo, nella quale il portatore di bisogni non si sente umiliato di ricevere, proprio perché può ricambiare (come l’anziana che al pomeriggio cura i bambini del palazzo e poi chiede ai genitori di portarle la spesa a casa per non fare lei le scale).

Anche le imprese possono fare con più entusiasmo la loro parte, se non si sentono Bancomat dal quale attingere ma centro di competenze e risorse da coinvolgere e attivare. «Il principio organizzativo che consente di tradurre in pratica il welfare civile è la sussidiarietà circolare – riprende Zamagni -. Fin qui abbiamo declinato la sussidiarietà come verticale (un esempio è il decentramento amministrativo) o orizzontale (il welfare plurale, dove il timone è però in mano all’ente pubblico, che spesso è costretto a conformarsi all’iniquo regime del massimo ribasso). La sussidiarietà circolare, invece, è il passo ulteriore e consiste in questo: il settore pubblico, la business community e il mondo della società civile organizzata (immaginiamo un triangolo), interagiscono in maniera sistematica tra di loro sulla base di protocolli stabiliti per definire le priorità di intervento sociale, e per trovare le modalità di gestione più efficaci per raggiungere gli obiettivi condivisi».

Non potremo mai avere un welfare civile fin quando le priorità sono decise solo da uno dei tre vertici del triangolo: il settore pubblico. «L’ente pubblico oggi o non ha le risorse o non ha le informazioni per conoscere le esigenze reali della società civile: gli apparati non stanno sul territorio, ma negli uffici, e sono diventati burocrazia – spiega l’economista -. Il mondo dell’impresa ha le risorse economiche ma da solo non può farcela a definire strategie comuni. Dal canto suo, solo la società civile sa come evitare il paternalismo assistenzialistico. I tre mondi devono interagire in maniera sistematica».

Utopia? No, secondo Zamagni. Queste idee hanno radici antiche in Italia, che affondano nel Rinascimento e sono realizzate oggi in diversi Comuni illuminati, in Trentino, in Emilia Romagna, in Toscana. Anche la società civile le attua in alcune città, con il modello delle social street (una ricerca dell’Università Cattolica ne ha mappate ben 64 a Milano). E le ultime novità normative favoriranno questa transizione. «I nuovi articoli 118 e 119 della Costituzione che introducono la sussidiarietà fanno riferimento alla sussidiarietà circolare, si legge nella relazione di accompagnamento – racconta Zamagni -. Anche l’introduzione nel nostro ordinamento delle Benefit corporation, nella legge di Stabilità, avrà effetti positivi in tal senso: le B Corp non destinano profitti, ma proventi al sociale e questo è un passo avanti sulla responsabilità sociale d’impresa fin qui praticata. Anche le aziende low profit che si stanno affermando portano acqua a questo mulino. E la riforma del terzo settore in fase di approvazione completerà il quadro giuridico favorevole, ponendo l’Italia all’avanguardia europea. Qualche lezione agli altri Paesi possiamo ancora darla, se rafforziamo i nostri sforzi sulla frontiera della sostenibilità sociale. Tutti insieme: pubblico, imprese, terzo settore e cittadini».

Una nuova governance europea

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Sergio Fabbrini POLITICA E SOCIETA – 28 Febbraio 2016 – Il Sole 24 Ore

È bene che i rapporti tra Renzi e Juncker si siano normalizzati. Finalmente il confronto tra il governo italiano e la Commissione europea ha riacquisito un carattere rispettoso e costruttivo, riducendo il tasso di personalizzazione che lo stava paralizzando. Tuttavia, consiglierei di non confondere la diplomazia con la politica.

Il contrasto tra l’Italia e l’Eurozona è destinato infatti a persistere per ragioni strutturali. Naturalmente, molto può essere fatto nelle condizioni esistenti per ridimensionare quel contrasto. Soluzioni di continuità possono essere promosse per rendere l’Eurozona e l’Ue più reattive rispetto alle grandi sfide della crisi finanziaria e migratoria. E va meritoriamente in questa direzione il documento proposto pochi giorni fa dal governo italiano alle istituzioni europee. Queste ultime dispongono di già degli strumenti normativi e finanziari per rendere possibile o per sostenere politiche di rilancio economico anche nei paesi periferici, attraverso un’interpretazione più flessibile dei vincoli del Patto di stabilità e crescita. Flessibilità prevista nei testi in caso di condizioni avverse ovvero quando un governo nazionale introduce riforme strutturali che hanno costi nell’immediato ma generano benefici nel futuro. Come è il nostro caso. Allo stesso tempo, l’Italia deve fare di più per ridurre il suo debito pubblico e rendere più competitiva la sua economia. In proposito, il modello economico dell’Eurozona, basato su un mix di riforme strutturali e di politiche di riduzione/consolidamento fiscale, ha prodotto risultati importanti, come in Spagna e Irlanda. In Spagna, dopo il collasso finanziario del periodo 2011-2013, quel mix ha portato il paese ad un tasso di crescita, nel 2015, di quasi il 3,5 per cento. In Irlanda, dopo il tracollo finanziario del periodo 2012-2013, quello stesso mix ha favorito una crescita economica, nel terzo quadrimestre del 2015, addirittura del 7 per cento. Si capisce perché si additino questi due casi come la prova che il consolidamento fiscale costituisca la condizione per lo sviluppo. L’Italia può sicuramente imparare da quelle esperienze, ma non può seguire la loro strada.

