L’innovazione della cultura passa anche dallo storytelling delle opere

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di Alessandro Riccini Ricci – Il Sole 24 Ore 8 novembre

Museo digitaleIl Museo sembra essere il centro di un momento di fortunato interesse investito dalle opportunità offerte dalla cultura digitale. La nomina, durante l’estate, dei nuovi direttori a capo dei 20 grandi musei italiani da parte del ministro Dario Franceschini ha aperto un processo di potenziale dinamicità del comparto museale.

Il museo torna alle sue origini: un laboratorio culturale al centro di una serie di altri “luoghi” come teatri, scuole, giardini. Qual è la sfida che i musei italiani devono affrontare di fronte alle nuove opportunità che la cultura digitale ci offre? Cosa è e cosa potrebbe diventare il museo in Italia? In questi giorni il Mibact (ministero dei Beni e delle attività culturali e del turismo) sta lanciando il progetto Mud, Musei digitali. Mentre al Maxxi si è svolto Digital Think –in. In tutte e due i casi si è parlato, ragionato, progettato il Museo contemporaneo e digitale.

Intanto alcuni dati ci dicono che tanta strada deve essere ancora fatta. Sia in termini di alfabetizzazione di base o addirittura di ingresso nel mondo della rete da parte di una gran parte dei musei. Infatti su circa 320 musei statali, solo 140 hanno un sito. E la gran parte di questi ha più di 5 anni, risultando spesso obsoleti sia tecnologicamente che concettualmente.

Prima sfida è dunque il portare in rete, nel mondo dei social il sistema dandogli una coerenza e degli strumenti base (siti, app, profili social, …) coordinati. Il governo sembra credere strategicamente nel digitale e sono alle porte nuovi investimenti. Il sistema museale italiano avrà delle linee guida di riferimento a cui i vari website dovranno far riferimento per essere smart. Si riuscirà a recuperare questo gap? Questo è quello che il progetto Mud del Mibact si prefigge.

La seconda sfida è quella di far entrare il digitale nel museo come un’attitudine, come un modo di essere. Non solo una voce di budget. Non solo un atto tecnico. Il digitale è oggi molto di più per il museo. È una potenziale nuova pelle. Un nuovo ecosistema nel quale immergere l’arte e il nostro patrimonio.

Il Moma di New York, ad esempio, ha una task force che ha completamente ridisegnato il suo sistema di siti, di app e dei social creando attività collegate negli spazi del museo (una vera e propria attività di gamification) che innesca un efficace sistema di coinvolgimento delle persone, attivi protagonisti della visita. Tra le persone coinvolte in questo progetto anche una italiana, Chiara Bernasconi, che ci spiega come la semplicità sia la chiave base per rendere l’esperienza del museo coinvolgente ed emozionante. Attivi da alcuni anni in questo settore, il Moma ha festeggiato da poco il milione di follwers in Instagram. Un bel successo per il museo.

Uno degli aspetti più interessanti di questo progetto è che il social media team fa parte del dipartimento Cultura, è cioè al servizio delle opere, del contenuto, del racconto del museo.

E sono proprio il racconto, le emozioni, lo storytelling che diventano strategici oggi. Il museo è fatto delle storie affascinanti e avventurose delle opere e delle loro peripezie nel corso dei secoli, dei loro autori, della loro conservazione fatta a volte con metodi affascinanti e fantascientifici. Ed è fatto delle storie, delle emozioni del visitatore immerso in questo mondo. Raccontare tutto ciò, condividere, partecipare è un valore essenziale che anima il museo.

Inoltre intorno a questo “luogo” si sta creando un’interessante sistema di imprese creative innovative. Che si stanno interfacciando con il nostro patrimonio creando uno scenario nuovo e dinamico. Spesso non solo finalizzato a sezioni “commerciali” come il merchandising dove attraverso la stampa 3d si possono ricreare modelli delle opere. Ma anche progetti di accessibilità attarverso percorsi tattili, audio racconti, servizi e progetti online per chi non può recarsi nei musei.

Entriamo in un una nuova era, quello delle digital humanities. Che cosa nasce dall’incontro tra la nostra cultura umanistica e la cultura tecnologica? Questa è la nuova avventurosa storia che vorremmo raccontare nei prossimi mesi: da luogo della conservazione a luogo dell’innovazione.

 

 

Una torta ed un pensiero disgustosi

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UNA TORTA ED UN PENSIERO DISGUSTOSI

Sappiamo che con “La banalità   del male” Hannah Arendt ha voluto fornirci una possibile (anche se non esaustiva) chiave interpretativa per comprendere le aberrazioni ideologiche e le mostruosità disumanizzanti con cui il fascismo ed il nazismo hanno segnato la loro nefasta presenza nel ventesimo secolo europeo.

Ma la filosofa ebrea non poteva immaginare che si potesse ricorrere ad “addolcire” l’orrore e la rivolta morale che i simboli del fascio littorio e della svastica suscitano, riproducendole in un’innocua torta di buon compleanno.

Rimaniamo esterefatti di fronte ad un tale prodotto disgustoso e confidiamo che la denuncia del Consigliere regionale Ruzzante sortisca la resipiscenza dei nostalgici coinvolti e, soprattutto la presa di posizione del Presidente Zaia, chiamato a non turarsi il naso di fronte alla macabra e maleodorante esibizione.

PIERO RUZZANTE:Torta«Mi attendo che ci sia da parte del presidente Zaia una netta presa di distanze dal consigliere Massimo Giorgetti: pubblicare su Facebook e commentare compiaciuto quella torta di compleanno corredata con i simboli del fascio littorio e delle SS è un atto ignobile, che non può essere accettato. Tanto più se arriva da una figura istituzionale, che attualmente ricopre la carica di vice presidente del Consiglio regionale». La presa di posizione è del vice capogruppo del Pd, Piero Ruzzante, che oggi ha presentato un’interrogazione al Presidente della Regione. Ruzzante chiede a Zaia «se non ritenga che i contenuti pubblicati in Facebook dal consigliere Giorgetti configurino il reato di apologia del fascismo e del nazismo; se non ritenga tale comportamento lesivo dell’immagine della Regione del Veneto e quali azioni intenda adottare per tutelarla».

Da EXPO a FICO : Bologna lancia il Parcoagroalimentare per gestire l’eredità

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LA DISNEYLAND DEL CIBO. Presentate 40 aziende che animeranno il parco con campi coltivati, allevamenti, laboratori di trasformazione di materie prime, didattica

Mara Monti   – Il Sole 24 Ore   – 27 Ottobre 2015

 

Da Expo a Fico. Mancano cinque giorni alla chiusura dell’esposizione universale di Milano e mentre ancora non è chiara quale sarà la destinazione dell’area di Rho, c’è già un progetto che ne raccoglierà l’eredità. Un progetto non a tempo, ma destinato a durare almeno 40 anni. E’ il parco agroalimentare di Fico, la “Fabbrica Italiana contadina” che sorgerà alle porte di Bologna sugli spazi del Caab, il mercato all’ingrosso agroalimentare della città che da gennaio verrà trasferito in un’area adiacente.

Il parco destinato a diventare la “Disneyland del cibo” si svilupperà su un’area di 80mila metri quadrati e verrà inaugurato entro la fine del 2016: «Mi sarebbe piaciuta l’apertura di Fico dopo la chiusura di Expo, ma non sarà così, apriremo qualche mese dopo, ma andrà bene uguale. Una data indicativa? Nella seconda parte del 2016 o nella prima parte del 2017», ha detto Oscar Farinetti fondatore di Eataly, ieri all’Expo dove è stato presentato il progetto insieme alle 40 aziende che animeranno il parco agroalimentare di Bologna. Un progetto complesso dove troveranno spazio campi coltivati e allevamenti dimostrativi, mercati e botteghe, 40 laboratori di trasformazione di materie prime, 20 ristoranti, 10 aule per la didattica e la formazione e 4mila metri quadrati di padiglioni per eventi, iniziative culturali e didattiche legate al cibo, per scoprire l’Italia e le sue biodiversità.

Dall’Expo di Milano a Fico di Bologna, una sorta di passaggio del testimone di un progetto nato per iniziativa Centro Agroalimentare di Bologna e del suo presidente Andrea Segré, promosso dal Comune di Bologna, gestito da Eataly World, la società costituita da Eataly e Coop Adriatica. Il progetto è gestito attraverso un fondo immobiliare da 100 milioni di euro gestito da Prelios, sottoscritto per la metà da soci privati: primo socio è il Caab, seguito dall’Enpam l’ente previdenziale dei medici e da Eataly-Coop. «Sarà la nostra Disneyworld e attirerà turisti da tutto il mondo, che vengono in Italia per conoscere la sua cucina”, ha aggiunto Farinetti che con Eataly a Expo ha fatturato 31 milioni di euro ben oltre 20 milioni previsti: «Bisogna non disperdere questa esperienza e da lunedì mi trasferirò a Bologna». Un progetto sostenuto anche dal governo perché come ha spiegato il ministro dell’agricoltura Maurizio Martina «ci sono tutte le condizioni perché il progetto di Bologna erediti la storia narrativa di Expo raccogliendo la sfida che si aprirà dopo l’esposizione universale in una regione l’Emilia Romagna che è la spina dorsale della nostra economia».

La regione Emilia Romagna e il Comune di Bologna sono convinti che Fico raccoglierà l’eredità di Expo. L’amministrazione comunale che per ragioni di spending review non ha partecipato all’esposizione, per Fico ha conferito l’immobile del Caab valutato circa 50 milioni. Dal parco, il sindaco Virginio Merola si aspetta «circa 6 milioni di visitatori, 4 dalla regione Emilia Romagna, uno dalle altre zone del paese e uno dall’estero, un’occasione per valorizzare il nostro territorio che può avere ricadute importanti sull’economia, a cominicare da un indotto di 3 mila lavoratori più 700 dipendenti diretti, in particolare giovani». Il presidente della commissione Agricoltura al Parlamento europeo, Paolo de Casto ha ricordato come Fico può diventare una piattaforma educativa a livello europeo sull’alimentazione nelle scuole.Parco agroalimentare

Innovazione sociale formato digitale

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Innovazione sodigiLE TECNOLOGIE MOBILITANO LE COMUNITÀ, CONDIVIDONO LE RISORSE E DISTRIBUISCONO IL POTERE. NESTA RACCONTA UN FENOMENO IN ESPANSIONE

Alessia Maccaferri – Il Sole 24 Ore – 28 ottobre

C’è il contatore che monitora le radiazioni in tutto il mondo, il sito che raccoglie i dati sulla spesa dei governi e il fablab che costruisce prodotti con la stampa in 3D. Il filo sottile che intreccia queste storie si chiama innovazione sociale digitale (Dsi) che, secondo l’Unione europea, può contribuire ad affrontare grandi sfide come ripensare i servizi pubblici – a costi più bassi – reinventare le comunità e i modi in cui le persone collaborano tra loro, rivedere il business con modalità che rispondano maggiormente ai reali bisogni umani, come la crisi economica ha ben evidenziato. Tanto che la Ue sta investendo importanti risorse: più di 50 milioni di dollari nel programma Collective Awareness Platforms for Sustainability and Social Innovation e addirittura 200 milioni con il bando Fast Track to Innovation (che scade il 1 dicembre) all’interno del programma Horizon 2020.