Perché? A ben guardare, il modello economico dell’Eurozona appare molto meno di successo di quanto si ritenga a Bruxelles. La crescita economica media dell’Eurozona continua a essere molto debole (le previsioni più ottimiste per il 2016 prevedono un tasso medio dell’1,5%, la metà rispetto a quello previsto per gli Stati Uniti). Tale debolezza non riguarda solamente i paesi periferici, ma anche i paesi centrali dell’area, come la Germania. La disoccupazione non diminuisce in modo significativo. Ma soprattutto quel modello ha destabilizzato politicamente gli stati che lo hanno adottato. A due mesi dalle elezioni, la Spagna è ancora senza un governo. In Irlanda, le elezioni di venerdì scorso stanno rendendo difficile la formazione di una maggioranza coerente. In entrambi i paesi è probabile che ci saranno nuove elezioni a breve. Un esito inevitabile quando le politiche di consolidamento fiscale trascurano i vincoli del consenso elettorale. Non solo. In tutti i paesi dell’Eurozona c’è una crescita impetuosa dei partiti anti-austerità, mentre negli altri crescono partiti anti-europei e nazionalisti. La crisi migratoria, combinatasi con quella finanziaria, ha esteso ulteriormente l’incendio. Sembra difficile pensare che tali sfide e trasformazioni possano essere affrontate solamente con soluzioni di continuità.

Se l’Italia vuole crescere in modo stabile, all’interno dei vincoli della riduzione del debito pubblico e del mantenimento del consenso politico, allora non può limitarsi all’utilizzo prolungato delle clausole di flessibilità. È difficile promuovere politiche espansive a livello nazionale se non si cambia contestualmente la loro governance europea. Contrariamente a quello che scrivono i presidenti delle banche centrali di Germania e Francia, l’alternativa non è tra un modello intergovernativo ancora più centralistico e un modello nazionale ancora più decentralizzato. Il governo dell’Eurozona non può essere un ministro del Tesoro, scelto dai governi nazionali e verso di essi responsabile, privo di un proprio bilancio ma con il potere normativo di approvare o meno i bilanci degli Stati membri. Quest’idea centralistica, se realizzata, condurrà alla fine delle democrazie nazionali e alla trasformazione dell’Eurozona in una tecnocrazia dispotica. Né l’alternativa può essere il ritorno alle sovranità nazionali disciplinate dall’azione impietosa dei mercati. In poco tempo, l’euro come moneta comune cesserebbe di esistere. Al contrario di queste due alternative, l’Eurozona avrebbe bisogno di combinare un mix di politiche differenziate all’interno di un comune modello istituzionale. L’Eurozona ha sì bisogno di un potere esecutivo forte, ma dotato di una sua legittimazione. Un esecutivo separato dal potere legislativo, così che quest’ultimo possa controllarlo senza reticenze partitiche. Quei due poteri, attraverso controlli e bilanciamenti, debbono potere gestire un bilancio limitato ma autonomo, da utilizzare in funzione anti-ciclica per promuovere politiche di interesse comune. Insomma, la crescita dell’Eurozona, e dell’Italia al suo interno, richiederà politiche diverse a livello nazionale ma più democrazia comune a livello europeo. Ciò richiederà di combinare soluzioni in continuità con riforme in discontinuità. Se la riforma dell’Italia procederà insieme alla riforma dell’Eurozona, allora il contrasto tra le due genererà un esito positivo per entrambe.