Secondo Nesta, dopo la prima ondata di innovazione digitale con il computing, i dati e il world wide web, ora è il momento dell’innovazione digitale sociale che può contribuire a trovare nuovi modi di organizzare la democrazia, i consumi, la finanza e ogni aspetto della vita pubblica. Le tecnologie digitali sono particolarmente adatte a contribuire all’azione civica: mobilitano ampie comunità, condividono le risorse e ridistribuiscono il potere.

Le innovazioni principali della Dsi si esprimono in settori identificati da Nesta, che sono: nuovi modi di fare, l’open democracy, l’economia collaborativa, i network consapevoli improntati alla sostenibilità, l’open access e, infine, capitali, acceleratori e incubatori. L’organizzazione non profit li racconta passo passo in «Growthing a Digital social Innovation Ecosystem in Europe», voluto dalla Commissione Ue, come strumento per identificare le politiche più idonee a scalare la Dsi e renderla di impatto. Basta guardare la mappa europea (http://digitalsocial.eu) – su cui sono localizzati 1.044 esempi di Dsi – per comprendere quanto il fenomeno sia vasta e puntiforme.

Della nuova economia collaborativa fanno parte tutte quelle piattaforme che condividono beni, servizi, conoscenza e competenze. Include anche cripto-valute, nuove forme di crowdfunding, piattaforme di scambio e condivisione basate sulla reputazione e sulla fiducia. E qui oltre alla stessa Nesta, vengono citate P2P Foundation, OuiShare, Peerby.

I nuovi modi di fare comprendono tutto il movimento dei makers and do-it-yourself, free Cad/Cam software, il design open source. Esemplificativi Safecast per il monitoraggio delle radiazioni, i fablab (il primo fondato dal Mit nel 2002), Smart Citizen Kit. Nel modello di open democracy la tecnologia digitale abilita la partecipazione collettiva, ingaggiando i cittadini in processi decisionali e mobilitandoli. Tra le case history Open Ministry, Liquid Feedback, OpenSpending.

I network consapevoli sono sostenuti da cittadini e comunità impegnati, attraverso piattaforme di collaborazione, per risolvere temi ambientali, promuovere cambiamenti verso la sostenibilità, mobilitare la cittadinanza per rispondere alle emergenze delle diverse comunità. Nesta cita le città di Vienna e Santander, network personali come Tyze, e piattaforme di sharing economy come Peerby che favorisce il prestito di beni tra vicini. E ancora Crisis Net, sviluppata dalla non profit tech company Ushahidi, che raccoglie e organizza i dati sulle crisi da fonti diverse, come social media, sensori, dati in real time. Secondo Nesta, l’open access -inteso anche come accesso libero ai contenuti, open standard, diritti digitali ecc – può dare più potere ai cittadini e aumentare la loro partecipazione. Tra i casi da tenere sott’occhio Open Data Challenge and Open Cities, Communia e Github. Infine il vasto mondo di incubatori e acceleratori.

Le esperienze sono raggruppate secondo quattro trend tecnologici: open knowledge (412 casi), ovvero la co-produzione di nuove conoscenze basate su contenuti, fonti e accessi aperti, liberi. Ne fanno parte per esempio il network Communia o Flok open network (269 casi) consiste in sensori wireless, le reti di comunità come Guifi.net e network centrati sulla tutela della privacy come il noto Tor.

open data (258) ovvero modi innovativi di estrarre, usare, analizzare e interpretare i dati liberati delle persone e dell’ambiente come fa l’Helsinki Regione Infoshare o l’Open Data Challenge. open hardware (105), cioè nuovi modi di usare l’hardware stesso, l’open source e l’Internet of Things.

L’aggiornamento della open data crowd map è stata appena rifinanziato dalla Ue e sarà condotta assieme da Nesta, Arduino e Waag Society. «Dopo la mappatura delle esperienze vogliamo ora creare un hub di innovazione che faciliti i contatti tra le pratiche, i policy maker e i fondi, gli incubatori» spiega Francesca Bria, coordinatrice del progetto Dsi a Nesta. La nuova piattaforma sarà costruita nel 2016. «Vogliamo contribuire a mettere in luce – continua Bria – le potenzialità reali di questo settore trasversale e quindi a innovare l’approccio della pubblica amministrazione. Per esempio, se si progettano e si impostano le smart city dall’alto, l’impatto è ben diverso rispetto a un approccio di reale innovazione sociale». Per anni queste argomentazioni sono rimaste chiuse nelle stanze degli addetti ai lavoro. Ora anche l’Europa ci crede.

Capitale sociale e Digitale secondo Putnam

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«Internet integra il digitale col reale. Sono gli squilibri a deteriorare le relazioni»

Alessandro Longo – Il Sole 24 Ore – 18 ottobreCapitale sociale

 

«Oggi sono le diseguaglianze sociali, in crescita nei Paesi sviluppati, la principale minaccia per il “capitale sociale”». E «internet di per sé è impotente contro questo problema». I nuovi strumenti digitali riescono però a potenziare il capitale sociale quando fondono due dimensioni delle relazioni personali, quella fisica e quella elettronica, «creando qualcosa di diverso da prima: come una lega di due metalli».

Robert Putnam, docente di Politiche pubbliche della Harvard University, è tornato in Italia in occasione della Smart City Exhibition di Bologna, presentando un aggiornamento del proprio concetto di capitale sociale. Nella sua celebre opera del 1993, “Making democracy work: civic traditions in modern Italy” metteva in relazione i livelli di performance delle amministrazioni regionali italiane con il “capitale sociale” di quel territorio. In sociologia il concetto equivale a quel bagaglio di relazioni e di valori che connettono l’individuo nella società. Putnam lo misurava con vari parametri, come il numero di associazioni volontarie sul territorio e la quota di popolazione che legge i giornali.

Adesso, vent’anni dopo, Putnam si interroga sul ruolo del digitale per la formazione di un capitale sociale più o meno buono. «Credo che il dibattito finora sia stato mal posto – sostiene Putnam -. Sbagliano entrambe le fazioni: chi sostiene che internet stia migliorando il capitale sociale e chi teme l’opposto».

«In realtà, la maggior parte delle nostre relazioni sono sia digitali sia fisiche. Parliamo con i nostri amici veri anche via Facebook. Quando mia figlia insegnava nella giungla del Costa Rica, le parlavo via mail. E credo che così ho potuto rafforzare il mio rapporto con lei».

«Le due dimensioni si fondono assieme come una lega di metalli, creandone uno nuovo, più forte. Una relazione solo digitale – un amico di Facebook che non incontriamo mai – è del tutto priva di capitale sociale, invece. È confermato da molti studi, per esempio da uno recente della canadese British Columbia: la nostra felicità è connessa al numero di amici reali che abbiamo, mentre non ha alcuna relazione con il numero di amici di Facebook».

A un certo punto Putnam alza le mani: «Non so davvero prevedere che impatto avrà internet sulle nostre relazioni sociali. E non mi sento in colpa per la mia ignoranza: tutte le previsioni che ci sono state sulle novità tecnologiche – dalle auto al telefono fisso – si sono rivelate sbagliate nel lungo periodo».

«Però sono convinto che due fattori avranno un impatto più di internet, sul capitale sociale: la crescita delle diseguaglianze e della diversità». Quest’ultima, per via delle immigrazioni di massa, «nel breve periodo peggiorerà il capitale sociale, rendendo la gente più sospettosa gli uni con gli altri. Nel lungo periodo, però, arricchirà la società. Anche in questo caso possiamo dire che si formano nuove “leghe”, migliori dei semplici metalli che c’erano prima».

«Il problema è la crescita delle diseguaglianze (il tema alla base del Nobel per l’economia 2015 ad Angus Deaton, ndr). Non vuol dire solo la differenza economica tra ricchi e poveri. Negli Stati Uniti andiamo verso nuove forme di segregazione: i gruppi sociali vivono in modo completamente diverso tra loro, isolati gli uni con gli altri, come descrivo nel mio ultimo libro (“Our kids: the American dream in crisis, uscito quest’anno negli Usa, ndr)». Ma internet, abbattendo le distanze, non ha il potere di avvicinare gruppi sociali diversi? «No, anzi: nel libro noto che la vita delle persone su internet conferma questa segregazione. I diversi gruppi parlano tra loro in network separati. Non si incontrano in discussione, né si contaminano grazie a internet. Dove infatti siamo portati a incontrarci e parlare con persone simili a noi e che la pensano nello stesso modo».

«Vale il principio già detto: internet facilita la circolazione di informazioni, ma non è condizione sufficiente per creare relazioni vere. Quelle in grado di arricchire il capitale sociale, abbattendo i muri della diversità». «Servono altri fattori che diano un motivo alle persone a stringere relazioni. Solo a questo punto internet si presenterà come uno strumento utile per fare da ponte». È una condizione facilitante, non l’arma finale per proteggere il capitale sociale dai pericoli che arrivano dalle crescenti diseguaglianze .

 

 

 

Le fratture della lunga durata

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Jacques Le Goff (1924-2014), Jean-Pierre Vernant (1914-2007)

Il dialogo tra il medievista e l’antichista, registrato in un colloquio radiofonico nel 2004. Tra i temi la tragedia greca e il suo declino nel medioevo, il lavoro e l’identità europea

Massimo Firpo – Il Sole 24 Ore 18 ottobreLe Goff Vernant

 

Nati a dieci anni di distanza l’uno dall’altro, rispettivamente nel 1914 e nel 1924, Jean-Pierre Vernant e Jacques Le Goff, entrambi ormai scomparsi, sono stati tra i massimi storici della loro generazione, e non solo in ambito francese, noti anche al grande pubblico grazie alla loro capacità di rivolgersi ad esso con opere di impianto non accademico. Storico, studioso delle religioni antiche, antropologo, autore di numerosissime opere, Vernant ha incentrato le sue ricerche sul pensiero greco, sulla tragedia, sul passaggio tra mito e ragione come premessa della nascita della polis e della democrazia, mentre Le Goff è stato un medievista di fama mondiale, anch’egli autore prolifico e capace di spaziare su temi molto diversi, dal ruolo degli intellettuali alle origini della dottrina del purgatorio, dalla biografia di san Luigi al sostituirsi del tempo del mercante (l’orologio) a quello della Chiesa (le campane), dai banchieri e usurai a san Francesco, da opere di sintesi a scritti di metodo storico. Due grandi studiosi, di cui questo libriccino ripropone un vivace colloquio radiofonico del 2004.

Prospettive in parte diverse, quelle di Le Goff e Vernant, variamente segnate dal confronto tra la storia e le altre scienze sociali, storia delle religioni e sociologia, antropologia ed economia, e dal dialogo critico con maestri illustri quali Fernand Braudel e Maurice Lombard per Le Goff, Louis Gernet e Ignace Mayerson per Vernant, Georges Dumézil e Claude Levi-Strauss per entrambi, ma accomunate dall’essere state al cuore della straordinaria esperienza storiografica delle «Annales», la celebre rivista fondata nel 1929 da Marc Bloch e Lucien Febvre, volta a rinnovare profondamente temi e metodi della ricerca ponendo al centro delle indagini non più una storia politica e diplomatica tutta evénémentielle o una storia della cultura come mera storia delle idee ancora egemoni alla Sorbona, ma la storia sociale, le lunghe durate, le strutture, lo sguardo dal basso, l’incrocio tra discipline diverse. Quando «ci mettemmo a leggerle […] fu un incantamento, poiché ci apriva orizzonti straordinari», afferma Le Goff nell’evocare quel vero e proprio paradigma storiografico destinato a segnare mezzo secolo e oltre di egemonia della scuola storica francese. Di essa tanto lui quanto Vernant sono stati esponenti illustri, anche se da punti di vista diversi, nutriti della loro diversa esperienza umana e intellettuale – maestri, incontri, letture, interessi – e maturata nelle loro ricerche sul campo. Non stupisce affatto che entrambi ne parlino con giusto orgoglio, mentre rimane più sbrigativa e sfocata la loro riflessione sulla crisi di quel modello, come del resto era prevedibile da parte di uomini ormai anziani, più propensi a discutere del passato che del futuro e del resto chiamati a parlare anzitutto di sé.