 

 

 

 

Salviamo il soldato Roger (e rigeneriamo il PD veneto)

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 “Non dobbiamo aspettarci dai singoli individui ragionamenti corretti, di larghe vedute, tesi alla ricerca della verità, specie quando sono in ballo interessi personali e reputazione da difendere. Ma tanti individui combinati nel modo giusto, con alcuni posti nelle condizioni di sfruttare le proprie facoltà di ragionamento per smentire le affermazioni altrui, e tutti in grado di avvertire l’esistenza di un senso di comunità o di un destino condiviso, che consenta loro di interagire civilmente, formano un gruppo che finisce col produrre un ragionamento corretto che rappresenta la proprietà emergente del sistema sociale”

Jonathan Haidt, Menti tribali. Perché le brave persone si dividono su politica e religione

 

All’inizio del confronto interno sulle sorti del PD veneto post-debacle, c’era stato chi, con una sorta di autodifesa preventiva, aveva auspicato che la dirigenza regionale del Partito non fungesse da ”megafono del renzismo”; poteva sembrare l’espressione di una atto d’ogoglio, la rivendicazione di autonoma mirante a perseguire una soggettività politica propria…

Purtroppo si è rivelata – alla prova dei fatti – la opportunistica rivendicazione di poter continuare sottovento una tranquilla navigazione nella periferia del Partito; per i diversi esponenti del PD veneto, che si sono sentiti spiazzati dal processo di rinnovamento nella leadership nazionale e dal faticoso adattamento al cambio di ritmo nella strategia riformista messa in campo dal Governo guidato da Renzi, c’è stata la corsa a rimpannucciarsi.

Alcuni nei pochi scranni conquistati in Consiglio Regionale; qualcuno con la “superliquidazione” in Parlammento europeo; altri a gestirsi una tranquilla navigazione parlamentare, preoccupati solo di testimoniare la fedeltà alla vecchia Ditta o manifestare il dissenso e qualche crisi di coscienza in occasione di votazioni cruciali su provvedimenti legislativi ritenuti indigesti.

Nel Veneto quindi si sono sommati le dimissioni del Segretario regionale, conseguente al flop elettorale, e la disarticolazione delle Rappresentanze nei diversi livelli istituzionali con l’effetto di determinare una situazione di debolezza organizzativa endemica, proprio nella fase in cui i tangibili risultati dell’azione di Governo avrebbero potuto-dovuto costituire argomenti e strumenti efficaci per riprendere il dialogo e recuperare il consenso con i cittadini veneti, anche attraverso una presenza corale ed una forte visibilità del Partito.

Sicchè, come sottolinea amaramente Roger De Menech nell’articolo pubblicato nei giorni scorsi (24 febbraio) sul Corriere del Veneto, la bandiera del PD, ovvero l’azione politica territoriale è “rimasta affidata all’iniziativa dei singoli non organizzati” (sic!)

Nel suo intervento il Segretario dimissionario lamenta un diffuso narcisismo e critica l’atteggiamento di chi si ostina a non riconoscere la complessità del nuovo contesto economico e politico, da un lato, ed il mutamento del trade off con gli elettori, dall’altro; sottolinea inoltre che tale situazione di difficoltà deve essere affrontata “dando risposte come sistema partito e non singolarmente”.

Credo che onsetamente non si possa che sottoscriverne sia l’analisi che la perorazione conclusiva.

Ciò che mi sento di rimarcare criticamente è, però, la rinuncia (da parte del Segretario, seppur dimissionario) ad esporre con maggiore vigore le ragioni etico-valoriali e politico-culturali dello stato di anemia e sfarinamento del Partito, nella nostra Regione; esso ha a che fare sia con la malintesi concezione (che traspare nell’articolo) della “Agenzia di buoni servizi e buona rappresentanza territoriale” che, soprattutto,

della sottovalutazione del fatto che le chance di successo del PD – soprattutto nel Veneto – sono correlate alla sua capacità di diventare un’Organizzazione riconosciuta, vissuta ed agita come una “comunità di destino”, in grado di rappresentare strumento e veicolo (mezzo) di rigenerazione socio-culturale ed economica (fine) per una realtà in cui la subcultura leghista ha inquinato i pozzi della coscienza civile ed continua a frenare il necessario processo di modernizzazione istituzionale.

In una precedente riflessione sul sentiment democratico dei veneti (https://www.dinobertocco.it/il-sentiment-democratico-dei-veneti/ ) ho espresso il mio punto di vista sulle resposabilità ed i compiti che spettano ad una leadership rigenerata del PD; ma, anche alla luce delle considerazioni esposte dal Segretario regionale, ritengo utile agggiungere il suggerimento di una ri-lettura del prezioso testo che può fungere da strumento di orientamento, nell’attuale temperie all’interno del Partito Democratico (non solo regionale): il libro di Giuliano Da Empoli La prova del potere.