Non a caso, le pagine più interessanti di questo dialogo tra due grandi vecchi sono quelli in cui si affrontano temi comuni, come per esempio laddove Le Goff, dopo aver ascoltato le parole di Vernant sulla tragedia, ne sottolinea la sostanziale scomparsa nel medioevo, durante il quale il suo ruolo nella vita sociale fu assolto piuttoso dai riti della liturgia cristiana; oppure quando essi discutono del diverso ruolo del lavoro nel mondo greco e in quello medievale; o ancora quando si confrontano sulla crisi della storia al giorno d’oggi e sulle sue prospettive per il futuro o sulla necessità di «impiantarsi» su uno specifico terreno di ricerca per poter acquisire padronanza delle fonti, sottraendosi al mero gusto dell’innovazione o dello sperimentalismo metodologico, fermo restando il principio teorizzato da Bloch, secondo cui sempre lo storico è e deve essere come l’orco che indirizza la sua caccia ovunque avverte l’odore della carne umana. Particolarmente interessanti sono le pagine in cui al centro del dibattito si pone il ruolo avuto nella loro formazione culturale dallo strutturalismo di Levi Strauss, cibo difficilmente digeribile dallo storico, in genere più ghiotto del mutamento che della continuità: «Non sono sicuro che si possa passare senza grandi precauzioni dai miti greci ai miti africani o amerindi. E non sono nemmeno sicuro che si possa esplorare il funzionamento dell’intelligenza umana senza far riferimento all’idea che esistono cambiamenti, soglie, rotture, modificazioni nella logica, nella scienza, nella sensibilità», afferma Vernant (ed è difficile dargli torto), concludendo che «anche la psicologia è, dunque, storica» e che non esistono «società fredde» e «società calde», poiché tutte le società sono «più o meno calde», conoscono trasformazioni, sono immerse nel tempo e nella storia e quindi, per converso, che non esiste alcuna «storia immobile».

Grandi maestri di cui molti hanno letto i libri affascinanti e di cui merita riascoltare la voce, entrambi fiduciosi sul ruolo che la conoscenza storica tornerà ad avere nel futuro, nella convinzione che, se si riuscirà davvero a costruire un’Europa che abbia senso, occorrerà anzitutto recuperarne l’identità storica e quindi pensare anche «a quello che sono stati e che hanno portato la città antica e il mondo medievale».

Jacques Le Goff, Jean-Pierre Vernant, Dialogo sulla storia. Conversazioni con Emmanuel Laurentin , Roma-Bari, Laterza, pagg. 70, € 14,00

 

Sussidiarietà, immigrati e crisi, le Regioni UE chiedono più poteri

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Europa RegioniA MILANO IL MANIFESTO DELLE ASSEMBLEE SUBNAZIONALI

Laura Cavestri – Il Sole 24 Ore 25 ottobre

 

Rilanciare la “democrazia dal basso” e il ruolo delle rappresentanze territoriali, per ridurre la distanza che separa i cittadini dalle istituzioni.

Questa la missione del “Manifesto delle Assemblee legislative regionali e sub-nazionali” , il documento firmato ieri dai rappresentanti dei parlamenti regionali di Europa, America, Asia e Africa al termine del primo Forum mondiale che li ha riuniti. Una “intranet” delle assemblee locali per ripensare a nuovi modelli di democrazia che valorizzino il principio di sussidiarietà, la ripresa economica, la necessità di ridurre la distanza tra istituzioni europee e cittadini, la partecipazione attiva “dal basso” e la trasparenza. Ma che promuovano anche politiche di coesione e diano risposte concrete alla sfida dell’immigrazione.

L’appuntamento, organizzato dalla Calre (la Conferenza delle assemblee legislative europee, che raggruppa 74 parlamenti regionali europei che rappresentano complessivamente 200 milioni di europei e che è guidata dal presidente di quello lombardo, Raffaele Cattaneo), ha impegnato per due giorni nei palazzi della Regione Lombardia a Milano 250 delegati in riflessioni sui temi della democrazia e delle relazioni internazionali, e in otto tavoli di lavoro tematici.

Il Manifesto, approvato all’unanimità, è stato sottoscritto dai rappresentanti di 10 assemblee che raggruppano parlamenti regionali e che si autodefiniscono le “formiche della democrazia”: Calre (Europa), Aer(Europa), Aebr (Europa), Ncsl (Usa), Tcf (Taiwan), Cplre (Stati Paneuropei), Pcl (Filippine), Unale (Brasile), Jlc (Giappone). Individuate anche alcune priorità di intervento, come il rilancio della competitività, l’eliminazione di povertà e fame, welfare, gestione dell’immigrazione e politiche di coesione per favorire l’integrazione.

«Oggi nasce una rete per lavorare insieme – ha spiegato il presidente del Consiglio regionale lombardo e presidente della Calre, Raffaele Cattaneo –. Senza il livello legislativo regionale il rischio è che la legge e la democrazia si allontanino dal territorio e dai cittadini».

L’ultimo impegno in programma per i delegati internazionali, ieri, è stata una visita a Expo, dove hanno presentato la parte specifica del manifesto su diritto al cibo e agricoltura sostenibile al commissario Giuseppe Sala.

«Le domande che dobbiamo porci in questo Forum – aveva sottolineato venerdì, intervenendo in apertura di lavori, il presidente della Regione Lombardia, Roberto Maroni – sono: a cosa servono le Regioni nell’attuale mondo globalizzato? Quali funzioni potrebbero esercitare? Come possono inserirsi nel quadro dell’evoluzione della governance dell’Unione europea? Vi sono dei settori che dimostrano che il regionalismo, anche in un contesto economico e sociale sempre più globalizzato, se ben attuato e applicato in modo serio e responsabile, è una grande risorsa là dove le performance sono positive».

Tuttavia, per Maroni, la riforma del Senato non va in questa direzione. «La riforma del Titolo V della Costituzione – ha concluso il presidente lombardo – appena approvata sottrae la potestà legislativa alle Regioni, comprese quelle virtuose, rendendo lo Stato centrale sempre più elefantiaco, invasivo, e sempre meno accountable».

 

 

Ernesto Galli Della Loggia ed il Partito che non c’è

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 Della LoggiaQuando l’editorialista del Corriere della Sera ti prende di mira, l’analisi e gli argomenti con cui costruisce l’articolo vanno presi molto sul serio; non solo per la competenza storiografica che gli consente di sostenere la propria tesi, ma in particolare perché nei suoi testi traspare sempre una tensione etica ed il proposito di alimentare la coscienza civica del Paese, evidenziarne le debolezze strutturali ed evitare l’approccio benevolo e conformista nelle prognosi (tendenzialmente infauste).

Il suo ultimo intervento (Il paradosso di Renzi, leader senza partito, mercoledì 21 ottobre)   mi ha sorpreso perché, paradossalmente, ha confermato – con un ragionamento che è una sorta di controprova – quanto da me sostenuto sui sessantenni polemici “a prescindere” nei confronti del presidente del Consiglio.

Quando egli sostiene che “Nell’Italia di oggi esiste Renzi ma un PD renziano, un PD diciamo così modellato e ispirato dalle idee del Presidente del Consiglio, non si vede proprio”, fotografa realisticamente la situazione di un leader che si trova a fronteggiare diffuse ostilità, senza poter contare su un tradizionale apparato di sostegno e diffusione della strategia riformista imboccata dal suo Governo.

Premesso che lo stesso Renzi non sembra farsene un grande cruccio, bisogna precisare e “correggere” parzialmente il professore Galli Della Loggia: i presupposti da cui muove le sue valutazioni, sono incardinati in una conoscenza e lettura della fenomenologia partitica un po’ datata; c’è una sorta di   diacronia per cui il giudizio sulla realtà interpreta il presente con le categorie utilizzate per il più recente passato.

Mi spiego meglio: pur rappresentando il Partito Democratico una corposa eredità del passato (avendo ereditato quella parte di ceto politico della Prima Repubblica sopravvissuto alle autentiche epurazioni determinate dall’azione della Magistratura), esso è diventato – soprattutto nella fase più recente dell’affermazione di Renzi – una realtà più complessa, polimorfa e magmatica.

Oggi vi convivono identità, progettualità, adesioni, molteplici; ragion per cui il volto e l’opinione dei suoi rappresentanti in quella periferia descritta come “un insieme di feudi più o meno grandi in mano a capi locali virtualmente autonomi, di centri di potere di fatto indipendenti, di coalizioni decise ogni volta sul posto”, in effetti sono espressione solo di un pezzo del consenso e/o dissenso su cui il Segretario può contare.

Ciò che sfugge all’editorialista così come a molti politologi (e ad una buona parte dell’apparato che si coagula nella opposizione interna al Partito), è che sono profondamente mutate le condizioni generali delle forme di aggregazione politica e che è avvenuto un mutamento radicale perché “le tecnologie della comunicazione hanno profondamente modificato alcune delle ragioni che erano alla base della nascita e dello sviluppo dei partiti di massa” (Paolo Mancini, Il Post Partito).

Si tratta di un fattore determinante, sottovalutato anche nella pur preziosa escursione-sondaggio realizzato da Fabrizio Barca nel corpaccione composito del Partito Democratico in tutto il Paese (vedi in: http://www.fabriziobarca.it/viaggioinitalia/un-partito-nuovo-per-un-buon-governo-fabrizio-barca/in-sintesi/ ) .

Più perspicace nel comprendere i cambiamenti profondi intervenuti si è dimostrato Carlo De Benedetti in una illuminante intervista rilasciata qualche giorno al direttore de Il Foglio:

Più osservo i cambiamenti della storia recente e più mi rendo conto che spesso si ragiona sulla trasformazione del nostro mondo senza cogliere un punto cruciale. Negli ultimi anni la metamorfosi radicale che vi è stata nel rapporto tra individuo e tecnologia ha portato a una rivoluzione culturale invisibile eppure evidente. E questa trasformazione ha fatto sì che, nella dicotomia tra ideale e interesse, oggi è l’interesse a trainare tanto la società quanto la politica. Chi non mette a fuoco questo concetto fa fatica a capire come sta cambiando il mondo. E non mi stupisce che le forze politiche che si trovano in maggiore difficoltà sono oggi quelle aggrappate a una vecchia e generica idea di sinistra: forze che per troppo tempo si sono preoccupate non della trasformazione del mondo moderno bensì dell’utopistico trasferimento di un ideale all’interno della società”.

http://www.ilfoglio.it/politica/2015/09/18/renzi-pd-che-cos-e-una-sinistra-senza-ideali-intervista-de-benedetti___1-v-132871-rubriche_c315.htm

Ma qui ci proponiamo solo di gettare uno sguardo sullo stato di salute e sull’atteggiamento del Partito veneto, nel quale la recente debacle elettorale e la conseguente decisione di indire il Congresso, ha reso tutto più complicato e difficile.