In esso sono efficacemente illustrati il senso e la mission di “una nuova generazione alla guida di un vecchissimo Paese” e vi si possono trovare alcune chiavi interpretative della nuova stagione politica inaugurata da Renzi, senza indugiare in analisi politologiche inconcludenti su un’avventura che continua ad essere maldigerita da media e talk show e –tuttora! – costituisce il rovello per giornalisti frastornati ed il tormento per i tanti “sinistrati” (anche di casa nostra) travolti dal processo di accelerazione e rinnovamento politico in corso.

Il pregio maggiore che vi si può riscontrare è dato dalla nettezza dei giudizi che aiutano a comprendere il cambio di paradigma e di prospettiva con cui bisogna fare i conti; certo per l’autore – che oltre che scrittore, editorialista del Messaggero, già assessore a Firenze con Matteo Renzi è oggi uno dei più stretti consiglieri del premier, il compito è per così dire “necessitato e facilitato”.

Ma resta un merito indubbio dell’autore la capacità di illustrare il significato ed alcuni dei contenuti programmatici strategici rappresentati dalla discontinuità storico-culturale che la leadership renziana sta, con fatica ed incontrando molte resistenze interne ed esterne, introducendo nell’agenda politica nazionale.

Ciò che affascina me, sessantenne impegnato da tempo ad obiettare sull’atteggiamento pregiudizievole e di molti miei coetanei (https://www.dinobertocco.it/ottuagenari-boriosi-e-sessantenni-frustrati-siate-piu-sereni-ed-obiettivi/ ed ancora https://www.dinobertocco.it/lo-scoutismo-del-premier-che-irrita-e-sconcerta-i-sessantenni-rosiconi-e-frustrati/ ) e convince particolarmente è lo sguardo di un intellettuale quarantenne che si arroga il diritto di rappresentare la Generazione X e che può –a ragione e con beffarda ironia – giudicare quello che abbiamo alle spalle (la cosidetta Seconda Repubblica) come “Il ventennio immaturo”, ovvero esaminare sotto il profilo storico ed antropologico “Il paese dei balocchi di Berlusconi: una specie di sogno americano adattato ai gusti delicati di un oligarca russo. Il paese normale di D’Alema: una sorta di utopia germanica vista attraverso lo sguardo allegro di un impiegato statale bulgaro”.

Da Empoli ci mette di fronte ad un’intepretazione che non contiene margini di mediazione politicista e propone una cesura con il recente passato: lo scopo è di indurre ad abbandonare la narrazione continuista di un ventennio (il tempo della cosidetta Seconda Repubblica) che oscura il fallimento di un intero ceto politico, che per lunghi quattro lustri si è trastullato “drogandosi con il doping dell’ideologia ed usando il carburante dello scontro con l’avversario

Il messaggio che ne esce (e che mi sento di condividere) è l’invito alla nuova generazione, che si è candidata a “cambiare verso” al Paese e si sta concretamente cimentando con le resistenze ed i conflitti provocati dal cambiamento, di avere il coraggio di essere “inattuali e sovversivi”!

L’augurio che faccio a De Menech (ed a me stesso) è di vedere maggiormente esplicitati e discussi, anche all’interno del Congresso regionale in gestazione, le ragioni, i contenuti progettuali e l’ispirazione etico-valoriale con cui i nuovi candidati alla leadership si propongono di gestire il processo di rinnovamento del PD con l’energia e l’effetto rigeneranti ben illustrati da Giuliano Da Empoli.

Il quale, va ricordato, è promotore del Think tank Volta che, proprio in questi giorni, è diventato l’oggetto di un    dibattito su alcuni Giornali che si interrogano e lo interpretano come un tentativo di integrare l’Agenda della governabilità a trazione renziana (“ il renzismo può trasformarsi in un’egemonia non solo di potere, ma anche culturale?”) con una strategia mirante a trovare nuove risposte (dal versante democratico e di sinistra) sui grandi temi ed interrogativi che assillano la contemporaneneità occidentale.

Vedi in particolare:

http://www.ilfoglio.it/politica/2016/02/19/renzi-puo-renzismo-essere-qualcosa-di-diverso-dal-nuovismo-cercasi-egemonia-culturale___1-v-138486-rubriche_c153.htm

http://www.corriere.it/cultura/16_febbraio_22/egemonia-ha-bisogno-un-idea-necessario-restarle-fedeli-af16a554-d8da-11e5-842d-faa039f37e46.shtml

Ma a questo punto si apre il capitolo di una riflessione più ampia, focalizzata da un lato sul Bilancio dei primi due anni di Governo Renzi e, dal’altro, sui temi, dilemmi (e capziosità) dell’identità del Partito: lo affronteremo in un prossimo intervento.

 

Padova, li 28 febbraio 2016