Ciò nonostante il Segretario regionale Roger De Menech, alla luce della positiva accoglienza ricevuta da Matteo Renzi nella sua recente visita in Veneto (Verona, Treviso, Venezia), ha manifestato ottimismo sostenendo che la “società venetà ha compreso il messaggio lanciato dal Presidente del Consiglio”.

Il fatto è che questa “sintonia” tra territorio e leadership nazionale dovrebbe trovare degli interpreti e propugnatori preparati e coerenti proprio nel Gruppo Dirigente del Partito Democratico locale; ma i veneti (soprattutto quelli del 41 % alle europee) non ne trovano molti riscontri.

Nel caso infatti volessero documentarsi, rimarrebbero sorpresi: dai parlamentari (veneti) che si appassionano nel ruolo di oppositori alle decisioni del Governo, dai consiglieri regionali (veneti) che si rifiutano di “fare il megafono” o che giudicano l’azione di Governo intrisa di “troppa comunicazione e poca riflessione”, da molta parte degli amministratori locali che manifesta sofferenza e difficoltà nel maneggiare i processi di innovazione amministrativa ed organizzativa,   che costituiscono il mantra dei Provvedimenti più importanti ed impegnativi assunti dal Governo in materia di Riforma PA, abolizione dell Province, spending review e razionalizzazione della spesa sanitaria….

Si potrebbe continuare con gli esempi di ordinarie storie di “separati in casa”…

D’altronde, che il Partito Democratico, particolarmente in Veneto, rappresenti una storia di difficile composizione di una molteplicità di sensibilità e visioni è ben documentato; rinvio per questo alla mia recensione del libro che l’ha affrontata in modo esmplarmente esaustivo (Andrea ColasioVento del Nordest. Storia e storie del Partito Democratico):

http://storiaecultura.ning.com/profiles/blogs/la-versione-di-andrea-su-storia-e-storie-del-partito-democratico

Eppure le ragioni per un sussulto che consenta di superare una persistente precarietà del rapporto periferia-centro e di imboccare la via di una efficace sintesi tra la rappresentanza degli interessi territoriali e la coerenza nel sostegno alla governance (riformista) nazionale sono ineludibili; e dovrebbero costituire il terreno di confronto, elaborazione programmatica e rigenerazione organizzativa condiviso da tutti coloro che, pur riconoscendosi nella funzione positiva della leadership renziana, sono consapevoli che, per riprendere le conclusioni del citato articolo di Galli Della Loggia “senza un partito alle spalle il suo retroterra è destinato a restare perennemente sguarnito. Presidiato da successi elettorali forse anche importanti, ma di scarsa utilità quando si tratta di pensare le cose da fare, come farle, con chi farle”.

Sindrome necrofagia

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Per necrofagia si intende il comportamento alimentare di organismi predatori carnivori che consumano carne di cadaveri o carogne di altri organismi morti di morte naturale (per vecchiaia o malattia) o uccisi a scopo non alimentare da altri predatori, o ancora sottratti con la forza ai predatori originari. (Wikipedia)

Detta in modo sbrigativo: in natura, ci sono animali che si comportanto da bestie!

Purtroppo, succede anche nel mondo immaginato da alcuni aspiranti leader politici: quando resta a terra esanime una persona responsabile di comportamenti devianti e/o riprovevoli, scatta il riflesso condizionato del necrofago.

Cosicchè di fronte al dramma della morte e del sangue, che dovrebbe costituire l’occasione per un sussulto di pietas, consapevolezza e discussione sulle misure più razionali per gestire la sicurezza e sui comportamenti più efficaci per prevenire, affrontare e valutare le situazioni di pericolo, c’è chi si precipita (a telecamere accese) ad addentare e brandire le membra del disgraziato.

L’integrità e l’inviolabilità dei nosttri corpi e delle nostre case sono un argomento serio, che sollecita una rinnovata capacità di tutela, presidio del territorio, difesa dell’ordine sociale e della legalità; servono fermezza, compostezza, lucidità e forza a tutti il livelli (associazionismo, amministrazioni locali, forze dell’ordine, magistratura) , non sceneggiate prive di umanità.Necrofagia

Lo “scoutismo” del Premier che irrita e sconcerta i Sessantenni rosiconi e frustrati

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 Renzi scoutIl coretto di affermazioni stizzite e velenose, di critiche capziose e superficiali, di polemiche ideate per uscire da un frustrante grigiore esistenziale e rivitalizzare il proprio appeal mediatico, ha assunto ormai le caratteristiche di una cacofonia insistita e rivelatrice di una personalità disturbata degli stonati cantori dell’antirenzismo d’ordinanza.

Ciò che più mi disturba di questi rumori molesti che risuonano nei talk show per sfigati e nelle interviste di media in disperato deficit di ossigeno, è che sono “emessi” da molti miei coetanei che navigano da (troppo) tempo nelle acque della politica e/o frequentano compulsivamente il modo avariato dell’informazione.

Lo dico senza giri di parole: alcuni di loro mi fanno letteralmente imbestialire perché manifestano delle degenerazioni caratteriali che appaiono con evidenza correlate all’età e ciò – francamente – mi interroga e rattrista perché la “connessione generazionale” è un dato di fatto non occultabile e provoca rischi di contagio…

Li vedo oscillare frastornati tra la sorpresa e la frustrazione perché il “Royal baby” quarantenne (copyright Ferrara) li ha asfaltati e derubricati politicamente, e non riescono a farse una ragione.

Si fanno obnubilare dal risentimento e dalla ricerca di argomentazioni improbabili pur di oscurare le doti ed i meriti che il (relativamente) giovane Matteo Renzi ha immesso nell’incartapecorito agone politico italiano.

Cosicchè li vedi arrancare e rinculare con le polemiche astiose, il ricorso al professionismo politico del tatticismo sterile, alla verbosità professorale dei ghirigori, all’astiosità del linguaggio giornalistico …

Il semplice buonsenso suggerirebbe l’assunzione di un atteggiamento critico ma proattivo nei confronti dell’accelerato (e necessitato) riformismo introdotto nell’agenda politica.

Non è difficile cogliere in tale cambiamento limiti e contraddizioni, ma contestualmente è miope non leggervi gli elementi di vivacità, energia, intraprendenza con cui il leader fiorentino l’ha innovata, evitando il suo “spegnimento” provocato dalla delega in bianco alla tecnocrazia e dalla retorica del populismo.

La galleria dei Sessantenni colpiti dalla sindrome dell’allentamento prostatico è davvero impressionante e, a differenza della nota pubblicità, vi emerge che i poveri disgraziati non fanno nulla per dissimulare il loro “disagio”.

Che è ben identificabile: nei toni esagitati e negli occhi sbarrati nelle interviste tutte tese a preconizzare (leggi Brunetta – 65 anni -) od auspicare (leggi D’Alema – 66 anni -) l’imminente fallimento del “giovane arrogante”; nella dissociazione antropologico-culturale “Renzi per me è un alieno” (Serra – 61 anni -); nelle accuse parossistiche “Renzi insulta l’intelligenza degli italiani” (Bersani – 64 anni -); negli insistiti giudizi velenosi “Renzi è una sintesi del berlusconismo di sinistra” (De Bortoli – 62 anni -); nei strafalcioni politologici “il presidente del Consiglio ha un po’ troppo in mente il modello della Thatcher” (Camusso – 60 anni -; nel caso di Grillo (67 anni), la maschera ed i lazzi del comico scivolano inesorabilmente dall’invettiva allo sproloquio offensivo e degradante…

L’invito che mi sento di fare a tutti loro (ed ai molti altri che usano i toni e gli allarmismi da “pericolo per la democrazia” è: fatevi una ragione delle novità e delle utili provocazioni immesse sulla scena politica dalla “generazione Leopolda”; assumete un atteggiamento meno spocchioso e sprezzante nei confronti di una iniziativa riformista che deve fronteggiare l’eredità pesantissima delle dissennate politiche del passato con cui sono stati sottoscritti i “pagherò” che angosciano il futuro dei giovani e che sono stati usati spregiudicatamente per alimentare gli appettiti delle corporazioni e le illusioni dei visionari e di un ampio ceto di cazzeggiatori specializzati nel rinvio delle decisioni scomode.

Ed anche un consiglio mi sento di dare: nella strategia renziana sono presenti molti punti deboli (politica estera tremebonda, i pezzi di Sud alla deriva, incrostazioni parassitarie della spesa pubblica resistenti, assenza del dialogo sociale); tutto ciò non deve però far sottovalutare Il fatto che l’ex giovane scout dimostra una leadership in grado di interpretare il desiderio profondo, della parte di Paese più generosa e dinamica, di investire e partecipare alle sfide poste dal programma di riforme al centro del dibattito politico.

Non solo: Renzi ha il merito di aver focalizzato nella competizione programmatica (in cui le leve fondamentali sono costituite dal pragmatismo decisionale e dalla visione dell’interesse generale) la via per uno scarto evolutivo dell’intero sistema partitico ed istituzionale.

Viviamo, insomma, una stagione nella quale il “movimento della storia” sollecita tutti ad un cambio di marcia e di paradigmi interpretativi della realtà sociale ed economica; per restare all’oggetto di questa riflessione, la chiave suggerita è quella del dialogo intergenerazionale che – in estrema sintesi – può consentire di coniugare il coraggio delle scelte innovative con la maturità e le competenze dell’esperienza.

Il Sindaco di Venezia (54 anni) rispondendo alla domanda del giornalista – dopo l’incontro con il Presidente del Consiglio svoltosi sabato scorso – “Ha iducia in Renzi?”, si è espresso così:

“E’ un fuoriclasse. Un uomo di 40 anni che mostra energia e attenzione ai dettagli: è una fortuna averlo come premier e da amministratore trasversale dico che è necessario che intorno a lui si crei un’Italia che ci crede”

 

PS: un discorso a parte sui professionisti del pre-giudizio lo meriterebbe Cacciari che essendo “fuori coorte anagrafica”, dall’alto dei suoi 71 anni e del cospicuo background, potrebbe assumere un atteggiamento più sobrio e distaccato dei sessantenni rosiconi, ma un carattere ed un pensiero indomiti lo inducono ad eccedere; in particolare manifestando una certa foga nel mettere alla berlina la squadra di “giovinastri e dilettanti” che hanno occupato Palazzo Chigi. Purtroppo, tutti i media golosi delle sue performance polemiche (dal Fatto Quotidiano ad Otto e mezzo, passando per Repubblica) ne sollecitano l’opinione e lui, povero sventurato, non si sotrae, rispondendo ineffabile e inanellando giudizi e previsioni (che si rivelano spesso sballate) con un atteggiamento borioso, sbuffante, didascalico, accademico, tranciante, insultante, smemorato, burbero…..Ma bisogna riconoscere che le sue contumelie esprimono una passionaccia civile ed un approccio schietto, in cui non vi è traccia di acrimonia, bensì vi traspare il desiderio di immettere nell’auspicato e condiviso rinnovamento del sistema politico un di più di intelligenza e competenza (e Dio sa quanto necessarie!).